Speciale
Elogio dell’incompiutezza
Il non finito in pittura e in scultura fa spostare lo sguardo dall’esecuzione all’elaborazione e, così facendo, spinge a interrogare il senso del confine. Le frontiere sono la guerra, i confini la vita. Un confine congiunge mentre separa, collega mentre si differenzia. Esso costituisce un passaggio fra mondi. Il non finito è il racconto del dramma di questo passaggio. Il non finito è una negazione che apre un mondo.
Gli impressionisti avevano idee analoghe a quelle che guidavano la ricerca di Leonardo. Guardare la natura in plein air significava anche eseguire non per imitare, ma per offrire tutti gli elementi dell’elaborazione grazie a cui il pittore, come ebbe a dire Paul Klee, non riproduce il visibile, bensì rende visibile (P. Klee, Confessione creatrice, Abscondita, 2004, p. 13). Se la pittura, come Cézanne, gli impressionisti, Klee, Delaunay, Boccioni, non è più riproduzione della natura, ma asserzione sul mondo, interrogarsi sull’elaborazione di ciò che si esegue è necessario e inevitabile.
Mentre avanza il mondo della precisione e dell’esattezza, l’arte si interroga con il non finito di Michelangelo, ossessionato com’era dal passaggio e dal movimento tra la materia e la forma e si propone con lo sfumato di Leonardo, il quale, per intendere prospetticamente il mondo rappresentato matematicamente dalle linee, deve sovrapporre lo sfocare dei colori e l’indebolirsi dei contorni.
Ciò accadrà ancora nel XIX secolo quando Géricault, in Le derby de 1821 à Epsom, per dare il senso del movimento, allunga i cavalli in modo sproporzionato rispetto alla loro dimensione. Ma cos’è più realistica, si domanda Auguste Rodin, una pittura che, deformando restituisce il senso del movimento dei cavalli o una fotografia che in un fotogramma tiene sospesi quei cavalli nell’atto di saltare ma in un modo che non vediamo mai nella realtà? (A. Rodin, L’Arte. Conversazioni raccolte da Paul Gsell, Abscondita, 2003, p. 48). Pavel Florenskij e Maurice Merleau-Ponty seguono Rodin.
Ma cos’è il non finito? Esso ha a che fare con l’incompiutezza come momento del conoscere. Ma l’incompiutezza è propriamente un non compiuto, dunque una negazione? L’incompiuto ha a che fare con l’elaborazione, il compiuto con l’esecuzione. Leonardo, perduto com’era nell’elaborazione al punto da non riuscire a rendere compiuta un’esecuzione, è un uomo che non comprende la modernità oppure la comprende fino al punto da concepire l’elaborazione come la vera esecuzione, l’incompiuto come la vera compiutezza?
Il problema di Leonardo fu il dubbio di Marx e di Cézanne. L’elaborazione in loro eccede l’esecuzione. Leonardo progetta senza realizzare, Marx scrive almeno il triplo di ciò che consegna alle stampe, Cézanne ritorna più di sessanta volte sulla Montagna Sainte-Victoire astrattificandola ma senza mai concluderla.
Leonardo anticipa di alcuni secoli il dramma del pittore Frenhofer, il protagonista di Il Capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac.
Quando Frenhofer, il protagonista del racconto di Balzac, si decide a far vedere quel quadro su cui aveva lavorato per anni ai suoi amici Porbus e Poussin, esclama:
«Ebbene, eccolo!» disse loro il vegliardo. I suoi capelli erano spettinati, il volto acceso da un’eccitazione sovrannaturale, gli occhi scintillanti; era affannato come un giovane ebbro d’amore. «Ah! Ah!» – gridò – «Non vi aspettavate tanta perfezione! Siete davanti a una donna e cercate un quadro. C’è tanta profondità in questa tela, la sua atmosfera è così vera che non riuscite più a distinguerla da quella che ci circonda. Dov’è l’arte? Perduta, scomparsa! Ecco le forme stesse di una fanciulla. Non ne ho forse colto a dovere il colore, la nettezza del contorno che sembra delimitarne il corpo?
Non è lo stesso fenomeno offertoci dagli oggetti che sono immersi nell’atmosfera come pesci nell’acqua? Ammirate come i contorni si staccano dal fondo! Non vi sembra di poter passare la mano su questo dorso? Così, per sette anni, ho studiato gli effetti dell’unione della luce e degli oggetti. E questi capelli, forse che la luce non li inonda?... Ma ella ha respirato, credo!... Questo seno, vedete!... Ah, chi non l’adorerebbe in ginocchio? Le carni palpitano. Sta per alzarsi, aspettate!». «Scorgete qualcosa?» domandò Poussin a Porbus. «No…E voi?». «Nulla». (H. de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, Rizzoli, 2002, pp. 153-155)
Quel nulla era in realtà, agli occhi di Poussin, «un ammasso confuso di colori delimitati da una quantità di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura».
Ma forse, come intuì Rilke quell’ammasso confuso era invece ciò che l’incompreso Cézanne avrebbe creato dipingendo la Montagna Sainte-Victoire (R.M. Rilke, Lettere su Cézanne, Passigli, 2001, p. 56).
Di Marx il genero Paul Lafargue ha scritto:
Non era mai contento del suo lavoro, lo ritoccava sempre ma trovava l’esposizione inferiore alla concezione. Uno studio psicologico di Balzac plagiato in modo pietoso da Zola, Le chef d’œuvre inconnu, gli fece una profonda impressione perché descriveva in parte i suoi stessi sentimenti: un pittore geniale è talmente tormentato dal desiderio di rappresentare le cose nel modo preciso in cui si rispecchiano nel suo cervello, che continua a limare e a ritoccare il suo quadro, in modo da creare alla fine null’altro che una massa informe di colori in cui però i suoi occhi suggestionati vedono la più perfetta riproduzione della realtà. (Colloqui con Marx e Engels, a cura di H.M. Enzensberger, Einaudi, 1977, pp. 248-249)
Karl Marx, nell’inseguire il reale storico della società e delle sue contraddizioni, sa che l’elaborazione non può non eccedere l’esecuzione, per questo la sua forza teorica e intellettuale oggi emerge anche da ciò che ha scritto e non ha pubblicato. Il vero problema teorico non è l’esecuzione compiuta del progetto, ma l’elaborazione del reale che si rende necessaria per eseguirlo. Era ciò che inseguiva anche Leonardo da Vinci per il quale la conoscenza era più la domanda sul modo di fare che la risposta della cosa fatta.
Cézanne come Leonardo non vuole imitare i pittori, ma interpretare la natura.
Per fare questo, tuttavia, per guardare, come Leonardo la natura e come Marx la società, Cézanne fu attraversato dal dubbio che scosse Frenhofer, il pittore di Balzac. Sentendo parlare dal suo amico Émile Bernard di Il capolavoro sconosciuto rivolse il dito contro sé stesso come a indicare che Frenhofer era lui. Émile Bernard, il pittore che lo andò a trovare e narrò questa storia, ebbe a scrivere:
E invece, egli [Cézanne] era ben lontano e dal genio impotente di Frenhofer, dall’impotente natura di quel Claude Lantier, con cui Zola aveva voluto rappresentarlo. Così, quando anni dopo […] scrissi di Cézanne […] misi in apertura questa frase che mi pare lo riassuma abbastanza bene, identificandolo nel personaggio di Balzac: Frenhofer è un uomo appassionato della nostra arte. Egli vede più in alto e più lontano di tutti gli altri pittori. (É. Bernard, Mi ricordo Cézanne, Skira, 2011, p. 34)
Anche Leonardo vide più in alto e più lontano degli altri. Comprese che la conoscenza ha bisogno dell’intreccio fra esattezza e fantasia e che quando l’elaborazione eccede l’esecuzione, il non finito non esprime incompiutezza bensì il dramma della conoscenza umana che mentre cerca l’infinito al di fuori di sé, lo trova dentro di sé, nella propria mente, nell’immaginazione, nel proprio fingere, se per fingere intendiamo ciò che questa parola effettivamente significa: plasmare, formare, darsi quei contorni che ti fanno pensare a un altrove, come una mappa che non è il territorio, come il quadro che non è il paesaggio, come gli spazi di là dalla siepe in cui il pensiero dolcemente annega. Frenhofer è questo. La politica, in quanto agire critico nel passaggio tra futuro e passato, dovrebbe esserlo.
Il non è, la negazione, è il non finito.