Chatillon / Paesi e città
Ci fu un tempo - e non era al Tempo dei Tempi ma appena due generazioni fa - che il mio amato paese (4.948 anime attuali) era, in tutta la sua lunghezza, una staffetta di osterie. Né caffè né birrerie, ma osterie. Cioè: osti, ostesse, vino ed amanti del vino. Di vino erano impregnati banconi e tavoli e sedie, e i muri ormai traspiravano vino. E facce da vino avevano i loro frequentatori, e ritmi da vino, e discorsi da vino.
Se si vuole capire e non cadere in anacronismi, bisogna pensare che in quei luoghi non si beveva ma si ministrava un rito: il rito del vino, appunto, antico come il mondo occidentale e sacrale come quel mondo sapeva essere. E chi nell’arco di una giornata le avesse percorse tutte, quelle osterie, dall’estremo occidente all’estremo levante del paese, e le avesse contate, avrebbe saputo che erano in numero di quattordici (come le stazioni di una rossa via crucis), sarebbe giunto all’ultima (“È sepolto. Dopo tre giorni risorge”) in uno stato di mistica alcolica, e quindi sarebbe stato riportato a casa da una moglie rassegnata o furibonda.
Come in ogni rito vero, agivano, in quelle osterie e appena fuori di esse, le personae del capro espiatorio destinato a morire in qualche reparto di Medicina Generale, del sacrificante, delle comparse buffe e tragiche, e le danze di chi è posseduto.
E le lingue in cui il rito si recitava erano i nostri dialetti: l’indigeno francoprovenzale incrociato agli apporti allogeni del veneto, del piemontese, del friulano, ormai – negli anni ’50 - avvertiti come un’unica variante del parlar settentrionale, e le “novità” del calabrese e del siciliano giunte da un imprecisato “bà-per-lé” (giù-per-di-là) tanto remoto quanto indecifrato.
La scomparsa di quelle osterie - cominciata negli anni ’60, con il boom - fu l’inizio della fine di quel paese e l’inizio di un altro che è poi quello in cui vivo, e che il turista rivolto a mete più ambiziose (Cervinia, Cogne, Courmayeur) può - se vuole una pausa non autostradale - attraversare.
E fu, insieme, la scomparsa del Tipo Umano che in, da, con e per quelle osterie s’era costituito. E la sua progressiva sostituzione con il Tipo da caffè, da bar, da pub, da brasserie, da discoteca, da salagiochi o, peggio, da hostaria.
La trasformazione antropologica dell’Italiano, che Pasolini ci ha detto in modo insuperato, avrebbe potuto essere testata nel mio piccolo amato paese proprio confrontando quel prima e quel dopo-osterie. È vero: ancora oggi, in paese, circola qualcuno che si crede Gesucristo e un altro che si comporta come la reincarnazione di Leopardi ma la loro sofferenza resta fatto privato e, loro, individui isolabili, controllabili con la giusta dose di psicofarmaci.
Come in tutti i centri maiuscoli e minuscoli d’Europa, la venuta-su-come-funghi di supermercati e capannoni alla periferia del paese, ha fatto divorare dal cemento dal ferro e dal catrame il tesoro dei prati più grandi e belli che i nostri spazi ristretti potessero vantare: inno alla Bruttezza che è inutile denunciare perché “crea posti di lavoro” come dice la maggioranza. (Per il suo Veneto l’ha urlato Andrea Zanzotto, inascoltato.) Che poi “crei posti di lavoro” è una balla gigantesca come può verificarsi osservando le tante piccole attività commerciali ed artigianali abbandonate nel vecchio borgo.
Tre notevoli castelli diversissimi per tipologia e destinazione continuano a far da sentinelle a nord a sud e ad ovest del paese, come irritati d’essere sopravvissuti non al loro tempo ma al Tempo stesso della Storia che -magnifica o tragica - comunque si dava.
Non diversamente, il monumento ai caduti di tutte le guerre - collocato nel centro di un paese posto a sua volta al centro stesso dell’Europa - constata il suo dopostoria: i vivi ci passano davanti ogni giorno ma senza più occhi e mente e cuore per vederlo. Lo possono vivere, al massimo, come inciampo alla circolazione o punto di ritrovo per un appuntamento o come impropria panchina: il suo significato è morto con la morte del Tempo Collettivo e il trionfo del tempo dell’orologio da polso.
Le festività per cui lo si rilucida e riaddobba non fanno che confermarne la vita artificiale; la pax aeterna europea lo ha ridotto a fossile, impenetrabile dalle nuove generazioni esattamente come un tempio egizio o un reperto preistorico. Un senso di incredulità emana dai nomi dei caduti: davvero cento o settanta anni fa quei giovani sono stati uccisi? Davvero si moriva non di tumore o di infarto ma di patria? Resta il fatto che i nomi delle nostre vie e delle nostre piazze sono ancora quelli di martiri e di eroi…
Trecento metri più in là, un arco di ponte romano, incerto, sopravvive: è sufficiente che una delle quaranta pietre che lo costituiscono ceda e l’intero arco del ponte - duemila anni di vita - sul quale passarono le legioni a conquistare le Gallie, sarà nell’acqua del torrente per sempre: il pensiero, però, non pare disturbare il sonno a nessuna autorità, a nessun cittadino. Al di sopra di questo, su un altro ponte, quello cristiano, i pellegrini scendevano dal Nord Europa a Roma…
Una viuzza del paese alto è stata colonizzata da immigrati marocchini tanto da farsi ribattezzare “Via Marrakech”, ma di Marrakech manca la folla vitale e la musica incantante e la folle piazza dove tutto si vende, dalla scimmia viva alla dentiera usata. Non mancano invece le donne velate (velo e jeans, concentrato di globalizzazione) e le madri perennemente incinte come al tempo delle nostre bisnonne: ritorno ad improbabile Arché o nebuloso Nuovo-che-Avanza?
I gatti, i cani, i passeri, i castagni, le cime innevate d’Aprile, i meli, le mucche, i ciliegi, anch’essi vivi e anch’essi paese, guardano con il loro Terz’Occhio e per la loro estrema saggezza restan muti.
In copertina: L’Alpino e la Vittoria, remoti come le Piramidi egizie e la Sfinge…