Raven Leilani tra MeToo e Black Lives Matter / Chiaroscuro: un romanzo di rabbia

11 Aprile 2021

In questi giorni, cercando notizie su Raven Leilani, scrittrice afroamericana al suo debutto italiano con Chiaroscuro, uscito l’anno scorso negli Stati Uniti e pubblicato di recente da Feltrinelli con la traduzione di Stella Sacchini e Ilaria Piperno, ho scoperto molte cose interessanti. Per esempio che per Leilani l’ultimo anno, tra successo del libro e padre e fratello morti, è stato intenso ma molto difficile. Che a un certo punto ha abbandonato la fede religiosa. Che le piacciono i completi da yoga. Che la sua scrittrice di riferimento è Audre Lorde. Ripesco quindi un piccolo saggio intitolato Usi della rabbia: donne che rispondono al razzismo, in cui Audre Lorde scrive (traduco dalla raccolta Penguin intitolata The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s house): “La mia risposta al razzismo è la rabbia.

 

Ho vissuto a lungo con questa rabbia, ignorandola, nutrendola, imparando ad usarla prima che portasse le mie visioni alla rovina, come ha fatto per la maggior parte della mia vita. Una volta lo facevo in silenzio, spaventata dal suo peso. La mia paura della rabbia non mi ha insegnato niente. La tua paura di quella rabbia non insegnerà niente neanche a te”. Nelle foto, Leilani ha un’aria preoccupata e poco rilassata; non sembra che le lodi della critica abbiano cambiato granché la sua postura generale nei confronti del mondo, e la rabbia di cui parla Audre Lorde è un motore chiaramente percepibile in Chiaroscuro, titolo che restituisce la sostanziale ambiguità del titolo originario, Luster, tutto giocato sulla contiguità tra Lust (lussuria) e Lustre (lustro), e che racchiude perfettamente i nuclei portanti del libro. 

 

In Chiaroscuro la protagonista, una ventenne di nome Edie che lavora in una casa editrice come responsabile della narrativa per bambini, inizia una relazione con un uomo bianco molto più grande di lei. Edie ha alle spalle una famiglia disastrata, tende ad andare a letto con ogni uomo che incontra, ma soprattutto è una persona senza rete: senza protezione sociale, senza legami veri, senza soldi da parte. Ecco perché, quando viene licenziata dalla casa editrice per aver fatto troppo sesso coi colleghi, finisce prima a fare le consegne e poi direttamente a casa del suo amante, un giorno in cui si intrufola nella sua bella casa nel New Jersey per curiosare. Qui viene sorpresa dalla moglie, Rebecca, che invece di cacciarla la ingloba nel loro nucleo familiare di coppia aperta ma con regole precise e figlia adolescente e problematica. Akira, la figlia, non solo è una nerd dai capelli strani ma è anche l’unica afroamericana di quel contesto. L’intenzione di Rebecca è probabilmente di aiutare la figlia introducendo nella loro vita una persona che capisca i problemi di identità e di adattamento di un’adolescente nera. Tuttavia, Akira le rimane distante, chiarendo subito di non voler familiarizzare con l’amante del padre. Del tutto inaspettatamente, Edie creerà un legame forte proprio con l’apparentemente algida Rebecca; la loro tensione sessuale si risolverà in una serie di ritratti di Rebecca ad opera di Edie, che imparerà a guardare “dentro” le persone e non solo “attraverso” e tirerà fuori una vocazione artistica repressa da troppo tempo. 

 

 

Torniamo alla rabbia. Come riconosce Leilani nelle interviste, la rabbia è il vero motore del romanzo, e a livello stilistico si traduce in vere e proprie frasi-proiettile costruite con grande sapienza ma anche implacabilmente. Fin dall’inizio c’è la totale consapevolezza dello squilibrio sociale, economico, culturale ma anche emotivo tra Edie ed Eric: tutta una rete di gesti, di abitudini, di cose date per scontate che Edie, con la sua storia di povertà e svantaggio emotivo, può solo sognarsi. Questo dislivello è ovviamente propulsivo del desiderio: con la sconcertante onestà che le appartiene, alla fine del romanzo la voce narrante lo ammette: “Insomma, non devo star qui a spiegarvelo: quel che trasforma un uomo più grande in una specie di prodigio è il semplice fatto di aver pagato trentotto anni di bollette della ConEd, subìto intossicazioni alimentarie e seguito i rapporti sul clima senza essersi ucciso; eppure, dopo ventitré anni in un corpo di donna, dopo la torsione ovarica e il prestito d’onore e l’avvento dei nuovi nazisti in camicia con colletto a bottoncini, anch’io sono ancora viva – e, a ben pensarci, è questa l’impresa più sorprendente. Invece, mi sono lasciata impressionare dalla sua modesta competenza con la carta dei vini”.

 

Alexandra Schwarz del New Yorker ha fatto notare come l’argomento del romanzo si incastri perfettamente nell’atmosfera di questi anni, tra affermazione del MeToo e istanze del Black Lives Matter; eppure, dice a un ipotetico lettore del romanzo: “immagina di cercare la lezione e di trovare, invece, Edie, sola e disorientata, fortunatamente incapace di dare lezioni a nessuno, nemmeno a se stessa”. Per fortuna i giri tortuosi che fa il desiderio di Edie rendono la narrazione più complessa e problematica di ogni prescrizione su ciò che è politicamente corretto. L’immagine finale di questo libro potente e dotato di una scrittura realmente sorprendente è Edie che racconta come la sua arte non sia in fondo che il racconto di una sopravvivenza riuscita, e di come quello che si aspetta dall’arte non sia, in fondo, che trovare prima o poi la propria immagine fissata su una tela. 

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