Le immagini secondo James Elkins / Il cosmo legnoso
Pittura su legno
Lavorando sull’immaginario alchemico, lo storico dell’arte americano James Elkins si reca un giorno alla biblioteca dell’università di Glasgow, ricco di manoscritti e incunaboli sull’alchimia e la chimica, le scienze occulte e la stregoneria, la Kabbala, i Rosacroce e la massoneria. Compulsando il fondo della John Ferguson Collection, il suo sguardo cade sulla scheda di un documento di cui è ignoto l’autore, la data, la provenienza, la storia e, come si renderà presto conto, anche il senso.
È così, per pura serendipity, che s’imbatte in un manoscritto misterioso, il cui unico indizio viene dal frontespizio, ammesso che sia della stessa mano delle illustrazioni, cosa di cui dubita. Qui si accenna alla magia naturale, alla natura pneumo-cosmica, all’autore come scimmia della natura, a disegni dipinti e incisi e modellati in rilievo.
Il libro si compone di 52 acquerelli rotondi di una dimensione variabile tra 11 e 13 cm (poco più grandi di come li vediamo ora sullo schermo dei nostri computer), realizzati su carta olandese e databili all’incirca a metà Ottocento. Ci troviamo senza dubbio in un contesto ermetico sebbene Elkins, che conosce bene le illustrazioni dei trattati alchemici, non vi riconosce alcuna fonte visiva o letteraria, alcun programma iconografico, alcuna didascalia che permetta di individuare il soggetto delle scene. Lasciato in balia delle sue speculazioni, non esita a redigere un commento per ciascuna immagine, ekphrasis preziose in quanto non assumono un tono risolutorio né nascondono il fatto che i conti non tornano.
È questo l’antefatto di What Heaven Looks Like. Comments on a Strange Wordless Book (Laboratory Books 2017), uno dei libri più curiosi e intriganti scritti in questi ultimi anni sulle immagini. Professore di Art History, Theory and Criticism alla School of the Art Institute di Chicago, James Elkins è uno dei maggiori e più prolifici storici dell’arte americani che ha contribuito ad aprire la disciplina agli studi visivi e a interrogare il ruolo attuale della critica d’arte, al di là di una mera disamina della sua crisi. In Italia è ancora poco conosciuto, a causa di un mercato editoriale più attento a rieditare l’ennesimo saggio di Panofsky che a diffondere quegli studi che ci aiutano a ripensare la storia dell’arte oggi, nel campo più ampio delle visual humanities.
Osservando le tavole dell’Opus magiae naturalis, Elkins si convince che siano mano di una donna che lavora nell’isolamento, coltivando questo progetto in segreto, senza l’intenzione di divulgarlo – un journal intime, una mitologia personale più che un manuale di alchimia. Elkins immagina anche che l’idea gli baleni fissando l’estremità di un tronco in una catasta di legna da ardere: a forza di osservare le increspature e le imperfezioni del legno comincia a intravedere delle figure, che emergono da questo buco nero già formate. Sembra che siano nascoste all’interno del tronco, pronte a sprigionarsi a contatto con l’aria non appena l’albero viene tagliato. Oppure è la mente dell’artista a proiettare su questo buco nero le sue immagini mentali, in linea col period eye del tempo, come Michael Baxandall denominava le competenze visive e cognitive di una comunità in una determinata epoca storica. Forse entrambe queste operazioni – percepire immagini esistenti e proiettare all’esterno immagini mentali – concorrono in ugual misura alla realizzazione delle 52 tavole dell’Opus.
Di certo, la matrice di tale produzione immaginifica è nient’altro che la sezione di un tronco d’albero, un supporto umile che non vanta lo stesso pedigree delle pietre. Il legno fa da sfondo a scene spesso mitologiche, in cui il caos originario prende forma attraverso sembianze antropomorfe, animali o vegetali. Tuttavia in alcuni casi la texture del legno – fresco e verde, ma anche invecchiato, screpolato o ammuffito – entra a far parte della composizione, soprattutto quando rappresenta alberi e arbusti.
L’Opus rappresenta un caso mirabolante di pareidolia, ovvero un’illusione ottica e un fenomeno psicologico in cui si riconosce una forma familiare in una nuvola, un paesaggio, una roccia, una macchia d’inchiostro e ora persino nella sezione di un tronco d’albero. In questo modo il mondo, anche nelle sue manifestazioni apparentemente più casuali, si mostra nel suo eccesso di senso, un senso che si cela e tale resta per chi non ha gli strumenti adeguati per coglierlo. L’esperienza del mondo diventa un’epifania di apparizioni e visioni.
Il mistero si addensa
What Heaven Looks Like è un libro (di parole) su un libro (di immagini). Ma non dobbiamo confonderlo con un tour de force ermeneutico.
Davanti a queste visioni, Elkins non rinuncia agli strumenti della storia dell’arte. Di volta in volta, evoca elementi stilistici da Giorgione, Correggio, Parmigianino, Giovanni Benedetto Castiglione, Goya, William Blake, il barocco e il surrealismo, Kandinsky (la dimensione cosmologica di un Kupka, aggiungo, è un altro buon candidato); riferimenti letterari come Paradiso perduto. Tenta così di ricostruire il filo che tiene insieme le 52 tavole, poiché “una parola è un frammento; due parole sono una storia”.
Sempre di ipotesi, tuttavia, si tratta: la storia ha a che vedere con la terra e il paradiso, che sia un viaggio dalla prima al secondo o viceversa – difficile essere più precisi. La moltiplicazione dei riferimenti nella stessa scena si presta infatti a molte incongruenze e rimanda alla mitologia greca, al cristianesimo e alla simbologia alchemica (la lista non è esaustiva). Come far convivere, ad esempio, la creazione di Adamo, un drago nella cavità di una grotta, un leone incoronato con un serpente in bocca? un racconto pseudo-biblico con degli animali mimetizzati nella cornice? Viene trasgredita quella convenzione per cui un’opera presenta una e una sola soluzione: “o il dipinto è cristiano o non lo è, o è una miscela comprensibile dei due”.
Se vi è una fonte visiva comune, la sua rivisitazione e metamorfosi è stata così radicale da averne cancellato le tracce. Davanti ai nostri occhi emerge un mondo distorto, assieme infantile e mostruoso, costituito da apparizioni subitanee e lande spettrali. Senza volto, indistinte e offuscate, le figure antropomorfe sono percepite da una grande distanza, come attraverso uno strumento ottico che, anziché ingrandirle, le allontana e rimpicciolisce.
Che il loro artefice volesse includere, all’interno delle scene, non solo il soggetto ma anche questa stessa distanza? Dare corpo all’atmosfera e agli elementi, materializzarla come una sostanza solida quanto la corteccia dell’albero sul quale sono dipinte? Ipotesi, nient’altro che ipotesi.
Elkins gioca a carte scoperte e non nasconde la mancanza di una chiave interpretativa da offrire al lettore per sciogliere il mistero di queste immagini criptiche, di questo libro sconosciuto e inconoscibile. Nel corso dell’analisi, anziché sciogliersi il mistero sembra addensarsi – una densità non diradata dagli sforzi della partecipata ekphrasis. Queste immagini si rifiutano di tradursi in linguaggio, di farsi icono-logia. Infinite restano le possibilità d’interpretazione – e “forse” è l’avverbio che ricorre più spesso nel commento di Elkins.
E se il mistero dell’Opus fosse che, in fondo, non c’è alcun mistero? In queste immagini potrebbe mancare qualsiasi intenzione di veicolare un messaggio specifico. Forse l’artista ha lasciato che a guidare la sua mano, a dettare – quasi a imporre – l’immagine non fosse la sua immaginazione ma una crepa nel legno, nel sostrato, nella superficie sensibile o in quel subjectile di cui ha parlato Jean Clay a proposito dei monocromi bianchi di Robert Ryman e Derrida a proposito dei disegni di Artaud.
Detto altrimenti, queste immagini potrebbero essere “aleamorph” ovvero, seguendo un altro libro di Elkins, Why Are Our Pictures Puzzles? On the Modern Origins of Pictorial Complexity (1999), immagini acheropite, non dipinte né scolpite, che si ritrovano in natura: nelle nuvole, nei geodi, nel legno pietrificato, nei minerali, nei denti di squalo fossilizzati, nelle meteoriti, nelle lastre di pietra adorate nei templi. Le allucinazioni su legno dell’Opus mettono così in crisi quel paradigma indiziario emerso a fine Ottocento nelle scienze umane e ricostruito da Carlo Ginzburg, con cui s’identifica il lavoro del detective, dello psicologo e dello storico dell’arte. Questi risale al colpevole (l’artista) di un crimine (l’opera) sulla base di una manciata di indizi (i dettagli più marginali) – ex ungue leonem. Peccato che nell’Opus restano solo unghie che sembrano appartenere a diversi leoni.
Che What Heaven Looks Like abbia a che vedere, in qualche modo, con l’alchimia, e che tuttavia non consenta una chiara lettura simbolica, non passerà inosservato. La complessa macchina visiva dell’alchimia infatti incoraggiava una lettura simbolica delle immagini. L’iconologia degli anni settanta ne sa qualcosa come, per restare in Italia, in un libro recentemente rieditato ma non meno datato quale Duchamp invisibile. La costruzione del simbolo (1975) di Maurizio Calvesi. Allora come oggi (nel frattempo sono trascorsi più di quarant’anni!), il tropo iconologico è spinto al parossismo. Le sofisticatissime e talvolta affascinanti teorie simboliche di natura alchemica – che Duchamp, secondo l’autore, avrebbe consapevolmente assunto e utilizzato – sono, in finale, più rivelatrici della biblioteca di Calvesi che dell’attività artistica di Duchamp.
Donare il tempo alle immagini
In What Heaven Looks Like Elkins non si limita a descrivere, se non a decifrare, quello che cade sotto ai suoi occhi. La sua maggiore preoccupazione è quella di restituire il tempo che si trascorre in compagnia delle immagini, di mostrare attraverso la scrittura la loro temporalità profonda.
Come confessa a Allison Meier: “Vedere richiede tempo, anche se – o forse soprattutto perché – sembra così istantaneo”; “Qualcosa, si direbbe, che le persone farebbero naturalmente, ma di questi tempi il mondo dell’arte e quello accademico sono molto indaffarati”. E ancora: “È da esperienze simili, che prendono molto tempo e non si risolvono immediatamente in una scoperta, che hai delle intuizioni su opere d’arte come questa. Si tratta di un libro molto quieto, non destinato al grande pubblico. Poteva esser indirizzato giusto all’artista che lo ha realizzato. Arte di questo genere richiede molto tempo per espandersi nella tua consapevolezza”. Del resto il diverso stato di conservazione del legno dipinto induce a pensare che le tavole siano state realizzate in un lungo arco di tempo, accompagnando l’autrice per anni.
Elkins prova a ricostruire nientemeno che lo stato d’animo dell’anonima (o anonimo) artefice: “Ho scritto questo libro per cercare di capire quali erano i suoi sentimenti e i suoi pensieri”. Immagina una donna consapevole di vivere una crisi storica e psicologica, sospettosa nei confronti delle grandi narrazioni sull’origine del mondo, la natura di Dio, l’esistenza di un paradiso e altri miti fondatori per la sua comunità. Insomma un’artista moderna.
In questo modo fa spazio all’agency delle immagini, alla loro capacità di agire, al loro potere, alle loro intenzioni, prendendo sul serio la domanda con cui W.J.T. Mitchell ha intitolato uno dei suoi saggi più influenti sul pictorial turn recentemente riproposto in italiano: Cosa vogliono davvero le immagini? Al di là di una lettura simbolica, scardinando l’assunto iconologico per cui le opere mostrano quello che significano e significano quello che mostrano, con What Heaven Looks Like Elkins si presta a un esercizio di scrittura sperimentale. Lontano da quell’“academic solipsism” di cui viene accusato in una ingenerosa stroncatura apparsa sul “Times Literary Supplement”.
Il suggerimento critico è facile da cogliere quanto disatteso dalla storia dell’arte ossessionata dalle fonti: siamo attirati da un dipinto ben prima di sapere quello che è supposto significare. Di più: la corsa alla ricerca di tale significato – precondizione imprescindibile nell’iconologia e nel paradigma indiziario – rischia di non cogliere, o anche solo di prendere in considerazione, il piacere estetico. E in sua assenza non è più chiaro perché dovremmo occuparci d’immagini anziché solo di documenti scritti.
Altra questione, che in conclusione non posso che accennare, è comprendere l’ambivalenza di questo piacere. Nella tavola 5 dell’Opus si riconosce una nicchia vuota in una grotta senza alcuna scultura al suo interno; nella tavola 6 quello che somiglia a un cielo affrescato in una volta è stato disertato da ogni presenza umana. Una fuga degli dei? una perdita di speranza nella salvezza eterna? un’umanità abbandonata al suo destino e a un futuro imprevedibile? Paradiso o inferno dunque, o i due assieme?
Nota
Una parte di What Heaven Looks Like. Comments on a Strange Wordless Book (Laboratory Books 2017) è stata anticipata in quattro articoli apparsi su “The Huffington Post” nel 2011 e in un articolo di Elkins sugli emblemi. Sono tutti leggibili a partire dal suo sito, ricco di materiali.
Per una recensione compartecipe: Allison Meier, A Mysterious 17th-Century Artist Who Saw Visions in Firewood’s Rings, in “Hyperallergic”, 11 ottobre 2017; per una recensione negativa: Dennis Duncan, Beautiful Solipsism, in “Times Literary Supplement”, 24 ottobre 2017.
Due i libri di James Elkins disponibili in italiano: Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro (Bruno Mondadori 2007) e La Pittura cos’è. Un linguaggio alchemico (Mimesis 2012) che porta un’attenzione inusitata alla materialità dell’atto pittorico. Importante anche “La storia dell’arte e le immagini che arte non sono”, tradotto nella meritoria antologia a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo (Raffaello Cortina 2009).
Per il period eye: Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento (1972, Einaudi 2001).
Il saggio di W.J.T. Mitchell è raccolto in Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, a cura di Michele Cometa e Valeria Cammarata, Raffaello Cortina 2017.
Maurizio Calvesi, Duchamp invisibile. La costruzione del simbolo (Officina 1975) è stato rieditato nel 2016 col sottotitolo Un’estetica del simbolo tra arte e alchimia (Maretti Editore).