Esibire i conflitti / Goodbye Roosevelt. Vita e morte di una statua

5 Luglio 2020

È ormai certo: il memoriale equestre del Presidente americano Theodore Roosevelt (1858-1919) verrà rimosso dallo scalone antistante l’American Museum of Natural History (AMNH) di New York, visitato da quasi cinque milioni di persone ogni anno. La notizia non giunge inattesa: da settimane si moltiplicano gli appelli per rimuovere vari monumenti, da settimane circolano immagini di statue imbrattate o fisicamente rimosse dai Comuni. Issate in pompa magna, con cerimonie ufficiali, vengono smantellate quasi furtivamente nel cuore della notte, sbullonate davanti agli sguardi e ai cellulari degli astanti. 

E tra questi due brevi momenti – l’elevazione e la rimozione – la statua vive in un limbo di sovrana indifferenza, in uno stato larvale che può protrarsi per secoli. Finché un soffio di vento riattizza la fiamma affievolita della storia, come dimostra il caso Roosevelt su cui è utile tornare oggi in Italia.

 

La statua della discordia

 

Il memoriale equestre è commissionato nel 1925 e installato nel 1940, finanziato pubblicamente (per un costo totale di tre milioni e mezzo di dollari) e quindi di proprietà della città e non dell’AMNH. Rappresenta Roosevelt pronto per una battuta di caccia, mano destra sulla pistola e sguardo fiero all’orizzonte. È scortato da due figure stereotipate e svestite: un indigeno delle Grandi pianure alla sua destra e un africano alla sua sinistra, forse un Masai o un Samburu che vivevano in un terra oggi divisa tra Kenya e Tanzania. Nella logica fallica dei monumenti, elevazione è potere: in sella al cavallo, Roosevelt domina le altre due figure, allo stesso modo in cui noi osserviamo dal basso verso l’alto quest’uomo imperturbabile, esempio di virtù e modello per le generazioni future.

Il nativo americano e l’africano non hanno un nome, sono lì non come esseri umani ma come simboli. Capire di cosa siano il simbolo non va però da sé. Nelle intenzioni dell’architetto John Russell Pope (1874-1937), formatosi a Parigi e a Roma, “questo gruppo eroico... simboleggerà il leader impavido, l’esploratore, il benefattore e l’educatore” (1928). In quelle dello scultore James Earle Fraser (1876-1953) – che prende come modello il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni (1488) di Andrea del Verrocchio a Venezia – “le due figure al lato di [Roosevelt] sono guide che simboleggiano i continenti dell’Africa e dell’America e, se volete, possono rappresentare la benevolenza di Roosevelt verso tutte le razze” (1940). 

 

Statua equestre di Theodore Roosvelt.


Di allegorie quindi si tratta, come i vizi e le virtù sono rappresentati da donne nude. Ma se il memoriale era considerato allora simbolo di civiltà, oggi sentiamo risuonare in questa parola il colonialismo, il razzismo, l’imperialismo, il sessismo, il classismo, il primitivismo (all-in-one-package!) celebrato sotto forma di uomo-a-cavallo. 

Il complesso monumentale è insomma una potente e inequivocabile immagine di addomesticamento del selvaggio, della parte bestiale di una parte dell’umanità poco sviluppata e dotata: i Nativi e gli Africani, al livello del cavallo domato da Roosevelt. Non lasciamoci sfuggire i particolari: “Col Nativo americano la pistola è puntata verso il basso, a significare che le guerre indiane sono finite e che hanno perso. Con l’africano, il fucile è ancora in alto, a suggerire che l’Africa non è stata ancora completamente conquistata. [La statua] racconta così l’impero e la conquista, l’Africa e il Nuovo Mondo da parte dell’europeo bianco” (Mabel Wilson, professore di architettura e African American studies a Columbia University, dal sito dell’AMNH).

 

Altra musica quella trasmessa dal piedistallo del monumento, dove Roosevelt è celebrato in quanto esploratore, scienziato, ambientalista, naturalista, allevatore, ricercatore, statista, scrittore, storico, filantropo, soldato e patriota. Sotto la sua presidenza sono messi in salvo 234 milioni di acri dell’America selvaggia come il Grand Canyon e Muir Wood, viene creato il sistema dei Parchi nazionali, anche se alle spese dei nativi americani cacciati dalle loro terre. Nessuna menzione della guerra ispano-americana con cui gli Stati Uniti si annettono Puerto Rico, Hawaii, Guam, Filippine, o dell’eugenetica di cui Roosevelt è un convinto sostenitore sin dal 1905 assieme al direttore dell’AMNH Henry Fairfield Osborn (1857-1935). Al museo Osborn organizza due conferenze sull’eugenetica (1921 e 1932) e la sua ammirazione per il pensiero di Hitler sulla razza ariana è tale che, una volta ritirato dalla direzione del museo, è il primo americano ad accettare un dottorato honoris causa da Hitler nell’agosto 1934.

 

 

Insomma, non serve un dottorato in iconologia per riconoscere il razzismo nella composizione del monumento a Roosevelt, immagine della gerarchia tra le razze allora in voga: Caucasica, Mongola e Negroide. Così funziona la white supremacy, di cui Roosevelt è un campione, ad esempio verso i nativi americani. Ne parla come in un film western: “Non mi spingo a pensare che gli unici indiani buoni siano degli indiani morti, ma credo che nove su dieci lo siano, e non vorrei indagare troppo da vicino sul caso del decimo” (Larry Schwartz, Who Was the Most Racist Modern President? 5 Surprising Candidates Who Fit the Bill, in “Alternet”, 27 dicembre 2014). Fedele alla pseudo-scienza dell’eugenetica, intendeva sterilizzare i criminali e vietare che i deboli di mente si riproducessero; considerava infine superiore a tutte la “razza che parla inglese” – No English No Party.

 

Statua equestre di Theodore Roosvelt.


Dimostrazione (1971-2020)

 

Ora, la rimozione della statua equestre di Roosevelt non è il precipitato dell’uccisione di George Floyd e delle proteste di Black Lives Matter ma l’epilogo di un lungo processo che vale la pena accennare.

Il 14 giugno 1971 sei nativi americani, tre uomini e tre donne sotto la trentina – dalle tribù Comanche, Navajo e Cherokee – ricoprono la statua di pittura rossa e scrivono “Returns Alcatraz” e “Fascist Killer”. Sono arrestati e rischiano quattro anni di prigione. Nel 1991 l’artista afroamericano David Hammons partecipa a Dislocations (1991-92), una mostra collettiva curata da Robert Storr al MoMA di New York. Per l’occasione realizza Public Enemy, tre grandi riproduzioni fotografiche in bianco e nero del monumento rese inaccessibili da una trincea, mettendo così in mostra il razzismo dell’eredità culturale americana.

Nel 2015 la protesta si riaccende col Black Out Tour, una visita guidata della collezione dell’AMNH, secondo gli organizzatori un monumento alla supremazia bianca. Il problema così non riguarda solo la statua equestre ma investe la stessa istituzione museale e il display delle sue collezioni. L’iniziativa è ripresa nell’ottobre 2016 dal collettivo Decolonize This Place, che organizza un Anti-Columbus Day in occasione del cinquantesimo anniversario dell’uccisione di Malcolm X. All’interno delle sale del museo gridano “Respect Remove Rename”; uscendo appendono alla statua equestre uno striscione con scritto “White Supremacy Kills”.

 

Yates McKee, storico dell’arte e attivista in diversi gruppi post-Occupy, autore di Strike Art. Contemporary Art and the Post-Occupy Condition (Verso 2017), così riassume i motivi della protesta: “Credo che abbia ridisegnato l’intera storia del museo nei termini dei suoi rapporti con la storia del colonialismo e della supremazia bianca. Ha fatto sì che la gente vedesse il museo stesso, l’installazione e soprattutto la statuaria. Ciò che è entusiasmante, anche qui, non si limita a un cambio del quadro di riferimento e del nostro rapporto con quest’installazione che è stata a lungo, per così dire, naturalizzata” (in Hrag Vartanian, #DecolonizeThisPlace Demands Removal of Natural History Museum’s Roosevelt Statue, in “Hyperallergic”, 10 ottobre 2016). Rivendica infatti la rimozione della statua di Roosevelt e la sostituzione del Columbus Day con l’Indigenous Peoples Day.

Un anno dopo un altro collettivo, il Monument Removal Brigade (MRB), in continuità col secondo Anti-Columbus Tour del 9 ottobre ma adottando una diversa strategia, imbratta la statua equestre di rosso sangue. Il loro comunicato, datato 26 ottobre 2017, ha il tono di un manifesto:

 

James Earle Fraser, Theodore Roosvelt, disegno del monumento equestre.


“Ora la statua sanguina. Non siamo stati noi a farla sanguinare. È insanguinata nelle sue stesse fondamenta. Questo non è un atto di vandalismo. È un’opera d’arte pubblica e un atto di critica d’arte applicata. Non abbiamo intenzione di danneggiare una mera statua. Il vero danno è il patriarcato, la supremazia bianca e il colonialismo dei coloni che la statua incarna. Queste forme di oppressione devono essere danneggiate senza requie [...] Contro un’opera d’arte – il monumento di Roosevelt – che arreca un vero e proprio danno, offriamo un gesto anti-monumentale che arreca un danno simbolico ai valori che rappresenta: genocidio, espropriazione, evacuazione, schiavitù, terrore di stato. Il monumento non solo incarna la violenta fondazione storica degli Stati Uniti, ma anche le dinamiche sottostanti di oppressione nel nostro mondo contemporaneo”.

 

Mi fermo qui, non senza evocare le proteste contro la repubblicana Rebekah Mercer, che siede nel board of trustees del museo e ha donato decine di milioni di dollari a diverse organizzazioni che negano il cambiamento climatico. Può un museo dedicato alla scienza avere tra i suoi più facoltosi finanziatori una donna attivamente impegnata nella propaganda anti-scientifica e nel negazionismo? Un po’ come avere un terrapiattista come professore di geografia.

 

Consultazione

 

Nel 2017, dopo i fatti di Charlottesvlille e la protesta contro i monumenti dei Confederati, il sindaco democratico di New York Bill de Blasio costituisce una commissione con potere consultivo, il Mayoral Advisory Commission on City Art, Monuments, and Markers, per riesaminare i monumenti sparsi in città, Roosevelt incluso. Appartenenti a diverse etnicità, i membri sono esperti in antichità e storia, arte e arte pubblica, conservazione ed eredità culturale, educazione e diversità. Ricordo, tra i tanti, Richard Alba (sociologo, autore di Ethnic Identity. The Transformation of White America, 1990; Blurring the Color Line: The New Chance for a More Integrated America, 2009), Gonzalo Casals (direttore del Leslie-Lohman Museum of Gay and Lesbian Art a New York), la storica dell’arte Harriet F. Senie (autrice di Memorials to Shattered Myths: Vietnam to 9/11, 2016, co-curatrice di A Companion to Public Art, 2016 e co-direttrice della rivista “Public Art Dialogue”) e gli artisti Teresita Fernández, Pepón Osorio, Shahzia Sikander. 

 

La commissione si riunisce tre volte, organizza cinque dibattiti pubblici in diversi quartieri (500 partecipanti e 200 testimonianze scritte) e un sondaggio che raccoglie 3000 adesioni. Il rapporto di una quarantina di pagine è reso pubblico nel gennaio 2018. Al di là di alcune formulazioni retoriche, è un documento importante per intraprendere una discussione più sfaccettata anche nel nostro Paese.

Secondo la commissione bisogna comprendere il contesto storico in cui i monumenti sono stati eretti ma anche essere fedeli agli ideali di equità e giustizia che animano il presente. Per questo è necessario un dibattito pubblico che affronti l’eredità non facile del razzismo, del colonialismo, della discriminazione dei disabili (ableism), del sessismo, dei pregiudizi e della disuguaglianza – “un processo che va oltre l’alternativa tra tutto o niente, tra conservazione o rimozione dei monumenti”.

 

Eugenetica.


La commissione condivide cinque principi, a partire dal potere della rappresentazione della storia in spazi pubblici. Segue la comprensione storica approfondita che riconosce molteplici prospettive e narrazioni finora trascurate. L’inclusione, affinché tutti i newyorkesi si sentano benvenuti negli spazi pubblici e abbiano voce in capitolo nella realizzazione di monumenti. Il riconoscimento della complessità delle loro narrazioni stratificate, privilegiando approcci additivi, relazionali e intersezionali rispetto a quelli sottrattivi. Il senso di giustizia nell’affrontare storie di espropriazione, schiavitù e discriminazione non adeguatamente rappresentate nell’arte pubblica.

 

Addressing the statue.


La commissione si raccomanda di: rivalutare l’attuale collezione d’arte pubblica per capire chi e cosa è rappresentato e chi e cosa è lasciato fuori, rendendo pubblici i risultati. Commissionare nuovi monumenti permanenti per costituire una collezione pubblica più rappresentativa. Commissionare nuove opere d’arte temporanee per moltiplicare le prospettive e promuovere il dialogo nello spazio pubblico. Dare potere d’azione ai quartieri per decidere cosa e chi celebrare nei loro spazi. Investire in iniziative educative con organizzazioni politiche e culturali per integrare storie complesse e sfaccettate nei programmi di studio sui monumenti. Appoggiare discussioni storiche o programmi pubblici che affrontino questioni sollevate da monumenti e opere d’arte controverse. Utilizzare contenuti digitali e nuove tecnologie per rendere più accessibile al pubblico la collezione di arte e i monumenti della città. Creare fondi azionari per comunità storicamente sottorappresentate. Istituire una task force sui monumenti con rappresentanti del Department of Cultural Affairs, Parks Department, Landmarks Preservation Commission, Public Design Commission e Department of Transportation.

Davanti a ogni monumento, un’analisi storica di esperti deve valutare l’evento o la persona commemorata. Chi era, cosa ha realizzato e come è stata percepita in vita? In quali circostanze è avvenuta la commissione? Chi l’ha finanziata? Quali erano le motivazioni del committente? Chi è l’artista e perché è stato scelto? Va poi valutato l’impatto simbolico del monumento e della sua ubicazione. Riguardo al presente, qual è l’impatto del monumento oggi? Ha un valore artistico? È inclusivo? Che tipo di eredità vogliamo trasmettere al futuro?

 

In caso di dibattito “polarizzato” (per usare un aggettivo ricorrente nel rapporto), la commissione suggerisce, in un crescendo: nessuna azione, quindi il monumento rimane al suo posto. Ricontestualizzare con qualsiasi mezzo: apporre una targa, aggiornare le informazioni storiche, disconoscere gli atti di personaggi storici, rendere disponibile materiale supplementare in formato elettronico. Trasferire il monumento in un altro sito pubblico comunale. Commissionare nuove opere temporanee o permanenti, che si tratti di scultura, performance o arte impegnata socialmente. Rimuovere opere offensive, controverse o obsolete dall’esposizione in spazi pubblici all’aperto.

Consapevoli che è difficile giungere a una soluzione unanime, la commissione si sofferma su quattro casi: la statua al ginecologo J. Marion Sims a Central Park su Fifth Avenue (incrocio con 103 Street), la placca in omaggio al generale Philippe Pétain a Lower Broadway, il monumento a Cristoforo Colombo a Columbus Circle e il nostro Roosevelt all’AMNH.

 

David Hammons public enemy, Moma 1991.


Per Colombo propongono di tenere la statua e incentivare il dibattito pubblico. Il monumento viene eretto nel 1892; un anno prima, il 14 marzo 1891, undici italo-americani sono incarcerati con una falsa accusa a New Orleans e poi linciati. L’editoriale del “New York Times” parla di “siciliani furtivi e codardi, discendenti di banditi e assassini”. Davanti a uno degli eventi anti-italiani più efferati della storia americana, Roosevelt parla di “a rather good thing”. Tre anni dopo è eletto presidente e nel 1906 gli viene assegnato il Premio Nobel per la pace.

Assistiamo qui a un’interessante scissione. Da una parte c’è la figura storica di Cristoforo Colombo, più controversa di quell’esploratore che “scopre” l’America come abbiamo studiato a scuola; dall’altra c'è il simbolo dell’opposizione alle discriminazioni subite dalla comunità italo-americana. Che possa diventare un giorno simbolo delle battaglie civili di tutte le minoranze? O il nome di Colombo andrà censurato dalla toponomastica americana? La prestigiosa Columbia University cambierà un giorno nome? Un casse-tête, se pensiamo che i primi a criticare la statua di Colombo sono stati i suprematisti bianchi, scandalizzati che si celebri come icona americana qualcuno che non sia un cattolico anglosassone (John M. Viola, Tearing Down Statues of Columbus Also Tears Down My History, in “The New York Times”, 9 ottobre 2017).

 

What about Roosevelt? Raccolti i pareri di studiosi di storia dell’arte, American studies, storia della razza e del movimento eugenetico, alcuni chiedono ulteriori ricerche storiche, altri le ritengono inutili: è un monumento razzista. Alcuni chiedono di ricollocarlo altrove: in un complesso più ampio dedicato al Presidente, all’interno del museo, in uno spazio pubblico accessibile ma più defilato, in una collezione storica comunale. Altri preferirebbero tenerla là dove si trova aggiungendo una targa o degli interventi artistici per mostrare le intenzioni dello scultore, della natura della commissione, della storia dell’ANHM, rendendo così visibile la distanza storica che ci divide dal 1940. 

 

Protesta davanti l'American Museum of national history.


Contestualizzazione

 

La commissione discute alacremente ma non trova un consenso. Che fare? Tenere Roosevelt sul piedistallo e contestualizzarlo. “Some see the statue as a heroic group; others, as a symbol of racial hierarchy”, si legge in una placca affiancata a quella ufficiale in bronzo. Un po’ pochino come contestualizzazione. 1-1 palla al centro?

Non proprio, perché l’AMNH organizza parallelamente una mostra: Addressing the Statue, aperta il 16 luglio 2019 e ancora visitabile (non appena il museo riaprirà dopo l’emergenza sanitaria). David Hurst Thomas, curatore della sezione di antropologia ribadisce che, senza schierarsi per l’eroe o per il razzista, evitando posizioni binarie e semplicistiche, la mostra offre prospettive e voci molteplici. “Per comprendere la statua, dobbiamo riconoscere l’eredità duratura della discriminazione razziale nel nostro Paese, così come le inquietanti opinioni di Roosevelt sulla razza. Dobbiamo anche riconoscere la storia imperfetta del nostro museo. Un tale sforzo non giustifica il passato, ma può creare le basi per un dialogo onesto, rispettoso e aperto”, si legge sul sito del museo.

 

Per lo studioso di cultura visiva e attivista Nicholas Mirzoeff tale approccio è noto nel mondo accademico sin dagli anni novanta come “teaching the conflicts” (How Do We Address a Statue of President Roosevelt That Affirms Racist Hierarchies?, in “Hyperallergic”, 24 settembre 2019, ma anche qui). Nel mio piccolo, lo adotto sistematicamente davanti ai casi più controversi nelle arti visive, sforzandomi di non prendere posizione, favorendo e gestendo la discussione per far emergere le tensioni irrisolte o irrisolvibili. A volte si arriva a una conclusione condivisa, altre volte no. Parafrasando Bruno Latour, costruisco così una cartografia delle controversie artistiche preziosa, credo, per orientarci nel contemporaneo.

Addressing the Statue mostra un video dello scrittore afroamericano Reniqua Allen (caricato anche sul sito del museo), materiale d’archivio sullo scultore, opinioni favorevoli e contrari alla rimozione, interviste ai cittadini – incluso chi sul piedistallo ci vedrebbe bene persino un dinosauro ma non Roosevelt –, uno spazio per i commenti del pubblico, nel museo e sul sito internet.

“Invece di chiederci se dobbiamo rimuovere i monumenti controversi, una domanda migliore sarebbe: come possiamo capirli oggi? Come possiamo ricontestualizzarli per gli spettatori odierni? E chi altro dovremmo commemorare nei nostri spazi pubblici?” si chiede Harriet F. Senie (membro della commissione e insegnante di Art Museum Studies). E infatti il lavoro di contestualizzazione è stato compiuto. È servito? Enormemente. Ha risolto la questione della racial justice? Per niente.

 

Azione del monument removal brigade.


Rimozione

Chi ha seguito la vicenda fino a qui sarà felice di leggere che siamo giunti all’ultima mossa. Il 21 giugno il museo prende posizione e richiede ufficialmente la rimozione della statua equestre con un comunicato pubblico. Tre i passi decisivi: “Nelle ultime settimane, la comunità del nostro museo è rimasta profondamente impressionata dal movimento crescente per la giustizia razziale emerso a seguito dell’uccisione di George Floyd. Abbiamo anche osservato come l’attenzione del mondo e del Paese si sia sempre più rivolta a statue e monumenti come simboli potenti e offensivi del razzismo sistemico”. Il secondo su Addressing the Statue: “Siamo orgogliosi di questo lavoro, che ha contribuito a far progredire la comprensione della statua e della sua storia da parte nostra e del pubblico e ha promosso il dialogo su questioni importanti di rappresentazione razziale e culturale, ma nel momento attuale è evidente che questo approccio non sia sufficiente”. La terza: “crediamo che la rimozione della statua sarà un simbolo di progresso e del nostro impegno a costruire e sostenere una comunità del museo inclusiva ed equa e una società più ampia”.

La rimozione è appoggiata persino dal pronipote del presidente, Theodore Roosevelt IV, membro del consiglio d’amministrazione dell’AMNH (che vede tra i suoi fondatori il padre del presidente Roosevelt): “Il mondo non ha bisogno di statue, reliquie di un’altra epoca, che non riflettono né i valori della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. La composizione della statua equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di spostare la statua e guardare oltre”. Al nome di Roosevelt sarà consacrata la Hall of Biodiversity.

 

Azione del monument removal brigade.


Performatività

Cosa c’insegna questa vicenda? Che le controversie sollevate dall’arte pubblica implicano negoziazioni complesse. Che la contestualizzazione – compiuta dai cittadini, da una commissione o da un museo – non è neutrale ma frutto di scelte politiche e sensibilità diverse, non una panacea che appiana tutti i conflitti ma uno strumento valido. Che in alcuni casi non è sufficiente e non resta altro che sbullonare le statue – una richiesta che, come dimostra l’affaire Roosevelt, può venire persino da un’istituzione museale.

“Let’s put this statue in the active voice”, cioè nella forma attiva, propone David Hurst Thomas. “Museums should not simplify stories. We should complicate them”, afferma l’antropologa Monique Renee Scott. È diverso dal “contestualizzare, contestualizzare!” che sento ripetere in Italia a macchinetta, sarà per via del nostro inconscio culturale volto alla patrimonializzazione dell’esistente, parente stretta dell’immobilismo sociale. “Quando una città è classificata come ‘patrimonio mondiale’ dall’Unesco, è destinata a morire”, ha scritto di recente Enzo Traverso su “Jacobin”, che critica la tendenza a trasformare i centri urbani in “vestigia congelate”. In tal senso, contestualizzare è il contentino paternalista per i più esagitati, l’ultima parola che chiude i giochi una volta per tutte.

 

Addressing the statue.


Ma una statua caduta non coincide con la fine della civiltà e l’inizio delle barbarie, spesso inestricabili (Roosevelt che esulta per il linciaggio italo-americano e prende il Nobel per la pace, che difende i parchi nazionali espellendo i nativi, che s’interessa di scienze naturali e aderisce all’eugenetica). Una statua eretta non è una vestigia imbullonata allo spazio pubblico ad aeternitatem, una memoria diventata pietra, un fallo in erezione – sono quasi tutti uomini – insensibile a ogni tentativo di evirazione.

Lo spazio pubblico torna oggi a essere un luogo di contesa e di contestazione, un luogo, semplicemente, in cui si fa storia al tempo presente. Lo si fa in tanti modi: con le manifestazioni, le commissioni e le esposizioni, con un tour, una targa e una colata di vernice, con la contestualizzazione e la rimozione. Addressing the statue, esibire i conflitti, praticare una “critica d’arte applicata” come lo chiama il Monumental Removal Brigade. Tanti modi – tutti legittimi – di performare le statue e i monumenti del passato. Una performatività che le risveglia dal loro stato larvale e le immette di nuovo nel flusso socio-politico da cui sono emerse. E che ci ricorda che sì, anche le statue contestualizzate muoiono.

 

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