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Dizionario Levi / Studio

15 Giugno 2019

Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.

 

Nel secondo paragrafo della prima pagina di Se questo è un uomo Primo Levi scrive che il suo libro non aggiunge nulla in fatto di particolari atroci sui lager. Tutto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo. E poi specifica: Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi d’accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano.

Sono parole molto conosciute, su cui molte altre parole sono state spese. Contini direbbe che non è più possibile operarvi “a caso vergine”, oppure che esse sono occultate dal bagliore della loro stessa familiarità con il lettore.

Ma forse è possibile tentare qualche ipotesi inedita.

Prima però partiamo dall’edito. E qui non si può che far riferimento all’opera imprescindibile su Levi, cioè Primo Levi di fronte e di profilo di Marco Belpoliti. A pagina 107 Belpoliti si pone la domanda se effettivamente Se questo è un uomo sia uno studio pacato dell’animo umano. Dato che subito dopo le righe introduttive sopra citate, girando pagina, in esergo, il lettore s’imbatte in una poesia, anch’essa celeberrima, dove Levi invoca terribili maledizioni su chi non dovesse meditare sui fatti accaduti, su chi non scolpirà nel cuore e non ripeterà ai suoi figli le parole che quei fatti raccontano. (Maledizioni bibliche o, come direbbero i Romani, autentiche dirae).

 

Si tratta di una palese contraddizione, evidenziata anche da Mario Barenghi, con la pacatezza invocata all’inizio. O forse, più in generale, di un’ambivalenza che potrebbe caratterizzare l’opera di Levi nella sua interezza, divisa com’è tra il distacco dell’osservatore scientifico e la passionale partecipazione del profeta biblico.

 

Noi per parte nostra vogliamo soffermarci un momento sulla parola studio, sulla parola documenti e sull’aggettivo pacato.

Questa costellazione lessicale rimanda in modo irresistibile a due altrettanto famosi testi di Verga.

La prefazione ai Malavoglia, innanzitutto: Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini per il benessere…

E poi la dedicatoria della novella L’amante di Gramigna: Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso avrà il merito di esser brevissimo, e di esser storico – un documento umano, come dicono oggi – interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore…

L’ordine delle citazioni andrebbe a rigore invertito, dato che la prefazione (1881) segue di un anno la dedicatoria (1880).

Comunque Levi sembra porsi nell’ordine d’idee verista, dell’arte come studio, documento, osservazione impassibile dell’umano. Si sa che Verga derivava da Zola e dai Goncourt queste convinzioni. La celeberrima prefazione a Germinie Lacerteux riportava la precisa nozione di romanzo come étude littéraire et enqu^ete sociale.

 

Anche D’Annunzio, nel suo primo romanzo, Il piacere naturalmente, si serve di un’analoga terminologia di ascendenza verista. Nella dedica a Francesco Paolo Michetti, artista che studia (a te che studii tutte le forme e le mutazioni dello spirito come studii tutte le forme e le mutazioni delle cose), il libro dell’amico è indicato come particolarmente adatto proprio perché in esso D’Annunzio dice di sé: io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane

Si nota però subito come alla parola studio qui, nel Piacere, non corrisponda nessuna pacatezza o distacco, ma tutta una serie di oggetti con connotazioni dichiaratamente negative, accompagnati inoltre da un atteggiamento anch’esso fortemente connotato, la tristezza, indicante una partecipazione emotiva che il narratore verista bandisce o dovrebbe bandire programmaticamente.

Insomma, già dalla dedica, appare chiaro come D’Annunzio usi la parola studio ma svuotandola di senso. Semplificando molto: finge di esser verista, ma è già decadente. Oppure: è un decadente travestito da verista.

C’è un episodio che pare confermare quest’analisi. 

 

A un certo punto, nel romanzo, Andrea Sperelli, a proposito dei caduti di Dogali, “quel primo sangue italiano versato in guerra dopo anni di pace e pel quale tutta l’Italia patriottica dolorava e chiamava vendetta” (Benedetto Croce), se ne esce con la cinica battuta: quattrocento bruti morti brutalmente!

Ne nacque un grande scandalo. Naturalmente era quello che D’Annunzio voleva. Ma, al suo editore, Treves, così si giustificò: Quella frase, caro signore, è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele D’Annunzio… voi avete capito che, studiando quello Sperelli, io ho voluto studiare, nell’ordine morale, un mostro…

Pur essendo in piena temperie decadente, una delle cui caratteristiche salienti, è la confusione procurata tra personaggio e autore, lo scrittore invoca lo studio verista, più precisamente le “ragioni di studio”. Non sono io, dice D’Annunzio, che pronuncio quella provocazione, ma è il tipo umano che studio, a pronunciarla. E tutto ciò sapendo benissimo che è lui, l’autore, a servirsi dello scandalo suscitato a bella posta. Mente sapendo di mentire.

(Incidentalmente osserviamo come quella che, scolasticamente, viene percepita come una successione, Verismo prima, e poi Decadentismo, è in realtà una compresenza: nel 1881 escono sia I Malavoglia sia Malombra; nel 1889 Il Piacere e Mastro-don Gesualdo; sempreché queste misteriose entità, Verismo e Decadentismo, abbiano poi una loro esistenza reale e non siano, come altri –ismi, creature puramente ipotetiche).

 

Forse anche Levi usa la parola studio nel modo di D’Annunzio, togliendole il suo senso verista, di mera registrazione di eventi, priva di coinvolgimento emotivo.

Forse il suo studio è più vicino allo studium latino, con tutta la sua carica di passionalità, parzialità, emotività.

Del resto anche Tacito, nel famosissimo primo capitolo degli Annales, si proclamava storico sine ira et studio (ossia senza rancore e senza adesione preconcetti) eppure il suo ritratto di Tiberio gronda indignazione da tutti i pori e ci inquieta ancor oggi.

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