20 marzo 1992 - 20 marzo 2022 / Lina Bo Bardi: intellettuale organica e progettista umanista
Quest'anno, la Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia ha conferito il Leone d'Oro alla memoria a Lina Bo Bardi (1914 - 1992).
Qui uno stralcio delle motivazioni nelle parole di Hashim Sarkis, curatore della XVII edizione della rassegna espositiva:
"La sua carriera di progettista, editor, curatrice e attivista ci ricorda il ruolo dell'architetto [...] come creatore di visioni collettive. Lina Bo Bardi inoltre incarna la tenacia dell'architetto in tempi difficili, siano essi caratterizzati da guerre, conflitti politici o immigrazione, e la sua capacità di conservare creatività, generosità e ottimismo in ogni circostanza."
Per rendere omaggio alla sua figura, Joahn & Levi ne ha da poco pubblicata la biografia, redatta da Zeuler R. Lima, con il titolo: La dea stanca, Vita di Lina Bo Bardi, (pp. 396, € 40.00).
Per me, fin da quand'ero studentessa della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, lì cresciuta con l'ideale del 'collettivo', pronta, come insegnava Lina Bo Bardi a “sostituite il me con il noi”, lei è stata ed è una figura di riferimento, prima di tutto etica, oltre che artistica. Era ed è, insomma, una auctoritas nel senso che la cultura latina attribuisce al termine: il suo interesse in ogni lavoro, d’architettura o d’altro, costantemente rivolto al côté umano e sociale del progetto. Perciò, a tutta prima vederla definita "dea stanca" mi ha lasciata perplessa, anche se nel volume si esplicita che l'appellativo venne coniato nientemeno che da Valentino Bompiani, riferito al fatto che Lina lavorava senza tregua.
Tuttavia, io non ho mai pensato a lei come ad una dea, non nel senso classico del termine di entità iperuranica; l'ho sempre vista invece come una pasionaria, una specie di Dolores Ibárruri dell'architettura per il suo avere sempre posto al centro del proprio impegno intellettuale e delle proprie realizzazioni progettuali la vita dell’uomo, senza tuttavia mai rinunciare alla ricercatezza formale, alla sperimentazione di nuovi materiali, al rispetto della natura e, in forte anticipo sui tempi, persino alla tutela dell'ambiente.
Ma si tratta di un’opinione, forse tinta di romanticismo, legata sicuramente alla mia di storia. Infatti, come conferma Zeuler R. Lima "la sua carriera e la sua personalità, entrambe complesse, si sono ammantate di quella mitologia che circonda gli artisti d'eccezione, una mitologia che lei stessa ha contribuito a coltivare."
È dunque con religio (nell'accezione latina del termine, di rispetto reverenziale) che mi sono accinta a leggere questa prima ed unica sua biografia, cui Lima ha posto mano dopo venti anni "trascorsi a studiare, scrivere e curare mostre sulla vita e l'opera dell'architetta Lina Bo Bardi."
Gli anni romani
Fin da giovane Achillina (questo il suo nome di battesimo che utilizzerà fino alla laurea) veniva considerata strana, in quanto fuori dagli schemi che, a quel tempo, volevano le ragazze tutte casa, chiesa e gioventù littoria, mentre lei era indipendente, fantasiosa, ingegnosa e ribelle. Pur essendo obbligata, come tutte le altre sue coetanee, ad indossare la divisa delle Giovani Italiane, lo faceva con insofferenza e con riluttanza partecipava, alle manifestazioni imposte dal regime. Sempre in lotta con una madre severa e conformista, per sua fortuna aveva il padre dalla sua parte, un uomo intraprendente, mezzo artista e gran viveur, per lei vero modello di comportamento, che ha guidato e incoraggiato ogni sua scelta, affiancandola poi persino nei primi anni della sua carriera professionale. È da lui che ha imparato a disegnare e con lui ha frequentato i suoi primi cantieri. Infatti, Enrico Bo, genovese di origine, lasciato l'Abruzzo in cui aveva trovato moglie e trasferitosi a Roma, vi aveva aperto una fiorente impresa edile consentendo così alla famiglia una vita agiata e a Lina la chance di entrare in contatto con il gotha dell’architettura romana del tempo, non esclusi Gustavo Giovannoni e Marcello Piacentini, dei quali sarà poi allieva alla facoltà di Architettura.
Entrambi gli architetti sono stati autori, con altri, del famigerato piano regolatore della capitale, approvato nel 1931, servo del 'piccone risanatore' con cui Mussolini fece spazio alle proprie smanie autocelebrative a discapito delle aree povere o bisognose di restauro, per edificarvi i suoi faraonici progetti, come, ad esempio Via della Conciliazione costruita radendo al suolo La Spina di Borgo, con il suo insieme di edifici medievali e di viuzze che sorgevano tra Castel Sant'Angelo e piazza San Pietro distruggendo così anche il coup de théâtre voluto dal Borromini sull'affaccio al suo colonnato. Per non parlare dei debordanti interventi piacentiniani, come il Palazzo Littorio, o del controverso progetto dell'EUR.
Giovannoni ha almeno dalla sua il merito di aver elaborato "un metodo di restauro scientifico per recuperare monumenti antichi e reintegrarli nel tessuto urbano, una pratica che Lina avrebbe appreso e adottato decenni dopo nei suoi interventi a Salvador de Bahia", ci ricorda Zeuler R. Lima.
Contro quel piano, voce critica fuori dal coro fu da subito quella di Pietro Maria Bardi (1900 - 1999), che, nella sua veste di direttore e curatore della Galleria di Roma, vi inaugurò, nel marzo di quello stesso 1931, la seconda Mostra di architettura razionalista il cui pezzo forte era un fotomontaggio di stampo dadaista, alla Kurt Schwitters, dal titolo provocatorio di Tavola degli orrori. Vi si sovrapponevano, infatti, immagini delle opere degli architetti di regime ostili all'architettura razionalista europea, insieme a titoli feroci e a figure caricaturali. Fu in questa occasione che Lina sentì parlare per la prima volta dell'uomo che quindici anni dopo sarebbe diventato suo marito e con il quale avrebbe condiviso vita e lavoro.
Se decise di trasferirsi a Milano per continuare lì la propria formazione, fu perché l'esperienza alla facoltà di Architettura romana non l'aveva soddisfatta appieno; Lina stessa racconta che quando si laureò, Piacentini in persona, presidente di commissione, le disse: "le consegno il diploma di laurea, se pure mai le servirà". I loro rapporti sarebbero tuttavia migliorati negli anni seguenti. Nel suo libro, Lima ci informa che con l'architetto romano Lina "intrecciò una relazione più intima tra l'estate del 1942 e l'estate del 1943, documentata dai telegrammi personali e dalle lettere che si scambiarono." In una di esse, Piacentini la definisce "Donna nello spirito e nel cuore" e dichiara: "Tutta la mia vita ne è trasformata come un sogno."
Ma tornando agli anni in cui Achillina Bo si è trovata a studiare, prima al liceo artistico, poi all'università, bisogna dire che essi sono stati cruciali per la storia dell'architettura italiana, giocati così come furono su due poli contrapposti sia culturalmente che politicamente, nonché geograficamente. Nella capitale, infatti, centro del potere fascista, la faceva da padrona la scuola novecentista, ad esso intimamente connessa, che, capeggiata da Marcello Piacentini, scenografo del regime, sosteneva un ritorno al classicismo di stampo antico romano, avversa ad ogni più piccolo accenno di razionalismo.
Invece, quella che presto sarebbe stata definita la Scuola di Milano vedeva riuniti attorno alle due figure principe di Giuseppe Pagano Pogatschnig e di Edoardo Persico un gruppo di giovani architetti che, sfidando coraggiosamente i dictat littorii, furono aperti al dibattito europeo sul Movimento Moderno, di cui sposarono gli assunti razionalisti senza peraltro mai rinnegare i valori e le forme della tradizione rurale e mediterranea.
I due maestri condussero la loro strenua battaglia sia dalle aule scolastiche (entrambi insegnarono al neofondato ISIA di Monza), che dalle pagine della rivista Casabella, - sfidando la censura fascista che la colpì duramente - ma anche dalla ribalta della VI Triennale, vera palestra dell'agognata modernità. Nella rigidità autarchica e nei limiti delle condizioni politiche che avevano già messo a tacere personaggi come Gobetti, Croce e Gramsci, la VI Triennale (1936) tentò di aprire le porte, tramite le forze più vive del razionalismo italiano, al dibattito culturale d'oltralpe, intravvedendo in questa apertura l'unica possibilità di crescita culturale e di salvezza dall'asfissia autarchica. La risposta del regime fascista fu una sorta di commissariamento dell'organizzazione dell'istituzione stessa, cui fu "chiusa la bocca" per proporre, nell'edizione successiva del 1940, il trionfalismo propagandistico del 'nazionalismo' e il monumentalismo retorico degli 'stili solenni', lontani dalla vita, dall'uomo e dalla storia.
Il periodo milanese
Conseguita la laurea e superato l'esame di stato (a Venezia), nella primavera del 1940, Lina si trasferisce dunque a Milano, dove, a contratto con quell'ambiente culturale vivace, stimolante e fecondo, porta a compimento la propria maturazione professionale e politica. Lì collabora con numerose riviste sia di architettura che di costume. La prima è Stile, dove è parte del gruppo di lavoro GIENLICA, acronimo dei nomi propri dei suoi componenti: GIo Ponti, ENrico Bo, LIna Bo, CArlo Pagani, della quale cura quasi tutte le copertine. Come illustratrice e grafica lavora anche per Grazia, L’Illustrazione Italiana, Bellezza (una rivista di moda, anch'essa di Gio Ponti, inizialmente intitolata Linea), Vetrina e Negozio (sempre pontiana, dedicata agli spazi commerciali), Cordelia e Tempo Illustrato (fondata da Arnoldo Mondadori e ispirata all'americana Life), scrivendovi anche qualche articolo. Dal 1944, per ben quattordici numeri, è vicedirettore di Domus insieme a Carlo Pagani (suo amico e compagno di studi universitari, 'responsabile' del suo trasferimento a Milano, quindi collega per tutta la fase meneghina), con il quale aveva avuto uno studio in Via del Gesù, 12, purtroppo distrutto dai bombardamenti del 1943. Insieme, i due fondano e dirigono la collana Quaderni di Domus e, con il sostegno di Bruno Zevi, nel 1946, creano il settimanale A- Attualità, Architettura, Abitazione, Arte, per far conoscere anche al grande pubblico il modo di abitare “razionale” in una società democratica.
Anche se non ha mai lavorato come progettista nello studio di Gio Ponti (fondatore di Domus e suo primo direttore dal 1928 al 1941), gli insegnamenti del maestro "sulla continuità estetica fra tradizione e modernità, tra oggetti artigianali e prodotti industriali, e alcuni spunti ereditati dalla Secessione viennese contribuirono in modo significativo e duraturo alla formazione di Lina dopo la laurea", come ben riconosce nel suo libro Zeuler R. Lima.
Fondamentale per la sua crescita culturale fu anche la frequentazione dei BBPR (soprattutto quella di Ernesto Nathan Rogers) e di Franco Albini. Insieme ad altri 13 architetti milanesi, nell'aprile del 1945, è tra i fondatori del Movimento Studi Architettura (MSA), che aveva l'obiettivo di rilanciare il dibattito architettonico sul problema della ricostruzione delle città e sul tema della casa.
Al termine del conflitto, per il quotidiano Milano Sera da lui diretto, Elio Vittorini incarica Lina Bo e Federico Patellani di redigere un reportage in giro per l’Italia che documenti le distruzioni causate dalla guerra.
"Fu allora, quando le bombe demolivano senza pietà l'opera e il lavoro dell'uomo" scrive Lina in un articolo del 1947 "che capimmo che la casa deve essere per la vita umana. Deve essere utile, dare conforto e non esibire come un teatro le inutili vanità dello spirito umano." E così aveva già dichiarato nel dicembre 1945 nel suo intervento al Primo Convegno per la Ricostruzione, unica architetta tra colleghi maschi: "Occorre creare una coscienza per quella che è alla base di ogni civiltà: la casa dell'uomo."
La liaison tra Lina Bo e Pietro Maria Bardi iniziò in sordina e in modo clandestino, perché lui, quarantatreenne, era sposato e aveva due figlie adolescenti. Così racconta Lina:
"Maggio 1943 - Andai a Roma in rappresentanza della rivista Stile di Gio Ponti per intervistare Bardi a proposito di un progetto edilizio popolare dell'architetto Figini, dove aveva uno 'studio'. Fu la prima volta che lo incontrai: giovane, elegante, con un che di orientale."
Si sposeranno nell'estate del 1946 (dopo che Bardi aveva ottenuto dalla Sacra Rota l'annullamento del suo precedente matrimonio) e il mese successivo partiranno per il Brasile.
In Brasile
Se in Italia Lina Bo aveva svolto soprattutto attività editoriale, sebbene su temi fondamentali di architettura, sarà in Brasile che diventerà per sempre, non senza combattere strenuamente, Lina Bo Bardi, la grande protagonista dell'architettura mondiale della seconda metà del Novecento. Infatti, vi realizzerà autentici capolavori, tra i quali la Casa de Vidro, il museo MASP (Museu de Arte de São Paulo), il MAMB (Museu de Arte Moderna da Bahia); il piano generale per la riqualificazione e recupero del centro storico di Salvador de Bahia; la Chiesa do Espírito Santo (francescana-brunelleschiana-brutalista), il Teatro Oficina e il Centro ricreativo SESC (Servico Social do Comércio) Pompéia, un’opera a destino pubblico in cui si inverano tutti i principi nei quali Bo Bardi ha sempre creduto di un'arte e di un'architettura fatte dall’uomo per l'uomo, che lei definì "cittadella della libertà", parafrasando un complimento ricevuto anni addietro da John Cage che aveva definito il suo MASP “architettura della libertà”.
Del MASP, come riferisce Lima nel suo libro, lei stessa avrebbe detto a posteriori: "Non piaceva agli intellettuali [Cage a parte], ma alla gente sì. Io non cercavo la bellezza, cercavo la libertà." Per poi concludere, felice e orgogliosa: "Indovinate un po' chi l'ha fatto? Una donna!"
È dal suo intento di realizzare un teatro democratico e in sintonia con i tempi che nascerà poi il Teatro Oficina. Da lei concepito come una strada urbana sui cui lati si innalzano i tralicci che ospitano il pubblico, rivoluzionerà sia il modo di mettere in scena gli spettacoli che la stessa tipologia teatrale (rimasta pressoché immutata nei secoli).
Nonostante Lina Bo Bardi sostenesse che "per fare un attaccapanni, basta un chiodo", in Brasile, ebbe anche un'intensa attività di designer. Soprattutto nei primi anni dal suo trasferimento, progettò mobili, alcuni con il collega italiano Giancarlo Palanti, altri a sua sola firma, certuni dei quali divenuti dei must, caratterizzati dal suo "tocco milanese [... ] e da un felice connubio di forme e tecniche razionaliste con altre più tipiche della tradizione brasiliana." (Lima)
Anche nelle sue architetture Bo Bardi prediligerà il meticciato linguistico, l'incontro, cioè fra le tradizioni rurali autoctone brasiliane e il razionalismo, è ciò (con traslazione geografica) mostrando di avere recepito ed elaborato appieno l'insegnamento della Scuola di Milano che aveva sostenuto la necessità di fondere la lezione del Movimento Moderno con la tradizione costruttiva mediterranea. Mutuò da Edoardo Persico, suo maestro in pectore, il principio secondo cui "l'architettura ha come scopo quello di accogliere la vita umana e aiutare la società nel definire e condividere valori collettivi." Sarà lei stessa a dire che il suo approccio all'architettura era "un'avventura umana continua e reale". E ancora: "I progettisti che guardano le riviste di architettura seduti alla scrivania e non hanno occhi per la realtà, saranno creatori di edifici e di città astratte." (Vi si legge la sua aperta critica a Brasilia, perché lontana dai bisogni primari della gente.) E continua con un invito agli architetti che non devono "dare priorità al loro individualismo formale, ma alla consapevolezza di poter essere utili alle persone, con la propria arte ed esperienza." Così conclude: "Questo è il vero significato dell'architettura oggi."
Il suo primo progetto fu quello della sua propria abitazione, la famosa Casa de Vidro, come la battezzarono i paulistanos: un volume trasparente sospeso sulla foresta tropicale, sorretto da pilotis, in cui, come già nelle case degli indios, è rispettato il rapporto tra intervento antropico e ambiente, il che fa di lei un’autentica pioniera della odierna attenzione per la natura.
Ma non risiede soltanto in questo l'attualità della poetica architettonica di Lina Bo Bardi (se ne legga qui su Doppiozero).
Infatti lei, senza alcun contatto con i grandi architetti brasiliani, snobbata da Richard Neutra e ignorata da Lucio Costa, conduce con coraggio e determinazione la sua battaglia per un'architettura fondata sull'impegno civile. Un'architettura che, libera da ogni consorteria 'di scuola', si esprime con un linguaggio del tutto personale in cui reminiscenze classiche si mescolano a forme moderniste, la tradizione si fonde con la modernità, l'innovazione tecnologica si sposa con la manualità artigiana.
Un'architettura disvelata e allo stesso tempo misteriosa; originata dallo studio della forma e non generata dai numeri; ancorata alla realtà e surreale al contempo; topologica e non geometrica che ha sempre al proprio centro la vita dell'essere umano, un'architettura umanista, insomma, come amava definirla lei stessa. E neppure si deve dimenticare che nel tempo in cui Bo Bardi si è trovata a vivere e a lavorare erano pochissime le progettiste di architettura, nessuna, oltre a lei, nell'America Latina. Perciò la sua battaglia per una architettura capace di "sostituire il me con il noi" è stata ancora più eroica, non già opera di una "dea stanca", ma di una donna, di una architetta "piena di inventiva e piena di coraggio", come la definisce giustamente Zeuler R. Lima in un capito del libro in cui le rende omaggio, o ancora, una progettista umanista e un'intellettuale organica, come lei stessa aspirò ad essere, riuscendovi appieno.
Anche Milano, la sua prima città d'elezione, ha celebrato Lina Bo Bardi dedicandole una piazza, situata non molto distante da Palazzo Bolchini, dove lei aveva abitato e lavorato nella sua intensa stagione meneghina.