Speciale

L’università è la neoscuola primaria / La Carica dei Seicento

9 Febbraio 2017

Quel 25 ottobre del 1854, i seicento cavalieri della Brigata leggera inglese s’avanzarono lentamente verso la valle che li avrebbe visti poco dopo lanciarsi in una carica suicida contro le batterie di cannoni russi. Scorgendoli in movimento, i comandanti russi supposero, sul principio, che gli inglesi fossero ubriachi. L’azione pareva e fu in realtà insensata: intorno, sulle alture, altri cannoni russi e truppe pronte a intervenire. Ma gli inglesi non erano ubriachi e la stupida carica prese origine, poi si seppe, da ruggini e malintesi nella loro catena di comando. Fu, durante la Guerra di Crimea, un momento memorabile della battaglia di Balaclava. La Carica dei seicento fu scriteriata ma divenne la più celebre di tutti i tempi: così va il mondo.

 

Non passerà certo alla storia la carica con cui seicento docenti d’università (ma non solo, anche noti e note intellettuali) si sono di recente gettati con impeto e sprezzo del pericolo (e, forse, del ridicolo) nella valle di lacrime delle manchevolezze dei loro discenti quanto a ortografia e composizione di testi a uso accademico. Per carità di patria, resta un dubbio sullo stato di lucidità di protagonisti e protagoniste di tale atto, considerato che l’esito, se la situazione che descrivono corrispondesse alla realtà, potrebbe rivelarsi parimenti autolesionista.

 

Anzitutto, una precisazione. Molto approssimativo sarebbe infatti accogliere la questione come riassunta dalla formula “gli studenti universitari non sanno l’italiano”. Così s’è fatto e un’opinione pubblica grossolana ne ha diffuso l’eco. Si è così portato oltraggio non solo alle competenze disciplinari vantate da chi ha firmato l’appello ma anche e soprattutto al buonsenso. Che le offese al buonsenso perpetrate da chi dice di informare siano giornaliere non deve indurre d’altra parte all’assuefazione.

Non sapessero l’italiano gli studenti universitari italiani, resterebbe infatti misteriosa la loro appartenenza, come giovani di belle speranze, a una comunità che s’esprime nella lingua del sì. Non di alloglotti, insomma, si tratta. Si tratta di giovani italiani, perfettamente padroni della lingua ai livelli richiesti loro dalla vita che conducono profittevolmente e che, per essere condotta, non impone evidentemente di adottare certe norme di buona creanza (linguistica).

 

Ph Martin Parr.

 

Da tale vita, ne saranno richieste altre: ogni epoca ha le sue, infatti, né esiste società che ne sia priva. Apprendere e praticare quelle di cui i docenti lamentano l’assenza è evidentemente, agli occhi dei discenti, una perdita di tempo. Perché? 

Perché dedicherebbero così la loro cura ad esprimersi in una lingua che vale al massimo per le incombenze più vili o più distese e informali della vita pratica: far spese, chiacchierare o chattare con amiche e amici e attività simili. Ciò dice loro la società di cui fanno parte a pieno titolo e di cui respirano l’aria. Ed è questo il messaggio del tempo: prima ancora che a parole, nei fatti. Anche nelle pratiche messe in atto dall’università che frequentano. Quella dei seicento intrepidi docenti. 

Tale università è infatti memore delle sorti dell’italiano non al momento di accrescerne il pregio praticandolo orgogliosamente quando ci sono da esprimere con esso, per esempio, i prodotti dell’ingegno nazionale. Lo è al contrario quando si tratta di apostrofi dimenticati e di accenti mal distribuiti in elaborati che servono a conseguire titoli di studio di scarso pregio. Sono conferiti infatti da un’istituzione che, della lingua in cui s’esprime giornalmente, ha essa medesima una considerazione molto scarsa, se non proprio vile. Il paradosso è lampante.

 

Quando inoltre, dentro e fuori dell’università, a tale lingua capita di dare voce a prodotti culturali (qui s’intende cultura in quel senso ampio che è doveroso darle), si tratta di prodotti che, con la scusa di essere popolari e con l’ormai vieto pretesto della divulgazione, considerano volgarmente poco più che scemo chi ne fruisce e diventano “ipso facto” più scemi del loro più scemo fruitore e più sciatti dei suoi più sciatti modi. Una lettura anche cursoria della corrente manualistica universitaria sarebbe in proposito molto istruttiva.

 

Non c’è reale, del resto, che non sia razionale, disse, ormai sono quasi due secoli, un tedesco non privo di ingegno. Ci sono aspetti degli elaborati degli universitari italiani che sarebbero già degni di sanzione al livello di una terza elementare? Così si sono espressi i loro pensosi docenti. Forse si sbagliano e c’è da augurarselo, per loro medesimi. Se il loro giudizio corrisponde però alla realtà (e l’accorato appello non lascia dubbi in proposito) è facile intendere razionalmente perché ciò accade. 

 

Accade allora perché si chiama ancora università ciò che è nei fatti una scuola primaria. Si fa così per via della solita inerzia dei nomi, restii al mutamento anche quando ciò che designano è diventato altro: c’è bisogno d’esempi, al giorno d’oggi? L’appello l’ha impudicamente svelato dell’università. Dopo la carica dei seicento, non si dovrebbe più fingere, a proposito dell’università (finora, del resto, lo si era fatto piuttosto malamente, a dire il vero). L’università è la neoscuola primaria. La scuola primaria del presente.

E cosa dovrebbe fare allora la comunità nazionale italiana, destinataria di quella lettera? Rispondere che, per un semplice e onesto principio di realtà, gli addetti all’università (e prima di ogni altro i firmatari dell’appello) sono chiamati a prendere atto della situazione, doverosamente. Sono loro i nuovi insegnanti elementari. E siccome di insegnanti di scuola primaria una società ha basilarmente bisogno più che di professori universitari, data la nuova situazione e a prescindere dai titoli, a loro spetta il compito di esercitare tale professione utile e nobilissima. 

 

Insomma, la comunità nazionale dovrebbe rispondere che, dando l’esempio agli altri, primi fra tutti proprio i seicento facciano fronte alla situazione di emergenza che denunciano, che si rimbocchino le maniche, che comincino a correggere, a emendare, a educare, che non invochino soccorsi, impossibili da portare loro nello stato presente della società italiana, che la smettano di scaricare su altri le colpe, assecondando un tipico (mal)costume nazionale, che non si scarmiglino, che non si strappino in pubblico le vesti e che la smettano con la sceneggiata degli appelli. 

Da loro e non da altri dipende il futuro nazionale della buona educazione linguistica di cui lamentano l’assenza. Si chiedano non cosa può fare l’Italia per loro ma, per una volta seriamente, cosa possono fare loro per l’Italia e, anzitutto, per la sua lingua.

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