Viaggio nelle scene d’estate #3 / Santarcangelo 2050: nella mutazione

Di Santarcangelo 2050, seconda puntata del festival del cinquantenario diretto da Motus, solo alcuni sprazzi. Il programma, immenso, disegnava un “Futuro fantastico”, come si leggeva con lettere al neon collocate su un margine del pratone detto “nellospazio” dove si svolgevano parecchi spettacoli: un futuro di mutazioni. E il primo oggetto registrato come mutante è proprio il teatro, trasformantesi in clip, video, interventi musicali, performance, laboratori, giochi, dichiarazioni e azioni militanti, contaminazioni con altri linguaggi e rituali, come ormai avviene da decenni nelle scene più inquiete. Una mutazione per provocare a entrare in tempi complessi. In sostanza il programma si rivela un bombardamento di oggetti vari, multipli, insinuando il sospetto di un certo horror vacui e della necessità di stipare tutto quello che è saltato a causa dei vari lockdown. 

Noi qui abbiamo scelto di isolare qualche piccolo tesoro, per non farci travolgere, per non ridurre a consumo retrospettivo, a flusso indistinto, la radicale concentrazione che l’arte può indurre. Per provare a trasformare pochi spunti (forse anche perché siamo invecchiati, noi che scriviamo) in meditazione. (Ma. Ma.)

 

Betty Apple, Signals from Future.


El conde de Torrefiel, qui e altrove (Attilio Scarpellini)

 

Un ampio prato ai margini di un bosco, l’aria è umida, quasi fredda, una sera d’estate poco prima del tramonto, duecento spettatori siedono su duecento sedili a forma di cubo davanti a un megaschermo rettangolare (e no, non sta per essere trasmessa una partita del Campionato europeo di calcio). Sullo schermo, un rigo dopo l’altro, si compone una frase: “Quando uno spettacolo inizia, il pubblico sa bene che tutto ciò che vedrà è falso, è artificiale, una fiction. Ora, qui, noi siamo gli spettatori, e tutto quello che stiamo per vedere è una messinscena. Ora, qui in questo spazio in cui ci troviamo, i nostri occhi sono un grande sipario aperto…”. Non è affatto raro che uno spettacolo di teatro contemporaneo inizi denunciando la propria finzione, è più raro che questo compito, invece di essere affidato alla voce degli attori che, come Viola nel Racconto d’inverno di Shakespeare, dicono “Io non sono quello che sono”, sia affidato alle parole proiettate su uno schermo. Ma di questa visibilità del testo e della scrittura il gruppo spagnolo El Conde de Torrefiel ha fatto una delle sue principali caratteristiche: la parola nei suoi spettacoli non si ascolta, si legge su uno schermo, si forma come il messaggio di una telescrivente, a un ritmo lento ma continuo, mentre sulla scena gli attori danno vita a un’azione che spesso non ha (o non sembra avere) niente a che vedere con le parole del racconto. Solo che sulla scena di Ultraficción n. 1, la performance che Tanya Beleyer e Pablo Gisbert hanno creato appositamente per la 50.esima edizione del festival di Santarcangelo non sembra esserci altro dispositivo che lo schermo, come se gli spettatori fossero chiamati tutti insieme a leggere dentro lo stesso grande libro squadernato. 

 

In principio era il Verbo, come dice il Vangelo di Giovanni, e dapprincipio non c’è altro che scrittura, la materia più fredda e convenzionale della cultura occidentale. Ma anche la più imperiosa e in fondo la più trasformativa, poiché è la parola ad aprire il sipario degli occhi e a dettare le condizioni della visione: “Tutto ciò che vediamo, sembra reale – incalzano le scritte – gli alberi di fronte a noi sembrano alberi veri. Le persone che ci circondano sembrano persone reali. Il tramonto sembra reale. Gli uccelli e i loro suoni, le macchine che passano, i grilli e i loro cri-cri sembrano reali. Le zanzare che ci pungono sembrano reali”. Per poco che lo spettatore distolga lo sguardo dallo schermo e lo sollevi verso il cielo, o che semplicemente guardi insieme lo schermo e ciò che lo circonda, l’illusione si compie, tutto (ri)appare: gli alberi, il tramonto, gli uccelli, le auto sulla strada, i grilli e anche le zanzare che in una serata romagnola non possono mancare, reali e nel contempo fittizi, linguisticamente ricreati, tradotti nella più sontuosa delle scenografie. 

 

Basta il verbo “sembra” a insinuare il dubbio capitale che la realtà, appena toccata dalla parola, orientata dalla sua capacità di inquadrare, sia molto meno reale di quel che crediamo, anzi sia la più perversa, la più radicale, la più oltranzistica, come suggerisce il titolo della performance del Conde, delle finzioni. L’inganno è scaltro, quanto l’effetto potente: abbiamo bisogno di uno schermo per vedere, e infatti viviamo circondati da schermi di ogni tipo, da quadrati e rettangoli, da finestre e display, nel tentativo continuo di interrompere e di riordinare la ricchezza vitale di una materia altrimenti indomabile e più oscura di quel che potremmo desiderare, abbiamo bisogno di recintare la natura in un paesaggio e il paesaggio in una scena o in una sequenza cinematografica. Come la voce muta e pulsante dell’onnisciente scrittura non mancherà di rimarcare in seguito: cellulari, libri, televisori, cinema, teatri, musei, ma anche carte, passaporti e persino i loculi dove depositiamo le nostre spoglie mortali, sono tutte cornici quadrangolari, geometrie che non esistono in natura. Parole che sbrigliano il pensiero e gratificano lo spettatore che si bea della loro sostanza (e della propria intelligenza) senza troppo rendersi conto, lì per lì, che in fondo altro non fa che continuare a leggerle dentro un rettangolo nero che si riempie e si svuota di caratteri.

 

L’ironia e una certa ambivalenza critica sono tra le armi retoriche che il gruppo di Barcellona usa con più sapienza nelle sue creazioni (e difatti nei testi di Gisbert il confine tra adesione e parodia rispetto allo stesso linguaggio del contemporaneo è sempre indecidibile). Ma i colpi di scena non sono finiti. Anzi, a dire il vero, lo spettacolo è ancora soltanto all’inizio. È con il sopraggiungere della notte – anch’essa prevista e intercettata – che comincia il fuoco d’artificio dei racconti. Perché la notte, che nel frattempo cala davvero facendo fremere il fogliame del bosco, è il tempo che riserviamo all’immaginazione. Così sentenzia lo schermo onnisciente mentre la pelle rabbrividisce e ci si mette sulle spalle un golfino. 

 

El conde de Torrefiel, Ultraficción n. 1.


È quasi impossibile districare il labirinto di storie che si sovrappongono nella narrazione ininterrotta di Ultraficción n. 1: esse uniscono sempre il qui e ora della tribù di spettatori riunita attorno allo schermo magico, che ben presto assume un ruolo sciamanico, a un altrove a tratti distopico, ma mai troppo lontano. Possono essere innescate da una sonorità metal, come quella della chitarra di Josh Homme, leader di un gruppo chiamato Kyuss, pioniere dello stoner rock che nel 1994 suona davanti a cinquecento persone al confine tra gli Stati Uniti e il Messico, ignorando del tutto che 31 anni dopo quel concerto la sua musica “dura, densa e aggressiva” verrà interrotta dagli spari mentre si sta esibendo con gli Eagles of Death Metal al Bataclan di Parigi (con i koan del Conde siamo sempre, per dirla con Handke, nell’“ora in cui non sapevamo nulla l’uno dall’altro”), ma l’istante dopo, nel giro di una pausa tipografica, ci si potrebbe ritrovare su un aereo che va da Parigi a Tel Aviv mentre una ragazza spia il suo vicino arabo che scrive su un computer da destra a sinistra – e tutti pensano si tratti di un terrorista (e invece è uno sceneggiatore), perché ogni storia depone un germe in quella successiva. 

 

Creata solo per esistere alcune notti e poi confluire in uno spettacolo di cui ancora i suoi creatori non sanno nulla, l’ultrafinzione del Conde è quasi un esperimento di realtà aumentata che a un certo punto subisce un corto-circuito, uno squarcio in cui la rappresentazione esce dai limiti dello schermo e si confonde con la ‘natura’ circostante: quando un rave che è solo raccontato e sonorizzato fa muovere veramente le fronde degli alberi sotto gli occhi abbagliati degli spettatori che le vedono danzare al ritmo ossessivo della musica malgrado non spiri un alito di vento o quando, in un inaspettato momento di silenzio, una luce oscilla nel buio e, annunciato da uno scampanio, un gregge di pecore guidato da un pastore con una lanterna in mano scende dal bosco. Sono pecore ammaestrate, ottime attrici che rispondendo a un fischio cambiano direzione tutte insieme e tuttavia veri animali che si rivelano anzitutto attraverso l’odore, teatralmente inimitabile, che i loro velli spandono nell’aria. Una spettatrice raccoglie le gambe sul suo scranno, per non essere sfiorata, e trattiene il respiro finché la transumanza non è ultimata. Che cos’è la realtà chiese una volta una studentessa allo scrittore Philip Dick. È quella cosa, rispose l’autore di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, che quando smetti di crederci non scompare. 

 

Più dell’auto che sgomma sulla strada parallela al bosco, più degli alberi danzanti, l’immagine delle pecore e del pastore sfonda con la sua corporeità lo schermo astratto del racconto: esiste, senza che si riesca a capire da dove provenga o cosa nel testo l’abbia annunciata. È scritta nel linguaggio dei rebus con cui secondo Freud si esprimono i sogni: reale nel senso irriducibile che Lacan dà a questa parola. È l’intervallo che ironicamente si sostituisce alla trasmissione. Forse. O forse il segreto di quella lanterna è quello che nel testo di Gisbert balugina all’origine di ogni narrazione: “era così migliaia di anni fa / illuminati dalla luce di una fiamma // ed è così ora, / abbagliati dalla luce di uno schermo”.  E il pastore viene dalla notte illuminata dalla brace dei falò che Don Chisciotte e Sancho trascorrono assieme ai caprai e ai loro canti nell’XI capitolo del romanzo di Cervantes.

 

Klub Taiga di Industria Indipendente.


Le tagliatelle, il contemporaneo, la vecchiaia, con Deflorian/Tagliarini (Massimo Marino)

 

Il mio saluto obbligatorio a Santarcangelo sono le tagliatelle del ristorante Zaghini. Uniche. Il sabato sono fatte con centossessanta uova, la domenica con centonovanta, con sfoglie stese dappertutto nella cucina. Antiche, in questo festival ipercontemporaneo, che come tutti gli iper nel mettersi in scena si simula e si rende feticcio, snodo autoproclamatosi mitico, aldilà dell’effettiva essenza e consistenza.

Gli spettacoli per me iniziano con un’immersione nel buio con Klub Taiga Dear Darkness di Industria Indipendente. Nella sala del Lavatoio si intravvedono tappeti, tavolini, figure nere spettrali, una stesa a terra... Lampi di luce ogni tanto fanno scorgere qualcosa in più. Su un tavolino armi, o forse legni? Trance elettrica, trance da Impero Russo, che a poco a poco si rivela, anche con testi cantati, ricerca, attesa, vuoto, pulsare elettrico di musiche corpi luci, clubbing, piccole isole di vita alternativa, sia la mafia russa che spende e gode o sia un gruppo di artisti che immagina altre vite. Risposta alla massificazione, anche a quella in community virtuali, con il corpo che tutto attraversa e che si fa attraversare da flussi di essere, di stare, di pulsare.

 

Sovrimpressioni di Deflorian/Tagliarini.


Si torna al sole e poi, con un autobus, si parte verso Rimini. Alla sala Pamphili del Teatro degli Atti, spoglia, con mattoni nudi, Deflorian/Tagliarini ci ammettono alle loro prime ricerche su Ginger & Fred di Fellini, che porteranno a uno spettacolo da palco con più attori in autunno. Per ora – diversamente dal lavoro in profondità, anche in quelle personali, per Scavi, tappa che aveva preceduto la creazione ispirata a Deserto rosso di Antonioni, Quasi niente – sovrappongono, e Sovrimpressioni si chiama il lavoro. “Ti ricordi… oddio, trovo insopportabile cominciare una frase con ‘ti ricordi’. Subito vecchiaia. Insomma…” inizia Daria Deflorian.

 

A due tavolini, uno di fronte all’altro, separati da uno specchio, si fanno truccare da due ragazze molto giovani. Una – Chiara Boitani, con i capelli chiari a paggetto che richiama un personaggio di qualche quadro quattrocentesco – discreta, quasi invisibile; l’altra, Cecilia Bertozzi, incombente, imperturbabile, evidente pur nel compiere azioni molto semplici. Sono due Parche che srotolano il filo di vite che invecchiano a vista (sono loro che le truccano da vecchi). E intanto Daria e Antonio (i due personaggi di Deflorian e Tagliarini che abbiamo imparato a conoscere in vari spettacoli, tra finzione, simulazione e rivelazione, verità) si raccontano. Parlano della paura di invecchiare, del sentirsi forever young che è di un’intera generazione, molto più giovani all’apparenza in un’età più o meno simile a quella che avevano Masina e Mastroianni all’epoca del film. Mettono a nudo le loro relazioni con i vecchi e con l’invecchiamento. Appaiono in loro Pippo e Amalia, i personaggi del film di Fellini, lei che alla fine parte, dopo l’ultima esibizione nello squinternatissimo show televisivo che li ha riuniti, torna al paese e alla famiglia, lui che non si sa che cosa farà dopo. Già, che cosa ci aspetta, dopo? Cosa aspetta Pippo, seduto sconsolato su una panchina, dopo che lei è salita sul treno?

 

Le truccatrici hanno fatto vestire i due, lui con uno smoking (ormai barba e capelli sono grigi), lei rifiuta un luccicante abito da sera e si veste con una semplice gonna e camicetta, con occhiaie profonde e parrucca da sciura. Lo specchio che li separava è caduto. Le due parche sono sparite. Lei si siede su un dorato divano fiorato: “Mi batte forte il cuore. Come quando devo fare qualcosa. Come quando dall’idea passo alla realizzazione”. E non si lancia nel ballo, rinunciando, svuotata dei passati desideri. Lui prova a danzare, sente una fitta, scivola, cade. Si rialza, danza, scivola, cade… 

Si ritrovano nell’ampio spazio, si prendono sottobraccio, come due vecchietti che non riescono più a dominare propositi ed emozioni. Salutano il pubblico. La terza parca, quella che taglia il filo, non è apparsa. È in agguato.

 

Sovrimpressioni di Deflorian/Tagliarini.


Di un altro spettacolo forte ho già scritto, Madre, di e con Ermanna Montanari, i disegni live di Stefano Ricci, le musiche di Daniele Roccato, poemetto scenico di Marco Martinelli.

Santarcangelo è anche riflessione e memoria. Nel gran numero di “talk” e discussioni spiccano la presentazione del film di Mellara e Rossi 50 Santarcangelo Festival (Mammut Film), di cui abbiamo detto l’anno scorso, e di un prezioso volume a cura di Roberta Ferraresi, Santarcangelo 50 Festival (edizioni Corraini). Con molti documenti fotografici e pure con interventi di vari altri autori, nel suo percorso centrale traccia una storia del festival attraverso le sue direzioni artistiche: un lavoro di preziosa, vivida indagine storiografica, che davvero si trasforma in mobile ritratto del teatro che abbiamo attraversato, fornendo a chi voglia coglierli spunti per ridefinire gli scenari che ci aspettano.

 

Immagini degli spettacoli di Claudia Borgia e Lisa Capasso. L’ultima fotografia, di Carla Cerati, ritrae Julian Beck ed è tratta dall’archivio storico del festival.

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