Tempo, spazio e vasetti di yogurt in alcune opere di Julie Polidoro / Mi fa male Chioggia
Le carte geografiche, come si legge, alla voce omonima, nel “Nuovo soggettario Thesaurus” della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – sì, al plurale –, sono Rappresentazioni approssimate, ridotte e simboliche della superficie terrestre, o di una sua parte, su un piano, con lo scopo di farne conoscere l’aspetto fisico, le divisioni politiche, i fatti economici o altre caratteristiche, le condizioni storiche di un determinato periodo, etc., indipendentemente dalla scala utilizzata. Senza scomodare (troppo) Tommaso d’Aquino che definiva rappresentazione quella facoltà, distintiva dell’intelletto, di contenere, per analogia o similitudine, l’immagine di una cosa qualsiasi, visibile o invisibile esistente fuori o dentro di esso, possiamo concordare che non sono possibili rappresentazioni neutre di nessuna cosa nel mondo e fuori, e neppure rappresentazioni neutre del mondo stesso. Né quando la rappresentazione si ferma all’intelletto, né quando la rappresentazione di un singolo intelletto, si renda visibile, e addirittura condivisibile, da altri intelletti. Costruire una carta geografica significa, in particolare, scegliere nella varietà del mondo vasto e largo cosa rappresentare e come, cosa inserire nella mappa e cosa lasciare fuori.
Una carta è dunque, prima di tutto, l’espressione di un desiderio (anche in senso proprio, costruire una carta geografica che consenta di raggiungere le Indie, trovare il tesoro, arrivare a un appuntamento), ed è l’ostensione, la forma bidimensionale della memoria.
Julie Polidoro dipinge e disegna carte. Ciò che appare evidente è il tentativo di, e per meglio dire, la tensione a (termine più accosto a desiderio) disegnare mappe che siano rappresentazione non delle cose del mondo, non della loro posizione, ma delle relazioni tra oggetto e oggetto, luogo e luogo, perché c’è sempre qualcosa che si frappone tra la conoscenza e l’oggetto osservato: il tempo.
In questa accezione e riprendendo la definizione in apertura, le mappe di Polidoro sono rappresentazioni approssimate, ridotte e simboliche della superficie terrestre e di sue parti, su una tela, con lo scopo di mostrarne l’aspetto fisico, il portato emotivo, la visione politica, le intermittenze dei sensi, le rivoluzioni (primariamente in senso astronomico) del desiderio, le facciate (primariamente in senso architettonico) della memoria. L’ordine di grandezza che Polidoro sceglie, il suo fattore di scala – il suo metro di Duchamp – è l’essere umano.
[ma si dica del tempo]
In una rappresentazione lineare del tempo c’è uno zero – un artificio, come ogni inizio, il punto dal quale il tempo comincia a scorrere e a essere misurato. Dallo zero, il tempo corre verso una fine, perché ha una direzione. Nell’opera di Julie Polidoro è possibile osservare almeno un’altra rappresentazione del tempo.
In Gribouillage: 24 couleurs pour 24 positions/temp [2013, crayons de couleurs et encre sur papier coton encadré, 60x80 cm], vengono rappresentate, sovrapponendole, 24 posizioni di uno stesso mappamondo, ciascuna posizione con un colore diverso, così che togliendo un colore alla volta, sarebbe possibile tornare indietro, nel punto del tempo dove si è tracciato il primo profilo, e nella posizione in cui si trovava il mappamondo. Il futuro dunque, che è il presente di chi guarda, e il passato di chi ha tracciato i profili, è una somma discreta di presenti, uno sopra l’altro, uno dopo l’altro. Il tempo si accumula e si avvolge come in un gomitolo. Questo futuro dato da un affastellamento di presenti è libero delle attese e delle aspettative, c’è di volta in volta, tanto che del presente serba la leggerezza nella quale esistono il gesto e il corpo. La permanenza dell’attimo, temuta da Faust, viene attuata attraverso una ripetizione. Sulla tela rimane la relazione col tempo di chi dipinge. E di chi guarderà.
Ri-essere non è un problema.
In tre dei quadri esposti nel 2011 ai Frigoriferi milanesi, la struttura accumulativa del tempo inscenata da Polidoro continua a rivelare, per gioco combinatorio, la sua forma circolare. Nelle tre tele dai titoli, Today is Yesterday’s Tomorrow, Yesterday is Today’s Tomorrow e Tomorrow is Today’s Yesterday [http://juliepolidoro.com/index.php?/recentwork/unstretched-canvas-ii/] rappresentanti cieli nuvoli ma tutt’altro che minacciosi (cieli che Credi di guardare e ti rammenti, con una piccola variazione su un tema classico di Baudrillard), il tempo si rincorre (oggi è ieri di domani, ieri è oggi di domani, domani è oggi di ieri), così che dal passato si vede il futuro, e viceversa. Così che tra il passato e il futuro non intercorrono nessi causali. Il passato e il futuro sono facoltà dell’occhio di chi guarda. Il tempo scelto da Polidoro, presentifica, non qualcosa che accade ma qualcuno che accade. Il rapporto tra il pittore e l’oggetto. Il rapporto tra lo spettatore e l’opera. Ora.
[e lo spazio?]
Lo spazio in Polidoro è funzione del tempo. La serie Tous le pays du monde en contact (2011-2014) parte da una tela sciolta in cui i paesi colano uno sull’altro (I – tecnica mista su tela di lino, 128 x 43 cm) lungo le piegature della stoffa sulla quale Polidoro dipinge, e si completa in quattro quadri, di formato più piccolo e intelaiati (Tous le pays du monde en contact II, III, IV, V, 2014, tecnica mista su tela, 91 x 63 cm ciascuno), nei quali quattro Pianeta Terra, in forma di mappamondo, dapprima con un reticolato di meridiani e paralleli, si compongono e colorano della sovrapposizione di posizioni successive di un mappamondo che pare girare in senso orario, ma anche in senso antiorario, secondo desiderio e occasione.
In Tous le pays du monde en contact II, Polidoro mostra una prospettiva, ciascun paese è dipinto nella forma in cui Polidoro lo vede, in accordo alla posizione del mappamondo. La Terra, lo spazio nel quale ci muoviamo, è una funzione del tempo. La Terra, lo spazio nel quale viviamo, non esiste senza il tempo.
[frigoriferi]
Il frigorifero è la più diffusa, economica e funzionante macchina del tempo. Al contrario del freezer, che fa subito pensare alla morte, il frigorifero tiene in sé la speranza che qualcosa si conservi e si sottragga innaturalmente ma quotidianamente alla consunzione. Il frigorifero rallenta un processo di decomposizione (che tuttavia si chiama vita). Inoltre, la contrazione dello spazio – come per chi viaggia alla velocità della luce – corrisponde a una dilatazione del tempo e così, nell’esiguo cassetto della frutta, le pesche durano più a lungo.
I frigoriferi di Julie Polidoro – serie pittorica iniziata nel 2005 – sono carte geografiche come, io credo, sono carte geografiche tutti i dipinti di Polidoro. Non contengono solo cibi, essi sono macchine di memoria e di immaginazione (se c’è poi differenza). Ci si presentano aperti, in sezione, geroglifici quotidiani del contemporaneo. In “Frigo aperto da una bionda”, il contenuto del frigo è nascosto dal corpo di una donna che, di spalle, guarda all’interno, ed essendo nascosto, immediatamente, il contenuto si trova a essere desiderato. In “Frigo in cielo” ci sono aerei e nuvole, una famiglia di oche di Lorentz o di Nils Holgersson. In “Frigo abitato I” stanno due angioletti come in una cappella giottesca, aureolati.
Nello spazio fisico del frigorifero, e nel tempo di conservazione che ciascun prodotto ha in sorte, ci sono dunque cibi, parole, lacerti, etichette, sirene e marchi noti (Vuitton, Apple, BMW, Sony), l’hard discount di passato e futuro, di memoria, conoscenza ed esperienza al quale ci serviamo.
E che tutto trasforma in prodotto, pure gli affetti, pure le mitologie, pure le parole che finiscono, immote, nella loro funzione di etichetta, e che, immobili, disegnano una costellazione dalla quale ciascuno può estrarre – d’altronde il portellone del frigorifero è aperto – un vaticinio o almeno un oroscopo. Le etichette recitano, a memoria o, per meglio dire, con beneficio d’inventario, “Tempo”, “privato”, “spazio pubblico”, “i nostri corpi” – più di una volta –, “invisibile”, “territori sconosciuti”. Nei “Frigoriferi” di Polidoro ci sono anche (soprattutto?) cose che non possono essere comprate ma solo consumate.
Ci sono anche un paio d’occhi, una mucca intera, ali(a), una giungla su fondo rosa, una maschera, un ventaglio e un mappamondo. Il frigorifero, nella commedia politica di dimenticanza, consumo e mutamento – non generali astratti ma particolari concreti, perché tutti abbiamo esperienza e presenza del frigorifero –, dipinta da Polidoro rispetta le tre unità aristoteliche, di luogo, di tempo e di azione. Le prime due sono costitutive. L’unità di luogo è il frigorifero, l’unità di tempo è l’intervallo di conservazione. L’ultima, l’unità di azione si ristabilisce ogni volta che l’osservatore sta davanti alla tela perché, come davanti a un frigorifero aperto e sconosciuto, egli comincia un’educata, forse silente, elencazione (ce l’ho, non ce l’ho), un gesto di puro e infantile nominalismo, e finisce a ritrovarsi nel ruolo e nella postura dell’indiscreto.
Se, come osservava Simone Weil, il fondamento della mitologia è che l’universo è metafora delle verità divine, è possibile dire, con allegra certezza, che il fondamento della quotidianità è che il frigorifero è metafora delle verità umane. E le verità umane scadono.
[un’ipotesi sulle tele senza scheletro, eppure vive – performance della materia inerte]
Se quello che Polidoro mette in scena è una relazione sua (e pure di chi guarda le sue opere), specificata dalla contingenza che tra chi osserva e chi viene osservato c’è e passa il tempo (o tra cosa osserva e chi viene osservato come ne Le nuvole mi guardano [2009, pigment on canvas, Rome, Private Collection, 150 x 200 cm] allora il gran numero di tele sciolte, trasforma, per struttura una esposizione in una performance perché la tela, nonostante sia materia inerte, se libera di muoversi, di oscillare ai passi e alla prossimità dello spettatore, rivela colori diversi secondo l’inclinazione o l’ombra di una piegatura.
Anche questo è un effetto, mi pare, della presentificazione del tempo di cui si è detto. La serie Folded colors fissa queste ombre, le irrigidisce, ma guadagna una dimensione fisica (perde in tempo ma guadagna in spazio), perché dalla tela si passa a una sorta di origami non figurativi. Solidi platonici scazonti che, in quanto tali, sono verità immutabili solo da un certo punto di vista, da un angolo.
[non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo noi]
Da bambina mia madre mi regalava molte cartine mute. Da principio, prima di capire cosa fossero e a cosa servissero, mi parevano mappe dell’Antartide. Invece erano per lo più carte geografiche delle regioni italiane e del Lazio in particolare sulle quali mamma mi faceva giocare sistemando città, paesi, paesini, fiumi e laghi, mano a mano che andava nominandoli. La geografia mi si è dunque subito presentata sia come luogo che come linguaggio (ancora non avevo letto Manganelli) e come desiderio. Per esempio, posizionavo Scauri – il paese dove vivevamo –, sempre un po’ più a nord rispetto a quanto dichiarava l’atlante, più verso il Circeo, perché mi piaceva l’oscuro promontorio che somigliava a un’isola ma non lo era. Nelle mie cartine mute e compilate, leggo a distanza di anni, questo desiderio. Ce ne saranno stati altri, forse meno evidenti o che non sono più in grado di riconoscere, e percepisco, guardando quelle cartine incerte e precise, un ossimoro, un errore di misura.
Congo di Michael Crichton – una delle mie citazioni preferite – comincia con Solo un pregiudizio e un’errata lettura della proiezione di Mercatore può illuderci sull’enorme vastità del continente africano. Questo perché, se non hai un desiderio nel disegnare una mappa, lo avrai nel leggerla – voglio la cartina delle Indie per vedere come sono fatte, e seguire il corso dei fiumi con un dito. Crichton, come i bravi scrittori, non è mai solo metaforico, e dunque cominciare dalla considerazione che in una proiezione di Mercatore le dimensioni delle aree lontane dall’equatore, sono, per costruzione, esagerate. La cartografia di Polidoro – e.g. Precise scribble II, 2011, colour pencils on black paper, 150 x 188 cm – pur utilizzando le mappe di google – basate su una proiezione di tipo Mercatore – sceglie un equatore variabile e dunque tutto, a turno, è rimpiccolito o esagerato, tutto è vicino, tutto è esatto tutto è mentito, tutto, almeno una volta, si trova ad avere la stessa dimensione del resto (Tutti i paesi grandi uguali, 2015, tecnica mista su tela, 191 x 200 cm).
Poiché sono ancora una bambina o, meno vanagloriosamente, lo sono rispetto al piccolo, al grande, alla distanza, al tempo, anche per me tutto è vicino, e pertanto, mi sono ritrovata a essere un naturale osservatore delle opere di Julie Polidoro.
Una carta in cui il principio di proiezione – Mercatore o meno – varia, è il principio di una nuova cartografia. L’idea per cui noi umani che mappiamo ogni cosa, ossessionati dalla nostra posizione nel mondo e dalla nostra distanza da ciò che amiamo o detestiamo, ci ritroviamo, semplicemente, davanti a questi quadri, come in un girotondo, ad assumere, passo dopo passo, il posto (lo spazio e il tempo) di un altro, e alla fine, per una forma di grazia, anche il nostro. Riconoscendoci e perdonandoci, a turno, siamo noi.
«Le forme della natura – scrive Djerzinski – sono forme umane. È nel nostro cervello che si formano i triangoli, gli orditi e le trame. Noi li riconosciamo, li apprezziamo, ci viviamo in mezzo. In mezzo alle nostre creazioni, creazioni umane, comunicabili all’uomo. In mezzo allo spazio, allo spazio umano, noi creiamo misure, tramite tali misure noi creiamo lo spazio, lo spazio tra i nostri strumenti».
Michel Houellebecq, Le particelle elementari