Le storie di jazz di Aldo Gianolio / Il trombonista innamorato

8 Marzo 2020

I suonatori di ottoni (altrimenti detti suonatori di strumenti aerofoni a bocchino), ovvero trombettisti, flicornisti, cornettisti, trombonisti a pistoni o a coulisse, cornisti, suonatori di basso tuba, di eufonio, di sousafono o di cimbasso (e, come si suol dire, chi più ne ha più ne metta), per ragioni in parte comprensibli e in parte no, paiono predisposti a interpretare il ruolo del protagonista in storie a sfondo erotico. Qualcosa, nel semplice atto di soffiare del fiato caldo dentro un tubo cavo generando delle vibrazioni, fa sì che si attribuiscano a detti suonatori spiccate doti in campo amatorio o che li si proietti dentro un invidiabile vortice di voluttà. Può anche succedere però, allorquando il fiato viene meno, che il suonatore di ottone si ritrovi, suo malgrado, nei panni infausti del cornuto (altrimenti detto: il trombato).

 

Il signor Camillo, ferroviere svizzero d’un paese della valle Mesolcina (Lostallo? Mesocco? Grono?), in Il bombardino del signor Camillo di Piero Chiara, fece colpo su Leonida detta Lea soffiando a piene gote dentro il suo strumento durante una sagra di paese in quel di Biasca. A sua insaputa, anni dopo, il bombardino fu non solo testimone ma strumento medesimo dell’adulterio perpetrato dalla moglie Lea con il narratore del racconto. Questi, entrato surrettiziamente in casa del signor Camillo, si ritrovò ad abbracciare lo strumento e, avendone ottenuto il solfeggio, confessò: mi era parso che l’ottone, sottile come foglia lungo le tube ricurve, rabbrividisse.

 

Jazz e letteratura, Aldo Gianolio.


Il trombonista innamorato protagonista di uno dei quaranta racconti brevi di Aldo Gianolio (Il trombonista innamorato, Robin Edizioni, p. 275,  €18), è a sua volta al centro di una passione divorante per una donna, l’avvenente Magnolia. Soffia che ti risoffia nel trombone non riesce però a dare sfogo al suo desiderio: il padre di lei l’ha infatti promessa in sposa a un facoltoso tabaccaio di Boston. Il trombonista, che è un trombonista jazz realmente esistito, tale Alexander Balos Williams, detto “Sandy” (1906-1991), trova comunque il modo di incontrare la concupita e ricoprirla di tenerezze e baci più dolci del miele e della besciamella, regalando al lettore uno scambio di battute degno di un call & response nella più pura tradizione del canto blues:

 

Lei: Oh! Mio timone!

Lui: Oh! Mia barca!

Lei: Oh! Mio archibugio!

Lui: Oh! Mia pentola!

(…)

Lei: Oh! Mio biscotto!

Lui: Oh! Mia prugna!

Lei: Oh! Mio trombone!

Lui: Oh! Mia chitarra!

 

I ritratti jazz contenuti in questo nuovo libro di Gianolio erano già apparsi in A Duke Ellington non piaceva Hitchcock (Mobydick, 2002), ma ai ventinove della precedente edizione se ne sono aggiunti altri undici, per un totale di quaranta, tutti presentati dall’autore in rigoroso ordine alfabetico, dalla “A” di Adderley, Julian “Cannonball”, tenorsassofonista, alla “Y” di Young, Lester, a sua volta tenorsassofonista.

 

Le note di Louis Armstrong vanno così in alto che nessuno più le riesce a prendere, Aldo Gianolio.


Tutti i jazzisti di cui scrive Gianolio sono jazzisti defunti, sono tutti americani (sola eccezione lo zingaro virtuoso di chitarra Django Reinhardt), sono tutti uomini (sola eccezione la trombettista Valaida Snow), e sono tutti degli strumentisti (ovvero, nessun cantante, né Billie Holiday, né Ella Fitzgerald, né Sarah Vaughan, né Frank Sinatra). C’è un po’ di Alfred Hitchcock e un po’ di Chaplin – i jazzisti, nelle storie di Gianolio, vanno sovente al cinema ed esprimono giudizi netti sui registi: i veri incantesimi sono quelli che Hitchcock esercita sulla critica, sospira a fine proiezione uno sconsolato Duke Ellington, secondo il quale il maestro della suspense era banalmente questo, un maestro della suspense, niente più, altrimenti detto il principe della cinematografia amena sull’angoscia. Lungo il cammino ci si imbatte in storie allegre e in storie meno allegre, in un trittico dedicato al baseball, assistiamo allo sbocciare di qualche amore, a un funerale, alla giusta dose di sesso (il trombonista di cui sopra, che oltre a essere innamorato dimostra anche una notevole resistenza nella ginnastica anaerobica da boudoir), ci sono degli incidenti (capitomboli, tempeste, litigiosità da orchestrali), risottate notturne, molto alcool e anche molto razzismo ai danni degli afro-americani. Incipit preferito da chi scrive, quello che apre il capitolo dedicato a John Coltrane (Volli, fortissimamente volli), capitolo che lo affranca, lo spazio di qualche pagina, dalla canonizzazione di cui è spesso oggetto:

 

"Il trombonista innamorato", Aldo Gianolio.


C’era una volta un sassofonista che aveva impiegato un casino di tempo per diventare tanto bravo da inventare delle cose che sarebbero state molto importanti per il jazz.

 

Chiusa preferita (che pare un incipit), quella del capitolo dedicato al pianista Jaki Byard (A Jaki non piaceva Kerouac):

 

Questo è un racconto su tre jazzisti che stavano per incidere un disco. A uno piaceva Kerouac, al secondo gli faceva schifo e il terzo era un ottimista.

 

Ma anche quella del capitolo dedicato a un altro trombonista, J.J. Johnson, lui ossessionato dallo scorrere del tempo più che dalle sottane (Il tempo e il tramonto):

 

Le donne africane sono diventate esperte a intrecciare cestini di vimini aspettando il loro uomo che se la spassa sul far del tramonto a cacciare giraffe.

 

A raccontare, nel libro, non è Gianolio, ma un fantomatico critico di jazz che di nome fa John Ferro. Ferro, oltre ad avere il terrore di parlare in pubblico, fa del suo meglio per alimentare la rivalità che lo oppone a un non meno fantomatico critico di Chicago chiamato Bill Olsen, patito di jazz contemporaneo. Da critico jazz (Gianolio è stato a lungo firma della rivista Musica Jazz, poi di Audio Review, di Jazzitalia e di Jazzit), l’autore non si stanca di sottolineare l’incolmabile distanza che separa il discorso critico sul jazz dalla pratica musicale, la serietà che anima la categoria degli esperti di jazz dalla spontaneità primordiale dei musicisti. Tutti i jazzisti di cui scrive Gianolio vivono il jazz come diretta conseguenza dello stare al mondo. Questo significa che quando sono impegnati in un assolo o a sviscerare la più celestiale delle melodie, può capitare che non siano consapevoli dell’ineffabile stato di grazia che il critico infallibilmente ravvisa nella loro esecuzione, ma siano piuttosto intenti ad anelare a un panino al salame o a un cotechino, a una bottiglia di gin piuttosto che al caldo abbraccio di una certa signora in una certa camera di un certo locale a luci rosse.

 

Gianolio pare suggerire al lettore che il jazz, come la vita, va preso sul serio ma non troppo sul serio. Se sei un jazzista e ti prendi troppo sul serio, devi quanto meno essere Miles Davis o Keith Jarrett, altrimenti sei fritto (se invece sei un critico di jazz e ti prendi troppo sul serio, verrebbe da aggiungere, allora sei nella norma). 

 

Il pensiero unico di John Coltrane, Aldo Gianolio.


Più che dai libri e dalla prosa di Kerouac il jazz che ci racconta Gianolio pare uscito da una canzone di Paolo Conte. Vi si avverte una complicità un po’ sorniona, una deferenza che a tratti sa di provincia ma che rivela anche una profonda cognizione della materia, oltre alla fascinazione esotica di chi osserva da lontano, confidando sul valore deformante della prospettiva. Vale per il jazz ma vale per l’America tutta, sempre restituita da Gianolio con l’occhio stupito di chi vi riconosce una promessa solo in parte mantenuta. È interessante notare come a premessa di ogni capitolo Gianolio senta la necessità di indicare data e luogo di nascita e data e luogo di morte del jazzista che sarà al centro del racconto. Nient’altro. Quasi volesse limitare al massimo il cenno biografico per poi sentirsi libero di far correre la fantasia nel raccontare, stravolgendolo, questo o quel fatto di vita vissuta. Jacques Brel sosteneva che nella vita di un uomo ci sono due date importanti, quella di nascita e quella di morte, e che tutto quanto si combina fra le due non ha molta importanza. Gianolio parte da un presupposto diverso: tutto quanto sta in mezzo a quelle due date è in fondo la sola cosa che ci è dato di affrontare in modo libero e consapevole, lasciando che siano la fantasia e la gioia di vivere a colmare (e forse a riempire di senso) la distanza che separa le due date.

 

Ogni racconto è illustrato da un disegno dell’autore. Proprio come faceva Jacovitti, che disseminava le sue tavole di salami ciechi ma dotati di piedi, Gianolio lascia traccia di sé distribuendo una gran quantità di ossa nelle sue vignette. C’è sempre un osso a terra, antefatto gastronomico o residuo cannibale, difficile a dirsi. Forse solo un indizio che di lì, dentro quei disegni e quelle storie, la vita è passata per davvero. Gianolio, lo si sente, ama il jazz e lo conosce a fondo, ma a differenza del critico di Chicago Bill Olsen sa che le ossa spolpate, nel jazz, sono avanzi più attendibili di qualunque analisi o discettazione musicologica. Il registro fumettistico della sua prosa si sposa a meraviglia con le vicende spesso comiche o soltanto tragicamente comiche che costellano la storia del jazz e di molti suoi protagonisti. Sono belle storie, quelle che racconta Aldo Gianolio, pervase di ironia e di quel senso di sbandamento o soltanto di scompiglio esistenziale che il jazz, nella frenesia del ritmo e nella libertà della prassi esecutiva, ha saputo catturare come nessun’altra musica.

 

Non è che il jazz di oggi sia meno buono di quello di ieri, o che si sia rimasti orfani di bravi musicisti. La differenza, nel bene e nel male, sta probabilmente in un diverso modo di stare al mondo. Il trombonista innamorato di Gianolio ha ricordato a chi scrive il violinista di Marc Chagall: lo strumento come veicolo di un’aspirazione ben più alta delle note, aspirazione che non possiamo che indirizzare al cielo dimenando i piedi, saltellando di qua e di là in equilibrio precario, chi inseguendo delle sottane, chi spolpando ossa di pollo che poi getterà a terra, a beneficio del primo bracchetto di passaggio.

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