Calin Netzer. Il caso Kerenes
Uno dei maggiori luoghi comuni sul cinema è che nei film non esistano tempi morti. Nel caso fosse una verità accertata non si saprebbe cosa fare della parte di noia presente in tante opere cinematografiche, noia intesa come eterna aspettativa di una non ben definita azione che entri in scena movimentando le acque. Non che lo spettatore medio crucciato in poltrona debba vedere le proprie ragioni confutate da una completa assoluzione delle parti più difficili di un racconto, ma ciò non sottintende che abbiano origini casuale. Certamente talvolta non c'è altro che il nulla nel tentativo di riempire le fondamenta di un'idea già scarsa di suo; ma se invece vi si scorge del significato, non si può buttare tutto alle ortiche per colpa di una ricezione frustrata.
Se, per esempio, si volesse scavare nella quotidianità dell'essere umano fino a portarne alla luce tutti i più controversi aspetti, un primo risultato possibile sarebbe la nausea di rivedere in terza persona quella stessa personalità quotidianità che fa dire di tanto in tanto,“mi piace andare al cinema per evadere”. Allora un film come Il caso Kerenes sarebbe giustamente intollerabile: lento, privo non solo di quell'estetica visiva che fa godere della capacità percettiva in sé ma di un approccio narrativo che faccia immaginare il regista intento a tagliare e scegliere quali parti della trama far combaciare.
Ovviamente credere che la realtà basti da sola a farsi racconto coerente è un'illusione, come era illusione mirata per i film del manifesto Dogma, di cui ci è rimasto un ancor vitale e odiatissimo Lars Von Trier, o compiendo salti nel tempo, per il Neorealismo. Dietro c'è sempre, più invisibile ma sempre presente all'appello, una mano tesa a estrapolare dal furioso evolversi delle cose solo quelle realmente necessarie. Se nei film d'azione le parti strappate al reale sono quelle più dinamiche, nell'opera di Calin Peter Netzer sono le più meschine, pigre e indolenti. Ci sono la noia, l'orrore della piccola quotidianità vissuta dall'individuo in modo sonnambulo, salvo farsi insopportabile quando diviene oggetto esterno da guardare con occhi da spettatore e non più da protagonista; una quotidianità perfino imbarazzante allorché il regista si sofferma su mille minuscoli particolari, come lo squillare di un telefonino che interrompe ripetutamente una conversazione, o il meccanico spalmarsi su viso e mani già avvizzite un'inutile crema idratante. Ancora, non bisogna credere che ci si trovi di fronte a una sezione del mondo tagliata e riproposta netta sul grande schermo come un qualsiasi copia incolla da una parte, perché allora il regista si scopre baro e al posto di un racconto fragile nel suo consumarsi nel tempo, in questa classe borghese romena protagonista del film che balla e sorride e urla alle feste esattamente come ci si aspetterebbe da lei, si introduce di soppiatto il racconto epico. Era tutta una scusa per riportare ancora una volta in scena una tragedia vecchia di millenni, e noi ci siamo cascati un'altra volta.
Così potremmo immaginare - d'altronde sarà così che lo leggeremmo nelle sinossi - che Il caso Kerenes parli di Cornelia, madre ossessiva, ostinatamente presente nella vita del figlio amatissimo, soffocato a furia di subire attenzioni ben oltre la norma, in nome di un possesso carnale sopravvissuto ad ogni taglio di cordone metaforico o reale; madre gelosa, come in tutti gli stereotipi da barzelletta, della donna che le ha portato via a suo dire l'oggetto amato, e pertanto capace di mandare come infiltrata la propria colf per farsi raccontare ogni cosa che accada fuori dalla sua vista; infine, madre pronta a corrompere, far uso delle sue conoscenze, mentire pur di salvare sempre lo stesso figlio dalla galera dopo che ha ucciso un ragazzo investendolo a gran velocità. Madre indifferente anche al diritto del bambino mai cresciuto di non voler ricevere alcun aiuto.
Cornelia è Cornelia, ma anche un'Agrippina dei tempi moderni, la madre che il figlio desidera allo stesso tempo possedere e distruggere: un mito che erompe dalle pieghe del quotidiano, peso grave perché non allineato all'altro mito della maternità buona tanto quanto si immagina buono e gentile ogni amore.
Un amore quasi sprecato, incapace di trovare quel buon senso che potrebbe arginarne l'impeto, perché mai evoluto. Incapace di fermarsi perché solo una volta conosciuto sembra l'unico sentimento possibile su cui possa un essere umano proiettare la propria ultima definitiva identità. Ti ho fatta per trovarmi, I made you to find me, scriveva decenni prima Anne Sexton alla figlia in La Doppia Immagine. I genitori mettono al mondo i figli per perderli, i figli crescono per veder perduti i genitori, con la stessa medesima carne che non cessa di sembrar unica anche una volta che è stata tranciata in due; ne rimarrà solo una cicatrice da gemelli siamesi.