Aperture e chiusure / Incontrarsi per la strada
Nel giugno dello scorso anno, insieme a noi tutti, reduci dal primo lockdown, è uscito un libro la cui lettura ci avrebbe fatto bene non solo perché utile nella contingenza, ma anche perché suggestivo per la nostra vita indipendentemente dalle ragioni di questo o quel virus. Camminare può cambiarci la vita è stato scritto da Shane O’Mara, un neuroscienziato, direttore del Trinity College Institut of Neuroscience di Dublino. Vi si racconta perché camminare sia una attività che fa bene al cervello e al corpo e perché possa far bene alle città, all’ambiente, alle nostre relazioni. Un’attività a basso costo ma, chi ama camminare lo sa, di grande e molteplice valore.
In queste ultime settimane la progressiva “riapertura” delle nostre città sembra favorire la rimozione della fatica fatta in questo anno e l’attenzione verso le conseguenze economiche, psichiche e relazionali che ha avuto su di noi non solo la pandemia, ma soprattutto la sua gestione. Piano piano, andando avanti, sembra si voglia tornare alla precedente situazione di “anormalità”, segnata da stili di vita (e professionali) che di solito ignorano le ovvietà scientifiche che, applicate, coniugherebbero al meglio benessere, apprendimento e lavoro. In altre parole, senza opporre società ed economia.
Nei giorni in cui si discuteva ancora una volta della chiusura delle scuole, sulla prima pagina dì un quotidiano campeggiava la foto di un’insegnante che per protesta faceva lezione fuori dai cancelli del Liceo. Avrebbe potuto essere un piacere immaginare una scuola aperta a improvvise folate di vento che fanno volare via qualche foglio, ma la professoressa e gli studenti non sembravano contemplare che proprio lì, fuori dai cancelli della scuola, era a portata di mano un’ulteriore possibilità: quella di una didattica e di una formazione in movimento, fisicamente dinamica. L’opposizione tra formazione a distanza e in presenza scaturisce naturale perché siamo intellettualmente posseduti da uno schema cartesiano che generalizziamo indiscriminatamente: corpo da una parte, mente dall’altra; pensiero contro azione. In realtà non c’è nessuna opposizione tra stare seduti a un banco o in un ufficio e stare di fronte a un video per ore. Si tratta di fisicità diverse, ma unite da una stessa logica sottrattiva: l’assenza di movimento. In entrambi i casi, infatti, il corpo è fermo.
Nel primo caso però, va molto meglio. Per raggiungere un banco a scuola ti muovi, incontri amici e amori, ridi, scherzi, ascolti musica con le cuffie, ripassi la lezione in tram. Poi, anche se seduto in aula, hai sempre la possibilità di guardare, ammiccare, dar di gomito, andare in bagno, piegarti in due dalle risate, fare ricreazione, assumere una mimica adeguata con l’insegnante, reagire e utilizzare tutti i sensi; anche l’olfatto, benché non ci si faccia mai attenzione se non in caso di cattivi odori o innamoramenti, sempre implicitamente profumati. Stare in casa invece, come ci è accaduto in questo anno, è viaggiare con una marcia sola, con contatti limitati a eventuali familiari generalmente sopportabili solo in dosi adeguate e, in alcuni casi, nemmeno quelle. Davanti a uno schermo che appiattisce tutto i tuoi sensi annusano, guardano, toccano, ascoltano solo il loro spazio ridotto, come uccellini in una gabbia. Si può notare qui, ormai per esperienza di massa, che il riduzionismo nella vita non è gran cosa e che complessità significa molteplicità di sensi e di logiche. In questa condizione imposta, corpo e cervello hanno sofferto perché offesi, attaccati, ridotti. Chiusi in una nicchia, sottoposti a una progressiva deprivazione sensoriale, la malinconia prima e la tristezza poi hanno cominciato a saturare lo spazio di chi era confinato.
La malinconia e la tristezza sono bei sentimenti. Ci sono musiche romantiche che ci catturano, paesaggi che torniamo a frequentare dopo molto tempo perché evocano storie a cui siamo affezionati, affetti che ricordiamo proprio per quella malinconia buona che suscitano. Ma come tutto, oltre una certa soglia, ciò che è buono diventa tossico e in questo caso si trasforma in una svogliatezza e un’apatia che sono molto più di ciò che appare. Molto di più, perché alla lunga, anche se avresti bisogno di muoverti, ci rinunci. Un’amica che vive in Sardegna mi raccontava che durante il periodo in cui quella regione è diventata per prima zona bianca, nonostante l’abolizione del “coprifuoco” alle otto di sera per le strade non c’era nessuno. Cosa ci pervade al punto da indurci a stare chiusi anche quando potremmo non farlo? Bastava parlare tra di noi fuori dalle routine professionali che ci vincolano a celare i nostri reali sentimenti, per sentire racconti di stanchezza, mancanza di desiderio e di energia vitale.
Negli ultimi mesi non c’è stato giornale o rivista che non abbia parlato di un aumento del disagio psichico testimoniato soprattutto da sintomi depressivi e disturbi alimentari, a volte con dati poco credibili, esagerati e spesso senza fonti dichiarate. Ma basta ascoltarsi e ascoltare per capire che stare chiusi in casa, isolati e deprivati non fa bene e in qualche caso può fare molto male. Il disagio che si è creato riguarda tutti, anche gli adulti ed è ciò che accade a chi, una volta confinato e limitato nei movimenti e nelle relazioni ha la sensazione, a volte purtroppo veritiera, di non avere un ruolo e non contare niente. Anche noi “grandi”, quindi, stiamo male, solo che non possiamo dirlo se non sommessamente, come fosse una cosa colpevole.
L’alternativa presenza/dad, in ambito educativo e professionale non è buona anche per un'altra ragione. Infatti, uno spettro si aggira minaccioso tra chi abita la scuola: forse con un tablet a disposizione potrebbe essere abolita!
In effetti, se dad dura deve essere, allora si potrebbe sostituire un insegnante con un tutorial trovato su you tube. Nelle pieghe di questo pensiero comincia a prendere forma la vertigine della mancanza di senso di un luogo che invece lo ha eccome, a meno che non lo si concepisca come una macchina tramite cui collezionare nozioni utili per entrare nel mondo aziendale. Però, è vero che ciò che vedo in video in questo momento, un insegnante che parla, lo posso trovare su you tube e usare in orari più comodi e adeguati al mio metabolismo, cosa che la scuola non considera affatto come argomento interessante per l’apprendimento e il benessere dei suoi allievi.
Presenza e on line nella formazione, così come lavoro a casa e in ufficio, sono interessanti se viste come due opzioni tra le molte disponibili e se non scaturissero da quel dualismo cartesiano che sta portando la nostra specie all’estinzione. Stare solo seduti a un banco o davanti a un pc non fa bene al corpo, al cervello, all’apprendimento. Questa forma prevalente che abbiamo dato all’apprendimento formale accetta il presupposto che per imparare si debbano deprivare i sensi che sono la nostra porta d’entrata nel mondo. I più critici dicono che tra l’altro così non si impara, ma non è vero: stando seduti per ore in un aula o davanti a un computer si può imparare, oltre alla singola nozione facilmente rilevabile da qualsiasi test, che lo studio è una noia; che prassi e teoria sono separate come il corpo e la mente; che il sapere si riceve come una merce e non si scopre o produce; che si deve soffrire; che non si può cambiare il presente perché da più di centocinquanta anni anche solo modificare la disposizione dei banchi è un tabù; che l’obbedienza è una virtù assoluta.
Tutta questa coazione a ripetere nelle forme organizzative si nutre anche dell’ignoranza di come funziona il cervello e il libro di O’Mara prova a spiegarlo con semplicità, tanto che potremmo immaginare questo argomento come uno dei contenuti da promuovere nelle nostre scuole e nei nostri ambienti di lavoro. Non sapere quasi nulla di come funziona il cervello significa, infatti, non sapere come prendiamo le nostre decisioni. Un tema cruciale per la crisi che stiamo vivendo.
Abbiamo aree specializzate per la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto, il gusto, ma queste zone sono connesse tra loro. Descriviamo i due emisferi, sinistro e destro, come in opposizione. Uno logico, matematico, razionale; l’altro creativo, artistico, non razionale. Ma i due emisferi sono connessi dal corpo calloso e tutto funziona contemporaneamente. Il cervello è uno e come tale lavora. Nelle nostre descrizioni lo abbiamo gerarchizzato confondendo la mappa con il territorio: il sinistro è il capo, razionale, logico, mentre il destro è subordinato o da subordinare perché irrazionale. Confondiamo la nostra descrizione della realtà con la realtà, ancora una volta applicando un Cartesio banalizzato. Invece abbiamo un cervello jazz con gruppi di neuroni che suonano come una grande big band: alcune sezioni si alzano all’improvviso insieme ad altre, mentre altre ancora se ne stanno sedute, poi si alzano anche loro mentre le prime si asciugano il sudore, scherzano con altri musicisti con leggerezza, si insultano per una nota stonata. Abbiamo un cervello che funziona 24 ore su 24 finché morte non ci separi, con vuoti, pieni e pause che sono necessarie per le attività di altri gruppi di neuroni, perché se tutti loro si attivassero contemporaneamente collasseremmo. Il cervello è dentro un corpo.
Preso da solo, messo sul tavolo di cucina sarebbe una piccola massa di cellule grigie di scarso valore economico e buone al più per una frittura. Esiste solo dentro un corpo che è movimento, tatto, odori, colori, sapori. In una parola: relazioni. Stare seduti a un banco, chiusi in casa davanti a un video per ore e ore come condizione unica diventa un’offesa al cervello e al nostro corpo. Una forma di deprivazione agita senza che si capisca più perché, in nome di quale formazione e apprendimento, di quale sviluppo della persona, di quale idea di società.
La deprivazione nuoce anche a piccole dosi e la psicologia e le neuroscienze lo spiegano bene e non da ora guardando i casi estremi. Negli orfanotrofi di un tempo, ma ancora oggi in tanti tristi luoghi del mondo, bambini lasciati a sé stessi, senza un seno che li avvolga di sapore, profumo e calore, senza la musica delle parole; senza nessuno che racconti storie, li accarezzi, li abbracci, li dondoli al ritmo musicale del proprio cuore che diventa ritmo condiviso, subiscono danni mentali talvolta irreversibili proprio perché i circuiti neuronali non si creano e rimangono pochi e poveri. La deprivazione la conoscono le polizie e i torturatori di tutto il mondo. Metti un “nemico” da solo in una stanza con la luce artificiale 24 ore su 24; senza qualcuno che gli parli, senza alleati ai quali sostenersi, senza che si possa leggere, cioè immaginare.
In poche ore si perde il senso del tempo e poi arriveranno le prime allucinazioni, i primi deliri. Insisti per molti giorni e quelle ferite diventeranno tratti psicotici. Se vuoi fare del male a un animale depriva i suoi sensi, bloccalo. Se è una persona impediscigli parola e movimento o ignoralo. Prima di arrivare all’estremo danno, con tutte le gradazioni possibili, lo avrai affaticato rendendolo sempre meno capace di capire cosa gli accade; avrai reso i suoi pensieri più poveri perché catturati dal suo male. Lo avrai reso, come minimo, triste e depresso e lui finirà per sentirsi anche peccatore e colpevole della sua condizione perché non all’altezza. Ostracismo e mobbing sono lì, in alcuni luoghi di lavoro, a ricordare quanto sia possibile fare del male a una persona deprivandola, ignorandola.
Tutto ciò che favorisce la deprivazione è un attacco alla salute delle persone. Per questo durante il lock down chi è andato a lavorare ha rischiato di più il contagio, ma psicologicamente ha sofferto molto meno. Per questo anziani e giovani, senza ruolo e ignorati, hanno sofferto di più nella reclusione e il loro disagio è aumentato costantemente in questi mesi di apri e chiudi psico insostenibili.
Torno con la mente davanti ai cancelli della scuola dove la professoressa e i suoi allievi protestano. Guardo dentro e vedo classi con i banchi e la cattedra disposti esattamente come centocinquanta anni fa. Guardo gli studenti e vedo, se va bene, una stanza in casa che da comodo rifugio si può trasformare in arresti domiciliari. Mi guardo intorno: strade, piazze, alberi, giardini, parchi. Immagino, allora, che gli spazi chiusi possano diventare aperti e luoghi di sosta e che le tecnologie possano incontrarsi per strada. Chi lo ha detto che Teams debba essere usato solo seduti davanti al computer?
Adesso possiamo uscire dalla trappola e ampliare la gamma di possibilità portando, ad esempio, le tecnologie in presenza. Cominciamo a immaginarlo anche per noi adulti intrappolati in casa o nella sede di lavoro, seduti davanti a un video con tempi dilatati, dimentichi che l’immaginazione è il più potente antidoto alla depressione.
Dal periodo delle zone arancioni, quando posso, metto in fila le telefonate professionali ed esco. Magari mezzora, magari un’ora. Mi è capitato di passare un intero pomeriggio a lavorare camminando. O’Mara ha ragione: camminare fa bene non solo per abbattere il colesterolo. Siamo più concentrati e in salute camminando piuttosto che statici per ore davanti a uno schermo interrompendoci ogni tanto con l’illusione di rivitalizzare il corpo con l’ennesimo caffè. Quando sei stanco ti fermi da qualche parte, all’aria, al vento, alla luce. Cammini e sei presente alla telefonata, ma anche agli spazi che attraversi. Annoti tacitamente luoghi dove tornare per un acquisto, una sosta. Scopri un angolo del quartiere in cui vivi che non conoscevi.
Ora abbiamo più opzioni: la casa, quando si può, le aule, gli uffici quando utili. Ma potremmo osare di più: abbiamo le tecnologie, che permettono di vedersi e ascoltarsi da lontano e abbiamo noi stessi, che per vivere abbiamo bisogno di muoverci, stare insieme, usare il cervello dentro un corpo e non come se fosse pronto per la frittura.
In molti abbiamo ripetuto che le scuole dovevano rimanere aperte, ma senza mai uscire dall’idea di ritornare a un prima che già non andava bene. Proviamo a immaginare, allora, che una volta aperta la scuola il portone non si richiuda; che si possa entrare e uscire ben oltre l’orario canonico. La scuola dovrebbe essere di tutti e aperta sempre. In quasi tutto il nostro Paese invece, per ore, giorni e mesi gli edifici scolastici rimangono spazi vuoti e sterili. Uno spreco di suolo e intelligenza. Ma nelle città c’è anche molto altro da vivere, conoscere e abitare. Ci sono giardini, parchi, piazze. Percorsi urbani che potremmo scoprire, seguire, tracciare, inventare con tappe diverse da costruire insieme.
Vale anche per la formazione degli adulti, quella aziendale soprattutto. Dovremmo ampliare il setting, le occasioni, i luoghi dove svolgere attività ordinarie facendole diventare inconsuete. Immagino una bella lezione di storia camminando. Matematica, invece, in un giardino. Persino davanti ai cancelli della scuola, non per protestare, ma per stare meglio. Perché non ci abbiamo pensato prima, quando arrivava ogni anno la primavera? Do subito la risposta alla prevedibile domanda: ci si distrae a stare fermi e chiusi, non all’aria aperta!
Potremmo, quando possibile, anche solo ogni tanto, far lezione camminando insieme alle tecnologie che abbiamo costretto come noi in spazi chiusi, accorciando la distanza, ma anche mantenendola quanto basta a non contagiarsi senza per forza ubbidire al diktat autoritario e insalubre di isolarsi e deprivarsi. Ma anche indipendentemente da questa o future pandemie si aprono infinite possibilità. Con diverse applicazioni possiamo dialogare, intervenire stando a distanza di sicurezza se ci sarà bisogno, ma che permetta anche di ascoltarci senza necessità di impianti complicati e costosi in condizioni normali. In questo modo potremmo stare a distanza, ma in presenza, ad esempio in un parco. Se ci muoviamo il cervello funzionerà meglio, saremo più concentrati e meno stanchi. Camminare fa bene al corpo, al pensiero, all’ambiente. Forse in futuro, nel caso ci fosse ancora bisogno, si potrebbero fare anche gli aperitivi in questo modo, evitando tutta la gamma di ordinanze punitive che hanno superato talvolta il senso del ridicolo. Potremmo così autogovernare i nostri vitali, fisici, sani, imprescindibili “assembramenti” in sicurezza.
Camminando durante la lezione troveremo qualche “distrazione”: un monumento, il valore di una strada, un certo albero, un animale, una persona attraente, le nostre abitazioni, qualche strano personaggio, i senza tetto che non vediamo mai. Tutti modi per conoscere la città in cui si vive. Camminare significa agire, mettersi in connessione, conoscere. Amplia le connessioni neuronali, è un antidepressivo naturale, ossigena i nostri pensieri.
Potremmo adottare un giardino, un parco, una piazza e chiedere a un negoziante della zona di custodire una lavagna a fogli mobili che a turno i ragazzi e le ragazze potrebbero prendere e riportare. Potremmo portarci da casa una stuoia, una seggiolina da campeggio con la tracolla, un cuscino gonfiabile. Anzi, domani si va a comprare cuscini per tutta la classe! Un tablet funziona bene anche per prendere appunti. Sarebbe bello vedere un insegnante con le sue cuffie parlare ai ragazzi che finalmente non devono stare composti al banco senza per questo mancare di rispetto.
Tutto in sicurezza, portando per strada le tecnologie che usiamo di solito per collegarci nel chiuso delle nostre “caverne”. Ma fuor di pandemia, anche per darci nuove possibilità, più fluide e flessibili, di concepire l’apprendimento. E poi chissà cosa saremmo capaci di inventare tutti insieme che adesso nemmeno lontanamente immaginiamo.
Sogno che gli umarell invece di andare a guardare i cantieri si siedano accanto all’insegnante per ascoltare la lezione di storia con i loro commenti, sorrisi, mormorii accigliati: “mah… ai miei tempi…”. Però il giorno dopo ritornerebbero. Chissà che non nasca un dialogo, una storia, una testimonianza. Che non siano loro ad adottare una classe e a offrirsi di portare la lavagna a fogli mobili, per sentirsi utili e stare in compagnia. Avremmo un rapporto diverso tra giovani e meno giovani e un po' di fantasia in più nella nostra didattica. Un’apertura verso l’improvvisazione che non è spontaneismo, come insegna il teatro, ma una cosa seria, rigorosa, con le sue regole. Avremmo adulti, ragazzi e ragazze aperti alla folata di vento. Persone che userebbero casa, ufficio e aule quando necessario, utile o riposante, ma anche il mondo, che continua ad esistere oltre i confini della gestione del Covid. Mondo che ci sarà anche dopo e che è sempre esistito, sfaccettato e a portata di mano.
I compiti a casa si potrebbero fare sul lungomare, sul bordo di un fiume, sul prato di un giardino o ai tavoli di legno di qualche parco chiedendo al Comune di metterne di nuovi anche nelle piazze. A due a due, a quattro a quattro, a distanza anche di tre metri, ma fuori, se necessario con due cuffie e una app a discutere di Dante o di quel che ci pare. Magari anche di come funziona un cervello e perché camminare e adottare piazze sia una cosa salutare anche solo da immaginare. Per capire che alcuni modi rigidi di stare insieme non favoriscono il benessere e l’apprendimento e che degli spazi ci si può appropriare e riappropriare perché luoghi e beni pubblici. Rendendoli anche più belli grazie alla nostra presenza intelligente.
Per discutere se sia giusto o meno aver paura; quando è un salva vita e quando invece diventa tossica o strumento anche inconsapevole “per ghermirli ed al buio incatenarli”, come nelle intenzioni del “Male” nel Signore degli Anelli. Se sia giusto o meno che si chiuda un Paese per debellare una malattia senza occuparsi però della salute delle persone e della complessità della loro vita. Se si possano immaginare luoghi aperti in tutti i sensi, fisici e psichici. Da luoghi comuni a luoghi in comune, dove essere vivi sempre.