Su l’Aquila a quasi dieci anni dal terremoto del 2009 / Balla sui monti, balla coi matti
A quasi dieci anni dal terremoto, L’Aquila non è ancora la città che ci si aspettava sarebbe diventata all’indomani di quell’infausta data: 6 aprile 2009. Non ci sono smart city all’orizzonte (per fortuna!), né tantomeno si è saputo dare continuazione a un passato universitario – perché ormai si tratta di un vero e proprio passato, forse persino di un passato ‘remoto’ – che sembrava, dopotutto, rendere la nostra città un posto vivo, pieno di energie, in fondo accogliente, per quanto agonizzante sotto tanti altri punti di vista. Né, ancora, l’exploit dei movimenti all’indomani del sisma ha saputo dare il via a un cambiamento decisivo nella composizione sociale, politica e culturale di una comunità che preferisce tornare indietro, prima ancora che rimanere immota. Bisogna dirselo, senza scuse né infingimenti. Il triste motto cittadino, Immota manet, se letto metaforicamente come un invito a dismettere ogni aspettativa di reale cambiamento, risuona spesso come uno scherzo di cattivo gusto, con un’ironia che ci risparmieremmo, altrimenti, ben volentieri. La terra, all’Aquila, trema spesso, eccome, ma trema innanzitutto all’idea di poter rinunciare alle sue dinamiche paludate, al conforto e alle sicurezze di una società che ritrova sempre in pochi, piccoli gruppi di potere tutta la sua stantia e immobile identità. Quando la terra si muove, si sarebbe tentati di dire, gli aquilani sanno fare, per lo più, soltanto una cosa: si mettono a rimpiangere quel che è stato. E si dovrebbe allora dire loro: se mai c’è stato! “Com’era, dov’era!”, ha urlato qualcuno, nel 2009. Rispondergli allora, forse, non era nemmeno necessario. Non c’era da affaticarsi, per farlo.
Un’altra identità, un’identità altra, L’Aquila ce l’aveva, ce l’ha, in effetti, ma era l’identità spuria, ibrida, originariamente decentrata, della città di fondazione, nata dalla riunione delle genti dei paesi del contado. Una città che esiste coordinando altre comunità, perché nata da un desiderio di coordinamento. Il suo centro era un puzzle e anzi un patch-work, fatto di dialetti anche tra loro diversi. Le sue mitiche 99 piazze, 99 chiese e 99 fontane, sono il segno di un’identità che non arriva mai a fare cifra tonda, a chiudere il cerchio, e che preferisce rimanere piuttosto sul ciglio dell’identità, nel bene e, certo, pure nel male. Se una certa inconcludenza caratterizza a volte i nostri concittadini, gli abitanti migliori, prima del terremoto, erano sicuramente i pazzerelli che giravano inesausti per le sue strade, periferiche o centrali, non importa. I pazzerelli che, quando ero bambino, ancora si incontravano nel complesso dell’ex nosocomio di Collemaggio. Rizziero, amico dei bambini e dalla testa indistruttibile. Libero, che passeggiava da un lato all’altro della città e che rifiutava educatamente passaggi in automobile adducendo di ‘andar di fretta’. Loro e tanti altri, più o meno spostati, più o meno bislacchi. Questa è L’Aquila ‘del passato’ che ci sembra si possa salvare, ancora oggi. L’Aquila dei suoi ultimi, esemplari di un’umanità stranita epperò libera, appunto.
La stessa Aquila dei primi che, già a fine aprile del 2009, decise di dare vita a un’esperienza senza precedenti, intercettando forse qualcosa che, pur circolando nell’aria da tempo, non aveva mai trovato la forza di uscire allo scoperto, di accendere e entusiasmare i cuori. Quell’Aquila che ha scelto, dopo qualche mese di tendopoli autogestita, di cercare un avamposto – delle CaseMatte – proprio là dove una volta si rinchiudevano, si contenevano e si brutalizzavano i cosiddetti matti (come ha spesso suggerito uno dei suoi attivisti di più lunga data, Alessandro Tettamanti). Il comitato di coordinamento (così nominato, al momento della sua nascita) 3e32 ha avuto un solo merito: continuare, con sintonia rinnovata rispetto allo spirito delle generazioni più recenti, un’inclinazione per la stranezza, per la devianza e quasi per l’errore, che L’Aquila non ha mai smesso di esibire, per quanto poi, per il resto, fosse città molto borghese, se non addirittura clerico-fascista. Negli anni ‘90 dello scorso secolo esisteva un luogo, quasi una tana, in cui i giovani trovano rifugio dalla vita adulta che incombeva, dal futuro, su di loro. Era il cosiddetto ‘Vicolo’, una stradina che terminava con una larga scalinata in grado di accogliere, certi pomeriggi, decine e decine di ragazzi e ragazze e di cui la unica documentazione, a parte nella memoria dei suoi frequentatori oggi non più giovani, è conservata in un libretto fotografico di Carla Mastropietro. Ecco, qualcuno ha suggerito che quei ragazzi e quelle ragazze che traccheggiavano e perdevano tempo – quanto è importante ricavarsi il tempo di ‘perdere tempo’! –, tra una canna e una discussione sulla musica, tra un innamoramento e una scritta sul muro, in un luogo conosciuto dalla generazioni precedenti come, senza mezzi termini, ‘il vicolo del piscio’, ebbene quei ragazzi e quelle ragazze sono stati gli stessi che, nel 2009, hanno deciso di prendere parola e di mettersi in moto contro la macchina della Protezione Civile e della fosca militarizzazione che avvolgeva in quel momento la nostra città. È stato l’inizio di una stagione straordinaria – non bisogna avere reticenze nel dichiararlo. Dalle molte manifestazioni, aquilane e romane, dalle contestazioni durante l’improvvido G8 del 2009 (l’indimenticabile scritta Yes we Camp che campeggiava enorme sulle montagne attorno alla città), agli sfondamenti della Zona Rossa praticate dal cosiddetto “popolo della carriole”, alle infinite assemblee tenute con grandissima partecipazione in Piazza Duomo: L’Aquila è sembrata per un momento quello che non è mai stata nella sua storia moderna: una comunità modello per le mobilitazioni e i movimenti di tutta Italia. Siamo ancora nella scia di quella fase, che ci ha restituito non certo alla Storia, con la maiuscola a capolettera, ma alle nostre vite. Ce ne ha restituito il potere d’iniziativa.
Che il nome del neonato posto occupato fosse e sia poi, quindi, un nome solo plurale (un plurale tantum) – CaseMatte – è un dettaglio tutt’altro che di poco conto, un dettaglio ancora più fedele alla sua vocazione iniziale e all’esigenza di ripresa, più o meno consapevole, di una doppia, paradossale identità: l’identità dei giovani in lotta contro la maturità e dei folli al continuo inseguimento della libertà. Se qualcosa contraddistingue insieme la giovinezza e la follia e le rende invise a chi crede nell’unità, soltanto nell’unità, è in fondo la loro incapacità di offrirsi a un riconoscimento collettivo che, invero, suona prima di tutto come l’accettazione di un giogo e di una sottomissione all’ordine costituito. Il pazzo gioca, per quanto pagando il prezzo altissimo della sua sofferenza e dell’esclusione, a non avere mai un posto fisso, a spostarsi di continuo, a rendersi irriconoscibile all’autorità, quale che essa sia. “Delirare” – alla lettera, “uscire dal solco” – significa soltanto questo. Spostarsi. Essere spostati, anzi, visto che si tratta di un gioco al quale non si può dire mai di ‘no’, ma che è anche la porta d’entrata – l’unica porta, per quanto strettissima – attraverso la quale si fanno esperienze di autentiche libertà, anche queste sempre al plurale, perché la libertà, se è tale, non è mai soltanto una, non è mai una soltanto. Se unità c’è, è perché non è ancora qui e insiste solamente come un’unità che manca, un’unità di meno. Più precisamente ancora, come un’unità in incavo, un’unità vuota. Quel vuoto che le esperienze dei movimenti e di autogestione sono andate a occupare, dal 2009 a oggi, senza volerlo riempire una volta per tutte, senza volerci mettere su una firma che fosse anche motivo di nuove esclusioni.
Lo stesso vale, in fondo, per i giovani, che vivono, innanzitutto attraverso la musica e con le folli danze notturne, un’ansia di liberazione che solamente dal Novecento ha cominciato a emergere prepotentemente nella Storia, ma che, come un fiume carsico, ha lavorato incessantamente tutte le epoche e per ovvi motivi. Non foss’altro, infatti, poiché tutto l’immane lavoro di accumulazione e di irregimentazione della vita compiuto puntualmente da ogni generazione della Storia è stato comunque fatto in vista del futuro, a beneficio, volenti o nolenti, di coloro che verranno dopo e che dovranno ogni volta daccapo tornare indietro verso quanto ricevuto in dote, per insegnare al passato a vivere e a rivivere ancora. I giovani sono a tal punto immodesti che credono sempre che il passato sia una loro stessa creazione. E se non hanno, in senso stretto, ragione, hanno comunque dalla loro parte le uniche ragioni che, alla fin fine, contano davvero: le ragioni, sempre un po’ anarchiche, della vita.
I giovanissimi oggi tornano perciò a darci una lezione, come siamo stati noi a darla agli aquilani ‘più grandi’ – lo affermiamo senza pudore, con l’immodestia della gioventù, appunto. Quei giovanissimi che hanno avuto il coraggio di frequentare il disastrato centro storico quando non c’erano, letteralmente, che rovine da abitare. Che hanno praticato l’effrazione sistematica e segreta della Zona Rossa, inaugurando una forma di vita che alla clandestinità associa la volontà di riscoprire il passato, ma senza le mediazioni delle generazioni precedenti, con una sorta di grado zero di aspettative. Che si sono ritrovati dove c’erano, immancabili, gli ultimi a vivere, anche loro più o meno clandestini: piccole marginalità, micro-deliquenza, migranti, che provavano a trasformare le rovine in case, sia pure d’emergenza: in case senza pretese, case senza attese. Pure loro. Questi giovani hanno avuto insomma in sorte di dovere abitare l’inabitabile e, sebbene non sappiamo ancora bene cosa abbiano da insegnarci, non solo siamo sicuri che qualcosa hanno effettivamente da insegnare, ma che, all’ora giusta, sapranno prendere la situazione in mano e dare una nuova veste, magari non solo all’Aquila, che sembra al solito non voler sapere nulla di loro, come sempre ha fatto, ma ai luoghi e agli spazi che si troveranno a vivere, portando con sé un’eredità senza eguali, proprio perché comune a tutte le gioventù delle periferie disastrate del mondo. Si dovrebbe riflettere, e neanche poco, su questa attitudine cronica della nostra comunità a divorare i suoi figli migliori, a condannarli nel ruolo di personaggi immobili di una drammaturgia prevedibile, spesso tremendamente triste, o a dover invece cercare altrove una propria collocazione, per non perdere ciò che hanno avuto il coraggio di diventare, malgrado tutto, malgrado l’ostilità di un’atmosfera spesso abituata soltanto a ripetere e a ripetere.
Casematte è stato un luogo di riflessione e di organizzazione politica; di produzione di saperi alternativi e di contro-informazione. È stato il quartier generale di una rivolta che, in un primo momento, ha saputo sprigionare energie che nemmeno noi sospettavamo minimamente avere. E di molto altro. Ma è stato ed è soprattutto la casa di una festa permanente senza la quale, lo dico a voce alta, la rivoluzione non varrebbe la pena di essere vissuta. Vi sono sbocciati amori e vi sono nati progetti musicali che hanno avuto come elemento di coltura i concerti, lo svago e persino lo svacco continuo; i momenti di ritrovo legati al cibo, che in Abruzzo significa innanzitutto ‘carne arrosto’. Tutto è stato possibile in forza di una disposizione all’eterno dionisiaco nel quale gioventù e follia si incontrano ogni volta sul bordo più labile e frastagliato della Storia – e anzi nelle scuciture della Storia, là dove la linearità degli eventi e della loro narrazione conosce un irreversibile punto di crisi. L’Asilo occupato, poi, ha svolto una funzione ancora più decisiva, in tal senso. Le migliaia di persone che hanno attraversato quello spazio erano proprio, spesso, gli stessi che trascorrevano i loro pomeriggi in Zona Rossa. L’Aquila è stato un esperimento sociale spontaneo di straordinaria portata, di cui fatichiamo e faticheremo ancora a comprendere le conseguenze. Sta a noi tutti, giovani e meno, non fare che questo lascito di vitalità segreta e pulsante rimanga disatteso. Se la riscossa è possibile, bisogna partire proprio da qui. Siamo stati iniziati al futuro; è il compito dei tempi a venire non fare che torni ad essere, di nuovo, solamente un passato.
Dopo i terremoti del centro Italia, nel 2016, e con le nuove terrorizzanti scosse aquilane dell’inizio del 2017, L’Aquila è stata travolta infatti da una nuova ondata di trista normalità. Più precisamente, è tornato a soffiare in città il vento di una grigia normalizzazione che, per un po’ di tempo, ci ha fatto pensare di dover rivivere per l’ennesima volta il copione ormai usurato che tanto piaceva all’Aquila de ‘na ote (dei tempi passati). Sembrava, a parlare sinceramente, di vivere un incubo. La sera, per le strade pieni di locali, si incontravano sempre gli stessi volti – quando si incontrava qualcuno. C’era poco da fare ma soprattutto poco da dirsi. I ricordi della rivolta erano lontani e parevano sbiadire nel quadretto autoconsolatorio delle memorie private. La tentazione di andarsene, di fuggire – che tanti aquilani, pure giustamente, sentono e seguono – sembrava avere la meglio su ogni desiderio di continuare a cercare il cambiamento, di incidere nel mondo. Se questa fase non è ancora del tutto conclusa, è pur vero però che molti segni sembrano andare in direzione ostinatamente e deliberatamente opposta. Il fuoco sotto la cenere non è ancora spento.
Più volte mi è capitato di pensare, anche riflettendo sul mio tormentoso rapporto con questa città, che L’Aquila è un luogo vischioso, in cui, se ci nasci, ma anche se ci arrivi e per caso trovi, sia pure solo per poco tempo, di che stare bene, cominci a non poterne fare più a meno. Sviluppi quasi una vera e propria tossicodipendenza nei suoi confronti, con tanto di tentativi di smettere e puntuali ricadute. Persino i non pochi cittadini d’elezione – i naturalizzati che, attirati anche dalle sirene della rivolta dei primi due anni, hanno scelto di venire a viverci stabilmente – ebbene, anche loro lo testimoniano e lo riconoscono. All’Aquila, ci si invischia, vi si rimane bloccati. Si rimane incantati da una malia che nessuno sa dire e nessuno sa nominare, ma che inequivocabilmente risuonava anche tra le macerie, nei vicoli sventrati, come tra i pini di Collemaggio e nelle periferie sgarrupate o, a seconda dei luoghi e dei tempi, accuratamente ristrutturate. Quella stessa malia che si fatica certo a vedere negli occhi dei migranti, i quali sono però gli unici abitanti reali, a piedi o in bicicletta, dell’enorme periferia che è ormai la nostra intera città e che, con assurda coerenza, non si vedono certo in massa in quel centro a sua volta periferico che è diventato il centro storico aquilano, simile più a un enorme centro commerciale, fatto solo di negozi e bar, che a un vero e proprio centro storico. Disabitato se non dagli zombie del consumo. Questa vischiosità, probabilmente, dipende da almeno due fattori. Il primo è senz’altro la riconoscibilità dei ruoli sociali garantita da una comunità né grande, né piccola – quella medietà che fa dire ai suoi abitanti ‘Non te conosco, ma te saccio’ (tradotto: “non ti conosco, ma ho capito che genere di persona sei”). Tale riconoscibilità permanente è confortevole, se ti va bene, e assolutamente intollerabile, se ti va male nell’assegnazione del ruolo. Ma, in fin dei conti, è pur sempre meno spaesante dell’impresa di doversi costruire passo passo una posizione in una grande città, per restare poi in un’autentica solitudine. Il secondo riguarda invece la relatività facilità a trovare una via in quegli spazi interstiziali dove appunto hanno vissuto e vivono gli aquilani matti, in senso stretto o in senso lato. Spazi, anche, come quello del villaggio auto-costruito di Pescomaggiore – l’eco-villaggio EVA – esperimento anch’esso inedito sul nostro territorio e che di recente, per rimediare a insensate espulsioni di alcuni migranti dal circuito dell’accoglienza, si è trovato ad ospitare per qualche mese alcuni ragazzi africani.
C’è spazio per la follia, all’Aquila, come c’è spazio per le diversità, in genere. È un fatto. C’è uno spazio residuale, naturalmente, ma c’è, uno spazio. È questo spazio, costretto, nascosto, ma pur sempre presente, a rendere forse pensabile che, prima o poi, il vento della rivolta – il vento, questa volta, della riscossa – possa tornare a soffiare su uno skyline fatto di innumerevoli gru, di operai malpagati, ma, appunto, anche di giovani esploratori improvvisati che, tra le macerie del centro, avevano un loro piccolo regno di assoluta libertà. Un rapper ventenne, Don Ciccio, ha scritto forse il verso più rappresentativo di quella stagione anch’essa ormai tramontata, ma che potrebbe essere il punto d’inizio di una riscossa a venire. Ha scritto, quasi fosse uno slogan: “Abbiamo aperto più palazzi noi che i vigili del fuoco”. Quei vigili del fuoco che, pure tanto amati nell’immediato dopo-sisma, restano pur sempre i rappresentanti di uno Stato che non ha mai saputo e non può vedere al di là delle sue norme, dove l’anormalità prolifera e si libera. L’anormalità, invece, è la nostra Storia, la sola che vale la pena salvare. Speriamo, con coraggio, che sia anche il nostro futuro, che ci aspetti, al di là della cortina di normalità scesa in città negli ultimi anni, come una seconda catastrofe. Un’anormalità pronta a salvarci ancora una volta dalla normalità. Perché solo l’anormale salva, perché, «dopo un terremoto, scopri che non c’è il normale» (A Tettamanti). I territori che circondano la città, con il loro tesoro di ricchezze naturalistiche e culturali, sono senz’altro uno degli orizzonti verso cui rivolgere lo sguardo. Non tanto, o non solo, per cercare di rimediare allo stato di abbandono nel quale versano, ma per ricordarsi che i nostri monti, tra i quali sono adagiati, ballano spesso, pure troppo, ma se sappiamo ballare con loro e a volte contro di loro, ci regaleranno sempre di che costruire nuove forme di vita.
Come la stessa fondazione dell’Aquila, peraltro, dimostra. La crisi, persino la catastrofe, accadono invano solo se non riusciamo a farne noi qualcosa di buono. Soltanto se vengono lasciate alla loro natura di mere disgrazie. Oggi più che mai, questioni come la messa in sicurezza dei territori, le battaglie contro le grandi opere (vedi alla voce “No Snam”) che depauperano le nostre Terre, per interessi lontani ed estranei a chi effettivamente le vive, tali prospettive sono all’ordine del giorno e non possiamo permetterci di trascurarle. Se vogliamo però che queste lotte siano anche l’occasione per ritrovare la nostra ispirazione di ‘spostati’ – di giovani e di folli – si tratta di recuperare l’impulso che spinse un tempo uno sparuto gruppo di persone a uscire dal sistema delle tendopoli dispiegato dall’allora onnipotente Protezione Civile e a dare il via così a un’avventura eccezionale: un’eccezione alla regola che inaugura qualcosa di mai visto prima. Dobbiamo avere l’audacia di sapere con assoluta certezza che, se i monti si mettono di nuovo a ballare, o se le ingiustizie che affliggono i nostri corpi e le nostre terre non cessano immediatamente, noi ci metteremo ancora una volta a ballare, nel senso letterale e metaforico della parola: con i matti e come i matti. A fare la festa. Perché questo sappiamo fare, perché questo si deve fare. Il viaggio della rivolta non è ancora finito, siamo ancora in viaggio: forse, anzi, il viaggio, l’unico viaggio, è solo all’inizio. Come sempre.