Appartenenza / Caporetto cent'anni dopo
La prima volta che siamo arrivati a Caporetto per i sopralluoghi fu due estati fa. Era già stata una sorpresa, per me, scoprire che non stava più nemmeno in Italia, quel luogo così proverbiale per noi. Si trova in Slovenia adesso, e si chiama Kobarid. È un piccolo borgo, tipicamente attraversato da una via principale che si allarga su una piazzetta che a sua volta si biforca in due strade. Una porta a Tolmino, fuori dal paese. L’altra al Museo della Guerra e al Sacrario.
Mi aspettavo un luogo cupo, pieno di segni e di riferimenti al Grande Evento. Niente di simile. La giornata, radiosa, illumina un paese tranquillo e immemore. L’unico segno “bellico”: un mucchio di sacchi di sabbia e un finto mortaio che servono da decorazione al dehors di una birreria. Per il resto, nulla di eroico o retorico. Anzi. Insieme ai ristoranti e ai caffè, solo vetrine di agenzie che organizzano trekking, escursioni in bici o discese di rafting lungo l’Isonzo le cui acque, qui, sono meravigliosamente verdi e brillanti. In giro circolano cicloamatori con le loro surreali maglie iridescenti; e turisti che si godono il sole in braghette e canottiera. Penso che sia una delusione, la mediocrità balneare in un luogo così simbolico. Ma poi penso un’altra cosa, che è probabilmente una riflessione disarmante quanto l’idea che prospetta: com’è banale la pace, com’è suggestiva la guerra. Perché la pace è questa cosa qui, gente scamiciata che si gode la vita senza pensieri, in una giornata non memorabile, nell’assoluta normalità. Sì, come è banale tutto questo; come è fragile; e come è facile perderlo per qualche Grande Idea.
Poco dopo guarderò a lungo l’enorme riproduzione di una fotografia di un gruppo di soldati italiani in trincea che sta all’ingresso del Museo. Facce di uomini che tra poco, probabilmente, saranno massacrati e passeranno alla Storia, seppur in modo anonimo, sotto l’etichetta di caduti, dispersi, reduci. Ma per il momento se ne stanno lì, in una giornata che dalla luce non sembra dissimile da quella odierna, con il sole che scalda e nessun pensiero importante da offrire ai posteri; se non la speranza di poterla vedere ancora da vivi, quella fotografia che stanno scattando ad uso ufficiale.
A Caporetto ci sono poi tornato più di una volta per girare un film, Cento anni, che sarà presentato al Torino Film Festival e uscirà in sala il 4 dicembre distribuito da Lab80 Film. Lo si può considerare l’ultimo capitolo di una trilogia di documentari che ho girato in questi anni sulla storia italiana, tutti sceneggiati con Giorgio Mastrorocco. I primi due sono stati Piazza Garibaldi (2011) e La zuppa del demonio (2014). È stato Giorgio a offrirmi l’idea per Cento anni, pensando, già tre anni fa, al centenario di Caporetto che si avvicinava. La questione che Giorgio poneva era chiara e intrigante: perché noi italiani, nella storia del Novecento (ma non solo), abbiamo sempre avuto bisogno di una catastrofe per mobilitare le energie migliori del paese? In altre parole: perché, sempre, Vittorio Veneto deve essere preceduta da Caporetto? Tanto è vero che quella parola – Caporetto – è entrata nel lessico comune, mentre quell’altra, il toponimo della vittoria, no. La verità sta nella “necessità della tragedia”, immanente al nostro carattere nazionale. La tragedia necessaria è non a caso il titolo di un libro di Mario Isnenghi su Caporetto e sull’8 settembre.
Ecco allora che la sconfitta (ma anche la susseguente, necessaria riscossa) è il filo rosso che lega nel film quattro storie dal 1917 a oggi. Naturalmente, però, tutto parte da lì, da quel disastro militare e civile, spesso narrato solo mettendo in primo piano i giorni di ottobre e dimenticando l’anno di occupazione successivo. Perché questo fa impressione, se solo si guarda una cartina. La distanza tra Caporetto e il Piave, leggendaria linea di resistenza italiana. Sono 160 km di sfondamento del fronte, un’enorme fetta di territorio nazionale che per un anno finisce sotto controllo austriaco, con terribili conseguenze dal punto di vista civile e sociale, pochissimo studiate nel secolo a venire. Basti un’osservazione. Mentre le truppe nemiche invadono il Friuli e il Veneto, la quasi totalità dei sindaci scappa, mentre pressoché tutti i preti restano. Chi è il vero patriota? Quello che è fuggito per sottrarsi alla cattura e al collaborazionismo; o quello che è rimasto per soccorrere la comunità (sostanzialmente i contadini) che non hanno potuto scappare?
Ma tutto questo sembra lontano in queste giornate di sopralluoghi. Difficile immaginarsi gente intenta a scannarsi in mezzo a una natura così ridente. Così come, salendo in cima al Kolovrat, dove sono conservate le trincee delle linee difensive italiane, sembra assurdo immaginarsi delle frontiere. Le frontiere stanno nella storia degli uomini, non nei confini della natura.
Sul Kolovrat ci torneremo a girare in inverno; e sarà tutta un’altra cosa. Tira un vento polare e, nonostante i nostri confortevoli capi tecnici, geliamo. Inevitabile pensare ai nostri fanti vestiti con le uniformi prodotte a basso prezzo dagli appaltatori, le scarpe di cartone, il cibo di bassa qualità. Eppure che incredibile fucina di identità deve essere stata la guerra di trincea. Qui nulla ti aiuta se non la solidarietà dei tuoi simili. Ma è anche facile capire che per chi vive una situazione così estrema, la catarsi non viene con la pace, ma è qualcosa che deve fare i conti con il dopoguerra, con la necessità di dare un senso alla carneficina di cui si è stati insieme vittime e autori.
Il sacrario di Caporetto è il primo di una serie di ossari che visiteremo. Non è particolarmente imponente né spettacolare, al contrario di quelli di Oslavia, di Nervesa o di Redipuglia. Naturalmente non sfugge alla retorica patriottica di tutti i monumenti del genere costruiti dal fascismo. Scopriremo più tardi, per caso, parlando con la console italiana di Capodistria – che si occupa della manutenzione – che il problema del sacrario è di essere stato costruito con materiali scadenti, per cui ogni tanto le lapidi si staccano, con conseguenze pericolose per i visitatori. Ironia del destino, ma molto italiana, che, celebrando i caduti, gli imprenditori fascisti lucrassero sulla loro memoria.
D’altra parte, anche a Oslavia la vòlta che copre il corpo centrale dell’edificio è sbrecciata. Gli uccelli ci si infilano dentro e volano con veloci planate tra le lapidi, emettendo un sibilo stridulo. I pochi colpi d’ala echeggiano nel grande spazio vuoto. Quando torneremo a girare, un anno dopo, troveremo tutto riparato e pulitissimo. La lucidatrice industriale della ditta chiamata al lavoro sarà ancora lì, calda, dietro un angolo. Potere del cinema. O, in generale, delle pubbliche relazioni.
I sacrari della Grande Guerra rivelano molto del carattere nazionale. Sono monumentali, costruiti – per così dire – a lettere maiuscole, come certe frasi del duce incise su muri. Ma sono anche architettonicamente affascinanti, luoghi che incutono rispetto. Chi li ha progettati l’ha fatto con passione, al netto della committenza istituzionale. E se li visiti con animo aperto, lasciando perdere le manipolazioni ideologiche, non puoi non rimanere colpito dal sentimento che ispirano. Quando, a Oslavia, alla fine di un lungo, cupo corridoio il visitatore si affaccia a una cripta circolare fiocamente illuminata e scorge una grande lapide che copre i resti di “12.000 ignoti” non può non sentire un sentimento di sgomento, compassione, ma anche (e sono consapevole delle implicazioni della parola) di orgoglio. Non certo l’orgoglio militaresco e sbruffone del fascismo, ma il senso di appartenenza a un popolo, come il nostro, capace di una resilienza silenziosa e tenace.
Forse il pensiero che ti resta più addosso uscendo da questi luoghi è: ne siamo ancora capaci, nel nuovo millennio? Oppure la “mutazione antropologica”, acceleratasi nell’era digitale, ha sradicato questa pazienza millenaria, capace di ribaltare mille volte il destino della nazione? Non a caso la Caporetto che stiamo vivendo oggi è una Caporetto crudelmente radicale: quella demografica. Non sta scomparendo solo il carattere italiano, stanno scomparendo gli italiani. L’ultimo capitolo di Cento anni, infatti, si svolge al Sud, nelle aree interne appenniniche in via di spopolamento, quelle raccontate nelle pagine di Franco Arminio; che, infatti, ci farà da guida.
Così prende una strana risonanza l’ultima immagine di quella prima giornata di sopralluoghi. Pernottiamo a Pulfero, l’ultimo paese italiano prima della frontiera. Un borgo tranquillo, sulla riva del Natisone. La chiesa, il municipio, l’immancabile monumento della Grande Guerra, metà case abitate solo d’estate. C’è un vecchio albergo a conduzione familiare, comodamente ristrutturato, dove si mangia benissimo. Dall’altra parte del fiume, un piccolo emporio. L’unico rumore, quello della corrente. Ma all’improvviso, spuntato dal nulla sul piccolo ponte di ferro che unisce le due rive, ecco un giovane africano. È affacciato alla spalletta, sembra che stia guardando verso il fiume: ma in realtà sta osservando il suo cellulare. Gli passiamo accanto. Sul display del cellulare c’è un video di musica del Mali.
Le note, una nenia esotica, rimbalzano lente all’ombra delle montagne dietro Caporetto.