Carla Melazzini. Insegnare al principe di Danimarca

16 Febbraio 2012

Capita talvolta di imbattersi in libri che costringono a modificare lo sguardo sulle cose. Alla categoria appartiene a pieno titolo Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio). Carla Melazzini, l’autrice, è stata una delle “maestre di strada” che dal 1998, per undici anni, ha portato avanti il “progetto Chance”, destinato ad offrire ai “ragazzi difficili” dei quartieri periferici di Napoli (Ponticelli, in particolare), la possibilità di terminare la scuola dell’obbligo. La memoria di questa esperienza si è trasformata in un libro assolutamente straordinario, che è uscito ad un anno e mezzo dalla morte di Melazzini, la cui personalità ricca e difficile viene ricostruita in appendice con commossa sobrietà da Cesare Moreno, suo compagno nella vita.

 

Non si esagera dicendo che la protagonista di Insegnare al principe di Danimarca è la scuola nella sua complessità. L’esperienza di Chance (di cui rimane traccia anche nel film Pesci combattenti) infatti diventa l’occasione per riflettere sul valore dell’insegnamento in una realtà attraversata da profondissimi cambiamenti, di fronte ai quali è evidente che non sia più possibile agire con criteri tradizionali. Anticipando le conclusioni, possiamo dire che il libro è un invito rivolto agli insegnanti (tutti) affinché compiano una vera rivoluzione copernicana, rinunciando all’atteggiamento mentale con cui abitualmente si pensano e pensano al proprio lavoro e andando al di là di qualsiasi impostazione prefissata in partenza, di qualsiasi disperante ed irrealistica (lo sanno bene quelli che alla scuola ancora credono) “didattica per obiettivi” e, ancora, di ogni presunzione di “onnipotenza pedagogica”.

 

Insegnare al principe di Danimarca suggerisce che fare scuola significa – comunque, anche nelle algide atmosfere liceali - calarsi in un contesto vivo, fondato sulla relazione con gli studenti, sullo scambio di emozioni, sulla reciprocità, nella convinzione però che talvolta “esistono ostacoli psichici interiori e relazioni insane più forti della conoscenza del mondo esterno, e finché non si opera un cambiamento di contesto è difficile il cambiamento individuale”. A queste considerazioni Melazzini giunge passando attraverso la complicata necessità di aiutare – gettando un “ponte su un abisso” – i ragazzi disadattati, affettivamente deprivati, abituati a vivere in situazioni familiari disastrose, spesso legate alla complicata galassia del mondo criminale. Confrontandosi con loro ha capito che fare l’insegnante vuol dire “dare significato alla parola”, perché è sullo scambio di parole che si fonda l’attività educativa. Ne consegue la necessità di saper “accogliere i silenzi, i veti, ma anche gli indizi, i suggerimenti, gli orientamenti da parte degli alunni, pena la perdita, appunto, della significanza”. La relazione buona, infatti, è quella in cui, non creandosi un rapporto di dipendenza (è il limite di tante azioni di volontariato sociale), “tu espliciti che stai ricevendo molto”.  

 

Chance, su questi presupposti, ha mandato a gambe all’aria tante abitudini della scuola, a partire dall’atteggiamento sadico con cui si falciano le classi piene di studenti refrattari alla cultura, non rinunciando però all’idea che educare significhi comunque dare un ordine, un’organizzazione alla vita degli allievi. Venuto a cadere l’abituale steccato tra le diverse discipline, accentuata l’attenzione verso l’attività pratica ed artistica (vero linguaggio alternativo a quello verbale, capace di dare voce ad emozioni altrimenti inespresse), dato progressivamente spazio alle discussioni comuni e alle uscite di gruppo in città, introdotto pure la pratica della “paghetta”, Chance si è trasformata nella “casa”, lo spazio dove i ragazzi imparano non solo i “contenuti”, ma soprattutto le regole della convivenza civile, riuscendo finalmente (se non tutti, almeno alcuni) ad elaborare dei “progetti di vita” che possano sganciarli dal cortocircuito esistenziale nel quale sono congelati da generazioni.

 

Andando oltre ogni “retorica del diverso”, Melazzini ci descrive così le fisionomie spigolose dei ragazzi difficili, da Nunzia, con la sua doppia personalità, ora cauta e studiosa, ora insopportabilmente aggressiva; a Gennaro, il ragazzo obeso su cui la madre punta per ottenere una pensione di invalidità utile all’economia familiare, ad Enrico, il cui padre viene ucciso dalla camorra appena uscito dal carcere. Ne emergono soprattutto le tempestose ed imprevedibili paure di questi giovani, su tutte quella di allontanarsi dal luogo dove sono nati e cresciuti, perdendo così i propri deformi e abituali punti di riferimento. Averli portati al diploma di terza media ha assunto così un valore ben più ampio di quello a cui si può distrattamente pensare. Ha voluto dire che esistono modalità di esistenza opposte a quelle fondate sul welfare statale e camorristico, dove passivamente attendi che ti venga dato aiuto (e solo lo stato non pretende nulla in cambio). Esiste una vita oltre le mura del ghetto, oltre la logica del radicamento coatto e sterile.

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