Parlamenti di aprile

Ai “Parlamenti di aprile” del Teatro delle Albe, al teatro Rasi di Ravenna dall’8 al 13 aprile, non sono state imbastite teorie organiche come in un convegno. Si è parlato, più che altro. Di teoria teatrale, di filosofia, di critica, di comunicazione, di teatri d’Europa, di peripezie artistiche. A colpi di parole abbiamo sfinito il pensiero: al ribollire denso della presenza abbiamo strappato degli inneschi logici, alla vetrina delle esperienze degli attivatori di idee, al piacevole logoramento della compresenza l’osmosi della conoscenza. Energia bruciata, come nella non-scuola delle Albe. Sotto, sopra, nelle intercapedini bisognava guardare. Anche oltre i racconti, la liturgia dello scoppio del magnesio, la primavera nel giardino del Teatro Rasi, il senso del rito, la sacralità del gesto quotidiano, la gentilezza disarmante di Ravenna, la filosofia avvincente, le cene vegane, l’ecologia della mente e dalla terra praticate (e non predicate).

 

Le nuvole, ph. Rossella Menna

Lavorare per le nuvole


Si lavora per le nuvole, simbolo di questi Parlamenti. Condense d’acqua sospese nel cielo, o matasse di fumo scoppiate ad hoc per esser fermate meglio nelle fotografie-ricordo di Cesare Fabbri e Silvia Loddo (cos’è l’arte se non la costruzione d’altro oltre quello che già esiste, per allargare il segno e scavarci dentro con più ferocia?). Si lavora per le nuvole, si dicono spesso Ermanna Montanari e Marco Martinelli. Si lavora per un nulla che è anche bellezza. Per il nulla e per il tutto, per il dentro e per il fuori, per la poesia inutile, per il superfluo necessario, ma anche per l’invano puro. Irrimediabilmente fuori dal fuori (Foucault), e quindi sempre dentro: con valigia pronta per uscire. Sulla soglia, nel mezzo tra gli strapiombi che ci intravediamo dentro con terrore (o gli spazi bianchi in cui ci fondiamo col vuoto del cielo) in certi momenti, e la luce al neon o l’odore della terra arata di fresco in certi altri.

 

Timbro delle albe ph. M. Brighenti


In quella meravigliosa carrellata delle sue figure più famose, che è La Camera da ricevere, prezioso spettacolo quasi privato che Ermanna Montanari offre alla piccola comunità dei Parlamenti, troviamo Fatima, asina parlante, che si commuove di fronte all’infinito e allo stesso modo per una volgare scritta in una toilette pubblica. Nell’interstizio c’è l’arte; ovvero la nuvola. Luminosa: imprendibile e densa.
 
Teoria del teatro e nostalgia del futuro: primo Parlamento


“Le parole sono le armi del pensiero”: Martinelli fa gli onori di casa e apre i lavori del primo Parlamento, dedicato alla teoria teatrale, a quelle nozze tra uomini di libro e uomini di scena che rappresentano ormai pratiche consolidate, perché “un teatrante che non studia semplicemente non è un teatrante”.


La critica, gli studi, i libri non servono ad appiccicare etichette, assegnare padri nobili e santificare figli ribelli. Servono a creare per via di parola (in principio fu il verbo...), a dare nomi alle cose che le chiariscano a chi le fa, a mettere il piede nelle impronte già scavate, a inventare genealogie profane per gettare ponti e avvicinare isole, a sprofondare e intanto veleggiare a pelo d’acqua. Ad applicare alla regia critica di Strehler un sottotesto gramsciano, come ha fatto Claudio Meldolesi, o a leggere Ronconi nelle pagine del Corso di linguistica generale di Saussure: per fare un esempio. A sprofondare nel Pantani delle Albe con i mezzi dell’estetica e dell’antropologia: per farne un altro.

 

Prima dei Parlamenti, ph. Rossella Menna


Servono a fare i conti con una storia in crisi, non umana, ma che contiene uomini veri e che esplode la forza dei lavori individuali; a ricostruire la collettività attraverso l’alleanza delle opere che sono veicolo delle persone, a inventarci strumenti per riconoscere fisionomie cancellate, come spiega Gerardo Guccini.


Parlamento di teoria teatrale, dunque. Insieme a Marco De Marinis, in primo luogo, nel suo libro Il teatro dopo l’età dell’oro, un viaggio tra le acquisizioni pratiche e teoriche del novecento, Artaud, Grotowski, la performance. Teatro “post”, postmoderno, postregia, postdrammatico: la teoria teatrale contemporanea è un esercizio di nomenclatura del ritardo. Tutto il novecento, dice Claudio Longhi, è percorso dal mito dell’origine e dalla percezione di essere arrivati dopo, in ritardo, per ultimi. L’Occidente (dunque l’Europa) d’altro canto è per tautologia la terra del tramonto. E quindi della nostalgia.

 

ph. Rossella Menna


Quale nostalgia? Quella di un passato reso glorioso solo dal ricordo? O forse la nostalgia come costante antropologica? Perché capita di essere nostalgici, anche a vent’anni: coltiviamo nel teatro la nostalgia del futuro, che non è di secondo grado, che non nasce dalla sensazione di non aver conosciuto qualcosa che invece altri hanno conosciuto, è una nostalgia allo stato puro. Una ferita che ci nasce dentro, da uno scollamento. Ci immaginiamo dal nulla una bellezza irresistibile (ovvero l’arte) che non esiste e poi lavoriamo per trovarla da qualche parte, ci sforziamo di vedere il possibile dietro il reale, di tendere al potenziale, di inventare il non-presente.  A piccoli passi, per ricomporre lo strappo tra quello che vediamo e quello che non c’è.

Comunicazione (web) e scenari apocalittici. Secondo Parlamento


Comunicazione, informazione, consapevolezza, controllo, democrazia, manipolazione: sono le parole chiave di un Parlamento dedicato alla comunicazione che si è trasformato fin da subito in un dibattito sulla comunicazione web. Carta stampata e/o digitale, nostalgia (il tema ritorna!) e/o avanguardismo, fonte univoca e/o porosità pedagogica e chi più ne ha – di binomi – più ne metta.


Viviamo nel tempo della fibra ottica, dei social network, della notizia ad alta digeribilità, dell’intelligenza artificiale che colonizza sempre di più quella biologica (Luca Sossella), di una crescente asimmetria informativa per la quale “c’è gente che sa su di me più cose di quelle che so io” (Oliviero Ponte di Pino), e dell’ipertesto che, spiega Carlo Infante, dà meglio conto della vita che non è come un romanzo bensì frammentata e istantanea (ma un romanzo ben fatto è un continuo ipertesto, replica un tweet).

 

ph. Castorp


L’informazione si è trasformata. Anna Bandettini porta in dote al Rasi la sua esperienza da giornalista di “Repubblica”: dalle 800.000 copie vendute fino a dieci anni fa, siamo passati oggi a poco più di 300.000, a fronte, tuttavia, di 60.000.000 di contatti al mese sul web. Non che lo spaventoso numero di accessi possa essere felicemente accolto in quanto indice neutro di democratizzazione; la democrazia non vuol dire che tutti possano dire tutto, ma che, nel marasma delle fonti, tutti siano messi in condizione di capire da dove e da chi arriva cosa (parole d’ordine: diffidare e controllare). Scetticismi fondati e garantismi stucchevoli a parte, è evidente che un giornale oggi possa aver senso solo se investe sulla logica della multipiattaforma e se il giornalista stesso è in grado di utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per modellare parole, foto e notizie, dalla carta allo smartphone.


La virtù sta quindi nel mezzo? Non sempre. Nel Parlamento dedicato alla teoria teatrale si è inneggiato alla conquista di quello spazio di segno nuovo che il teatro del nostro tempo si è ricavato dalla destabilizzazione del rapporto tra la scena e la pagina scritta, scoprendo un’autonomia che non ha menomato il rapporto ma l’ha arricchito, liberando potenzialità.


Allo stesso modo, si potrebbe cominciare a superare la sindrome del vorrei ma non posso e a prendere atto del fatto che il web, sganciato dalla dipendenza dalla comunicazione via carta, ha liberato enormi potenzialità teatrali della comunicazione. Si pensi non solo alla possibilità di interazione immediata intorno a un argomento cui Twitter dà accesso, ma al linguaggio stesso di una recensione, alla possibilità di raccontare attraverso infinite possibilità di combinazioni di parole e immagini. Oltre i catastrofismi e le apocalissi, quindi: il web non uccide l’informazione accurata e l’approfondimento: crea modelli nuovi, senza sostituire quelli vecchi. (Rossella Menna)

Tirare fuori la voce delle voci di dentro. Terzo Parlamento


Anche i critici nel loro piccolo performano. “Facendo l’attore ho capito cose sul teatro che non avevo compreso da critico” – ha detto Renato Palazzi (firma de “Il Sole 24 Ore” e dispensatore di consigli teatrali su Delteatro.it) durante il Parlamento “Critica e scena”. Uno spettacolo non è immobile, fatto e finito una volta per tutte, come si può credere stando seduti in platea, è un organismo vivente, che muta a seconda del pubblico che incontra. “Il teatro è un cerchio che si allarga – ha continuato – stando ai margini alla fine ci si casca dentro.” Lui c’è cascato con Guido Gozzano e Thomas Bernhard, spettacoli da cui entra ed esce nel corso del suo intervento al Parlamento con la naturalezza del passo di seguito all’altro. Il suo fare critica, allora, è la responsabilità di momenti, luoghi, incontri che chiedono alla recitazione soprattutto leggerezza.


“Il critico deve dare una risposta fisica all’altezza di ciò che vede – ha poi affermato Fernando Marchiori – deve riportare all’unità la molteplicità.” Per il critico teatrale, scrittore e operatore teatrale veneziano “fisico” vuol dire restare aderenti ai testi, quello detto in scena e l’altro scritto sulla carta. Da lì si deve poi uscire senza silenzio, come l’amore, se andare a teatro ancora lo è, come racconta Maria Grazia Gregori (critico de “L’Unità”), per cui il palcoscenico è “padre, università e marito”.

 

ph. M. Brighenti


Chi scrive di teatro mette dunque a frutto il suo sguardo in un dialogo continuo sulla scena. “L’artista ha certamente una visione critica – ha sostenuto Graziano Graziani (critico teatrale e giornalista di Radio Rai 3) – però è verticale, cioè stretta e profonda. Il critico è più superficiale, ma è prospettico, ricostruisce le tendenze, la direzione delle visioni”. Uno spettatore professionista attore di una presa di posizione chiara: esserci, sempre e comunque, è la misura aurea del raccontare il vedere. “Io guardo il teatro per vederci dentro il mondo – ha concluso Simone Nebbia a fine Parlamento – è lo specchio della mia dichiarazione di partecipazione.” Il critico teatrale di “Teatro e Critica” ha poi preso la chitarra e insieme a Graziani ha dato vita a un reading-concerto in romanesco tratto da I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011) dello stesso giornalista di Radio 3. Una Spoon River di vite e mestieri perduti che hanno acceso dolci sorrisi e strappato amare riflessioni. “Se piove mmerda nun te riesce a coprì nessun ombrello”.

Teatro libera tutti. Quarto Parlamento


Il critico, quindi, è unico e composito, interpreta le differenze rendendole complementari, come i mosaici che fanno grande la piccola Ravenna, la cui bellezza irrompe dietro l’angolo, all’improvviso, quando pensavi di averla già capita alla prima occhiata. Ci vuole il tempo di ascoltare voci amiche che non riconosci per dire ciò che le parole non dicono. Giuseppe Fornari, filosofo e professore all’Università di Bergamo, durante il Parlamento “filosofico” le ha chiamate “anti-parole”. “Il teatro – ha detto – è la sede dell’anti-parola che esprime la nostra libertà e la realizza compiutamente”.


La rappresentazione si è evoluta dai riti dionisiaci, il sacrificio umano purificatore con il teatro greco passa nel destino tragico dell’eroe. Ciò che lo spettatore immagina e rivive attraverso la scena è perciò conoscenza, pensiero, intelligenza che si rinnova sera dopo sera, attraverso il gioco e la fatica di chi per lavoro indossa maschere. “Gli attori possiedono il sapere dei sentimenti – ha sostenuto Laura Mariani (docente al Dams di Bologna) – mettono la loro mercanzia sul banco dell’emozione. Sono il punto di riferimento delle nostre libertà individuali”.

 

ph. M. Brighenti


Gli spettacoli, quindi, sono tutti datati, cioè fatti in una data precisa, da una certa compagnia. “Contemporaneo” non è altro che una contraddizione, un’impossibile sintesi tra tesi e antitesi, come ha affermato Massimo Marino (studioso e critico teatrale), il cui intervento è confluito in un monologhetto teatral-filosofico di Pasqua. “Il teatro si fa guardare e così insegna a guardare – ha commentato – bisogna avere coscienza del deserto, del disastro: per ripartire.”


La scena, perciò, ti lascia addosso la lingua di una storia, di un incontro aperto agli altri che parla principalmente a sé, non ricrea ciò che è perso, come il restauro conservativo circoscrive piuttosto il vuoto e lo distingue da ciò che è ancora vero, dall’arte. Del resto, come ha detto Luisa Orelli (studiosa di arabo e islamista alla Facoltà di Teologia di Lugano) in chiusura del Parlamento: “Il fondo di Dio e il fondo dell’anima non sono la stessa cosa, sono lo stesso fondo”. (Matteo Brighenti)

Parlamenti delle nuove visioni. Teatri d’Europa


Trasformare gli ostacoli in opportunità, rendere ogni imprevisto e ogni incontro un punto di forza, pensare in termini di tentativi e ricerca più che di obiettivi e fallimenti. Di queste caratteristiche del teatro si parla, da prospettive diverse, nel fine settimana conclusivo: nel pomeriggio di sabato il tema è declinato all’insegna delle sfide da cogliere nella dimensione pubblica, mentre l’incontro di domenica segna l’ingresso nell’intimità di alcuni percorsi artistico-biografici.

 

ph. M. Brighenti


Il “Parlamento dei teatri d’Europa” ha fatto emergere come l’apertura sia – ben al di là di eventi e manifestazioni dai grandi numeri – terreno fertile per ripartire dalla crisi. “Il confronto con le altre esperienze è sempre un risveglio” ha sottolineato Pietro Valenti, direttore dell’ERT, già presidente della rete europea Iris, “perché ci obbliga a fare i conti con le nostre modalità di lavoro”.


Di questo hanno discusso al teatro Rasi operatori, organizzatori, critici e direttori di festival impegnati attivamente nella costruzione di occasioni di scambio internazionale. È necessario tenersi lontano dalla logica dell’evento, inteso come avvenimento separato dalla quotidianità culturale, incapace di lasciare un segno nella durata.

 

ph. Castorp


Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla, fondatori e direttori del Festival delle Colline Torinesi, hanno portato l’esperienza delle Olimpiadi 2006 come monito per le città italiane che devono affrontare manifestazioni di simile grandezza: “Il massiccio investimento pubblico costringe a pensare in termini di grandi numeri, ma al teatro questa modalità è estranea. In quell’occasione si sono sparsi veleni che la città non ha ancora riassorbito”. L’antidoto a questo rischio, secondo Didier Thibaut direttore del centro teatrale francese La Rose des Vents è “conservare un solido ancoraggio nel proprio territorio nazionale, e non dimenticare le proprie specificità”.


Rischi, veleni, buone pratiche: argomenti urgenti in una Ravenna candidata a Capitale Europea della cultura nel 2019. Un appuntamento che porta in sé potenzialità di cambiamento e, allo stesso tempo, il pericolo di perdere di vista l’identità del proprio territorio. I Parlamenti hanno rappresentato un utile momento di condivisione per città a diversi stadi dello stesso percorso: Renate Heitmann ha raccontato motivazioni ed effetti della bocciatura di Brema; Irina Wolf ha portato l’esperienza di Sibiu, in Romania, nel 2007; Daniel Cordova si è soffermato sull’imminente prova della città belga Mons (2015); Lorenzo Donati ha concluso sull’auspicata sfida di Ravenna.

 

Tra racconti, speranze e ammissioni di difficoltà sono emerse possibili parole d’ordine: ripartire dallo spettatore, non rinunciare alla complessità, affiancare all’esplosione quantitativa di proposte una ricerca qualitativa. La sospensione e l’incertezza in cui si trova chiunque voglia fare cultura oggi – ha chiosato alla fine della giornata Silvia Bottiroli, direttore del Festival di Santarcangelo – “è sempre anche uno stato di grande interesse, di potenziale inatteso. Ecco perché la fotografia delle nuvole scelta per accompagnare i Parlamenti rappresenta per me un vero e proprio manifesto”.

 

ph. Castorp

Ultimo Parlamento: delle peripezie


Le riflessioni di Silvia Bottiroli sull’emergenza che da condizione lavorativa diviene stato esistenziale hanno in qualche modo anticipato la prospettiva e il clima dell’incontro di domenica. L’ultimo giorno si è svolto all’insegna della condivisione quasi intima di percorsi artistici anomali, che fanno della difficile categorizzazione la loro ricchezza. “Parlamento delle peripezie” è stato quindi il racconto di cambi di rotta improvvisi, di rideterminazioni coraggiose, di trasformazioni che diventano rinascite. È già tutto contenuto nella definizione aristotelica di peripezia: una caduta – come ci insegna il verbo greco piptein da cui il termine deriva – un inciampo, un “volgere delle cose nel loro contrario”. Una strada non lineare, quindi, come quasi mai può essere quella di un artista. A parlare di svolte, arresti e ripartenze sono state Francesca Proia, per anni danzatrice e performer e ora yogi, Bruna Gambarelli, direttrice del bolognese teatro Dom, Loredana Antonelli, autrice di video installazioni, Margherita Manzelli, pittrice. Esperienze ancora in evoluzione, raccontate quasi a bassa voce senza nessun desiderio di ostentare i propri risultati, che possono sembrare a un primo sguardo eccentrici rispetto al teatro e più vicini alle arti visive. Eppure il palcoscenico, punto di partenza per molte delle “parlamentari” (Loredana Antonelli ha lavorato come attrice con il Teatro delle Albe e Bruna Gambarelli per la Socìetas Raffaello Sanzio), si è rivelato rifugio per i linguaggi più eterogenei. Alla dimensione performativa – luogo di relazione per eccellenza – sono approdate, in forme più o meno estemporanee, tutte le quattro diversissime esperienze. “Il teatro trasforma l’imprevisto in opportunità”, ricorda una scritta all’ingresso del teatro Dom: ed è questa intrinseca capacità di sovversione e insieme accoglienza che rende il teatro un passaggio obbligato per ogni peripezia. (Maddalena Giovannelli)

Qui lo Storify Twitter dei “Parlamenti di aprile”, a cura di Matteo Brighenti (@briguzia)

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