Drammaturgia contemporanea / L’eredità del tempo a Colpi di scena
Di tutti gli enigmi che attendono di essere decifrati nell’universo, nessuno è forse più enigmatico e indecifrabile del tempo. Facciamo esperienza ogni giorno del suo movimento e misuriamo ogni nostro atto secondo un metro temporale, e tuttavia ignoriamo che cosa sia questa entità che tanto pervade le nostre vite. A intensificare l’enigma è anche il problema del tempo che seguirà alla nostra morte, o che lasciamo in eredità, di cui è difficile capire la vera natura. Da un lato, esso non è nostro, perché sono i posteri a beneficiare dei nostri lasciti. Dall’altro lato, però, il tempo che lasciamo in eredità agli altri è anche quello che ci appartiene realmente, in quanto lo costruiamo e lo doniamo. Emerge un paradosso. Ciò che lasciamo in eredità ci appartiene e non ci appartiene, il che si ripercuote sulla nozione generale del tempo, che ora pare esistere e ora non-essere.
Mi pare possa essere questo uno dei fili conduttori che annoda quattro dei lavori della vetrina della rassegna teatrale Colpi di scena di Forlì (dal 30 settembre al 2 ottobre 2021), organizzata dal centro di produzione Accademia perduta Romagna Teatro. Ciascuna di queste proposte artistiche si pone in modi diversi, infatti, la questione di cosa lasciare in eredità ai posteri, o di come organizzare al presente il tempo di cui altri beneficeranno in futuro prossimo o remoto.
Ne è un primo esempio Mille anni o giù di lì del Teatro delle Albe (1° ottobre, Teatro Socjale di Piangipane), che già dal titolo individua come focus di indagine la durata del tempo. In scena ci sono Luigi Dadina e due ‘fantasmi’: quello visibile del musicista Francesco Giampaoli, o lo spirito della musica che accompagna le parole dell’attore, e quello invisibile del fumettista Davide Reviati, autore delle immagini di lupi, bambini, di foreste attraversate da zingari proiettate sul fondo della scena. Lo spettacolo è lo spaccato di sei giorni tipici di un uomo ai margini del mondo. Dadina è un ex operaio del petrolchimico dell’ANIC, villaggio industriale di Ravenna che sta per essere dismesso e che viene nel frattempo devastato. Le ruspe dell’ENI arrivano per distruggere gli alberi circostanti, mentre dei camion guidati da ignoti rastrellano uomini e donne della periferia, insieme agli zingari che sopravvivono nelle vicinanze. Non potendo occupare il suo tempo a lavorare, né avendo forza di opporsi alla distruzione che procede inarrestabile fuori dalla sua abitazione, Dadina attua una forma di dissenso discreta. Egli registra tutto quello che accade fuori dalla finestra e dentro di lui, forse sotto l’effetto della mescalina o di altre droghe auto-prodotte, e usa questa testimonianza allucinata come “ultimo baluardo” di resistenza allo scempio. Alla fine dello spettacolo, ascolteremo la registrazione numero 15335. Se supponiamo che l’uomo abbia lasciato una testimonianza al giorno per 365 giorni all’anno, parliamo di circa 42 anni di devastazione e della relativa resistenza segreta.
Non è immediatamente chiaro perché il personaggio di Dadina compia tale attività tutto sommato inutile, o valida sul piano esclusivamente simbolico, e non lasci piuttosto il villaggio al suo destino segnato, per rifarsi una nuova e più tollerabile vita altrove. La risposta è probabilmente che il contatto con la violenza e il degrado permette all’attore di intuire delle presenze bellissime, che danno forza alla sua testimonianza registrata e trasmutano l’orrore in poesia. Il confronto con il dolore dell’ANIC farebbe intuire l’esistenza di alcune “Grandi Madri” nomadi, che si spostano lungo tutta la terra per cercare pace e libertà, di cui gli uomini e le donne della disperata periferia, nonché gli zingari delle foreste circostanti, sarebbero i figli e le figlie. Tali figure materne hanno, come da titolo del lavoro, “mille anni o giù di lì”, che è come dire che non hanno tempo né età: infatti, la sofferenza e il desiderio di un riscatto esistono dagli albori dell’umanità, che ha più di dieci secoli di storia. Queste “Grandi Madri” sono state immortalate, ad esempio, dai versi delle poetesse zingare Bronisława Wajs e Mariella Mehr, che non a caso un’altra voce registrata – quella di Elena Bucci – recita tra un delirio e l’altro di Dadina. Ma esse esisteranno finché anche soltanto un bambino disperato sarà perseguitato dalla violenza del mondo. Spostarsi in un altro luogo avrebbe allora significato per Dadina la rinuncia a questa mistica poetica. Soffrire in una sgangherata realtà di periferia è il prezzo da pagare per lasciare in eredità registrazioni che daranno un minimo di coraggio in più agli zingari e ai disperati di domani. Gli uomini e le donne che soffrono non sono soli: sono tutti figli e figlie di “Grandi Madri” impotenti ma amorevoli, dunque fratelli e sorelle in virtù di queste comuni progenitrici. La poesia consolatoria si trasforma così in azione politica, diviene un’espressione di socialismo.
Sottile è anche il discorso sul tempo di Thinking Blind di (S)blocco5, andato in scena il 2 ottobre al Teatro Testori di Forlì. Due performer, Giulio Santolini, Ivonne Capece, prendono avvio dal film Blue di Derek Jarman per precipitare l’ascoltatore dentro una sinestesia. Lo scopo è creare un lavoro visivo che cerca paradossalmente l’assenza di visione – la creazione di un campo cieco dove si disimpara a vedere gli oggetti singoli e si aguzza in questo modo l’ascolto. Nel giro di un’ora, Thinking Blue passa dal racconto del giardino di Eden, o della condizione idilliaca in cui dominava il colore verde bellissimo della natura rigogliosa e quello arancione della frutta matura, al graduale processo di caduta in un mondo colmo di malattia e morte, in cui gli oggetti e i viventi sono ora colorati di giallo-blu. Il mutamento cromatico suggerisce, tra le varie cose, un processo di graduale cecità e sordità dell’essere umano. Se nell’Eden quest’ultimo vedeva tutta la natura, ora non vede più nulla, perché si è convito di essere indipendente dall’ambiente naturale. La pandemia da Covid-19 ha dimostrato il contrario, facendo irrompere in maniera lampante la percezione che noi siamo immersi in un tutto interconnesso. Il blu è così simbolo di un’incapacità di percepire il cosmo nel suo complesso, dunque di sentire che l’umanità è una piccola parte della natura.
A livello scenico, questo piano simbolico è trasposto in un dialogo tra la Madre Natura (Capece) e l’essere umano (Santolini). L’una è sempre vista di spalle, mentre descrive con azioni, parole e oggetti una vicina apocalisse. L’altro danza o agisce sulla scena quasi sempre nella condizione di chi non comprende questi segni e persino svaluta i doni che riceve dall’ambiente naturale. Ne è un esempio il punto in cui l’essere umano divora un arancio che Madre Natura invece usava per abbellire lo spazio: lo rende, da oggetto estetico, un semplice alimento. Solo verso il finale la situazione sembra mutare. Qui, infatti, l’uomo indossa la sottana blu di cui veste Madre Natura, segnalando un ricongiungimento della parte con l’intero. Entro questa cornice drammatica, il tema dell’eredità del tempo si introduce in relazione alla metafora dell’apocalisse. I segni apocalittici che Madre Natura presenta all’essere umano in scena sono un invito – esteso però agli spettatori – a ricongiungere la fine con l’inizio, in altri termini a ricreare, nel mondo orribile e malato in cui ci troviamo, una condizione vitale almeno somigliante a quella edenica. Ciò avviene su imitazione di Jarman, il quale aveva allestito in un’area prossima a una centrale nucleare un giardino di piante selvatiche, veicolando così la potente suggestione che compito di ogni arte è creare il bello anche nei luoghi capaci di esplodere da un momento all’altro. Thinking Blue di (S)blocco5 prosegue a sua volta l’intuizione di tale artista, ne raccoglie in altri termini l’eredità e sprona lo spettatore ad attivarsi in una direzione salvifica, prima che sia troppo tardi. Se così non farà, il blu resterà l’unico colore visibile ai nostri sensi, la cecità una mutilazione perenne.
Veniamo così al terzo lavoro, Il defunto amava i pettegolezzi di Menoventi (2 ottobre, Teatro Diego Fabbri di Forlì), che ha avuto una lunga gestazione e ha passato varie tappe, dallo studio teatrale alla conferenza scientifica, passando per un reading radiofonico, fino ad arrivare allo spettacolo attuale. La versione finale è una rappresentazione degli ultimi giorni di Majakovskij, che, come è noto, morì il 14 aprile 1930 per un colpo di pistola, non è chiaro se per mano altrui, o per un suicidio istigato dai contemporanei (forse dall’amante Nora che rifiutò di andare a vivere con lui, forse dai suoi falsi e gretti colleghi rivoluzionari). Questo ‘caso’ apre una complessa riflessione sull’eredità del tempo, che ha una duplice direzione.
Da un lato, il lavoro è un saggio biografico-romanzato sull’ossessione che il poeta russo ebbe verso la posterità. La fonte principale è rappresentata dal romanzo-inchiesta di Serena Vitale, da cui lo spettacolo di Menoventi trae il titolo. Poiché il suo genio non riceve i dovuti riconoscimenti da parte dei suoi contemporanei, Majakovskij decide di parlare nelle proprie opere ai posteri, o agli uomini e alle donne del futuro, rivolgendo loro allocuzioni, inviti alla rivoluzione, persino preghiere a resuscitarlo con la tecnologia avanzata che crede un giorno verrà scoperta. Ma il poeta parla anche di sé come un uomo già morto, visto che costella i suoi versi di riflessioni sul suicidio e sull’idea che questo atto è possibile solo a noi esseri umani – scrive, infatti, che i cavalli non si suicidano perché non hanno linguaggio, quindi non possono istigarsi ad ammazzarsi con “franche spiegazioni” nei rapporti professionali e amorosi. Il suo presente è simile all’erma di un Giano bifronte: la testa volta a sinistra osserva un uomo defunto, quella a destra si contempla come un poeta immortale. O ancora, esso è prossimo alla condizione esistenziale del gatto di Schrödinger. Majakovskij è insieme vivo e morto, a seconda dell’universo che si prende a referente. Rispetto ai posteri, egli vive; rispetto ai contemporanei, è un grumo di carne in avanzato stadio di decomposizione.
Ora, però, in quale dei due universi ci troviamo? Questa domanda imprime al lavoro di Menoventi la seconda direzione sulla riflessione sul tempo di cui parlavo poco fa, perché la risposta è: impossibile saperlo. Majakovskij fu, infatti, un viaggiatore del tempo, sospeso tra passato, presente e futuro, almeno grazie alla sua creazione poetica. A indagare la sua misteriosa fine è del resto la Donna Fosforescente, ossia il personaggio della penultima opera teatrale scritta dal poeta (Il bagno, 1929), che torna dal 2030 per appurare che cosa successe davvero nella notte fatale del 14 aprile 1930. Quella che tuttavia dovrebbe essere una facile indagine per un essere di un futuro che ha inventato una tecnologia così avanzata da permettere i viaggi temporali si trasforma in un labirinto. La Donna Fosforescente incontra infinite soluzioni all’enigma, che è come dire che non ne trova nessuna. Il poeta forse era già morto, sicché l’apparente suicidio è l’eco fisica di una morte avvenuta prima del 1930. Forse qualcuno lo ha davvero ucciso al presente, ma i carnefici sono più d’uno, tanti quanti sono gli infiniti universi (= gli infiniti presenti) del cosmo. In uno è Majakovskij a uccidersi, in un altro la causa è Nora, e così via. Forse, infine, la morte del 1930 viene dal futuro, è organizzata dal poeta resuscitato nel 2030 per costruire una beffarda creazione artistica, con cui sovverte le leggi temporali e spaziali.
In tutto questo, una cosa è molto probabile. Gli uomini e le donne dei posteri a cui Majakovskij parla includono anche noi, a cui è lasciato in eredità il compito decifrare l’enigma. Riflettere sul “caso Majakovskij” significa ragionare sull’intrico del tempo, dove il confine tra passato, presente e futuro è sfumato, quasi vicino al nulla. È un’apparenza labirintica con cui si deve imparare a convivere.
L’ultimo lavoro da isolare da Colpi di scena è in realtà un’anteprima ed è stato allestito sempre il 2 ottobre all’EXATR di Forlì. Si tratta Semmelweis di Città di Ebla, creazione scenica liberamente ispirata al romanzo Il dottor Semmelweis di Céline. Come Il defunto amava i pettegolezzi di Menoventi, è un ragionamento sul rapporto tra genio e posteri. L’attenzione è rivolta a un altro incompreso di enorme statura intellettuale: il medico ungherese Ignac Fulop Semmelweis, scopritore della causa dell’infezione puerperale, che a sua volta lo rese un geniale precursore della pratica della disinfezione. Notando che molte giovani incinte morivano dopo essere state operate da studenti che avevano appena sezionato cadaveri, egli debellò il morbo prescrivendo ai secondi di igienizzarsi le mani. La sua scoperta fu tuttavia ostracizzata dalla comunità scientifica dell’epoca, che prima lo costrinse ad accettare un impiego inferiore alla sua intelligenza, quindi alla follia.
Tre sono gli aspetti interessanti di questo lavoro. Il primo è che il genio coincide con la semplicità. La pratica di lavarsi le mani prima di operare su un paziente suona oggi ovvia, persino avvilente per il più mediocre degli studenti di medicina. Ma quello che a noi oggi sembra una banalità richiese un’acutezza mentale eccezionale, nonché il coraggio di opporsi a convenzioni e preconcetti che imprigionavano la mente persino di persone istruite. La semplicità della scoperta di Semmelweis viene rispecchiata dalla costruzione altrettanto semplice della scena, in cui l’attore Marco Foschi si limita a riferire i nudi fatti, o le tappe della scoperta, senza inquinare il dato con qualcosa di superfluo.
Il secondo aspetto interessante è la descrizione anti-romantica del genio incompreso. La follia da cui Semmelweis viene preso al termine del suo tragico percorso non è frutto del suo animo, ma dell’influenza nociva della stupidità dei suoi contemporanei. La grande passione e la dedizione quasi febbrile alla ricerca che lo portano a scoprire la disinfezione sono l’effetto, più che la causa del genio del medico. Il rapporto casuale a cui siamo abituati (genialità = sregolatezza e pazzia) è pertanto confutato. Semmelweis è in sé imperturbabile, nitido, solido, semplice come una lucida parete di ghiaccio. Se viene sporcata e incrinata dalla follia, l’origine va cercata in un processo indotto da nocive e non-geniali interferenze esterne.
Il terzo e ultimo aspetto è correlato al problema del tempo. Semmelweis attesta con evidenza che solo chi è semplice come il genio può capire una scoperta geniale e trarne tutti i benefici possibili. Per raggiungere questa semplicità mentale, però, si richiede tempo, o meglio grandi sommovimenti intellettuali che debbono diffondersi fino agli strati più minuti della società. È per tale ragione che, molto probabilmente, è vero dire che solo i posteri sono in grado di ereditare le grandi scoperte del passato e sorprendersi del fatto le generazioni precedenti avevano preferito pensieri o stili di vita ben più contorti. Questo apre lo spazio a un intervento politico. Se si vuole portare il genio alla massima espansione, occorre una comunità geniale sottoposta a un continuo allenamento alla lucidità. In assenza della genialità collettiva, le menti più brillanti saranno condannate a degradarsi in follia.
L’ultima fotografia ritrae Marco Foschi in un momento del Dottor Semmelweis di Città di Ebla