Storia e scienza del dialogo interiore / Le voci dentro

31 Dicembre 2018

Immaginate di essere seduti in metropolitana all'ora di punta, tra molte persone pigiate l'una contro l'altra. Qualcuno legge, qualcuno ascolta musica o parla al telefono; i più guardano da qualche parte senza fare niente di particolare, con gli occhi un po' vitrei di chi sta pensando ai fatti suoi. Improvvisamente vi mettete a ridere con una risata leggera, non troppo forte, ma sufficiente ad attirare gli sguardi dei vostri vicini per un momento. Nessuno si stupisce, anche se non c'è nulla attorno a voi che sembri giustificare il vostro atteggiamento. Come mai la vostra risata, solitaria e immotivata, non suscita meraviglia né altro? Perché le persone attorno a voi capiscono subito che dovete aver pensato a qualcosa di divertente e siccome si tratta di un'esperienza comune, tutti interpretano correttamente la vostra reazione.

 

Nel saggio Le voci dentro. Storia e scienza del dialogo interiore (Raffaello Cortina Editore), lo psicologo Charles Fernyhough, docente alla Durham University e direttore di un progetto di ricerca sulle voci interiori, comincia con questo esempio un'indagine sulla natura, l'origine e lo scopo di quell'attività universale che è il pensare. Partendo dalla constatazione che si tratta di un'attività –dunque di qualcosa che si fa –, nel corso del libro cerca di rispondere a diverse domande: di che tipo di attività si tratta, come si manifesta, se appartiene proprio a tutti, a cosa serve e, quando i pensieri si palesano in modo auditivo (sentire voci), in che cosa si differenziano le manifestazioni normali da quelle patologiche?

Se ci soffermiamo anche solo per pochi minuti ad ascoltare i pensieri nella nostra mente, ci rendiamo conto immediatamente di quanto essa sia affollata. È stato detto che nessuno è così in compagnia come chi sta solo nella propria stanza a pensare, dal che si può dedurre subito che pensare è un'attività conscia – quando sogniamo non stiamo pensando – e del tutto privata. Come abbiamo visto nell'esempio iniziale, gli altri capiscono che stiamo pensando ma non possono in alcun modo conoscere i nostri pensieri.

 

Per dirla con Fernyhough, il cervello ti offre «un posto in prima fila per uno spettacolo destinato solamente a te stesso». Se così non fosse e potessimo udire ciò che passa nel cervello degli altri impazziremmo e, comunque, non ci capiremmo niente, perché pensare non «equivale a parlare con il volume al minimo». 

È vero che usiamo il linguaggio formulando parole nella mente e perciò sembra molto probabile che esista una forte relazione tra pensiero e linguaggio, ma il pensiero utilizza le parole in un modo particolare; esse viaggiano nella nostra mente «a una velocità dieci volte maggiore del linguaggio ordinario». Infatti, quando si legge a voce alta lo si fa a una velocità molto inferiore rispetto a quando si legge a mente, perché «invece di dover tradurre gli stimoli visivi in un codice fonetico (o sonoro) ed estrarne successivamente il significato, lo stadio "vocale" del processo viene eliminato e il lettore può passare direttamente da un registro visivo a un registro semantico.» Leggere a mente è una modalità relativamente recente, ci spiega Fernyhough raccontando di come sant'Agostino un giorno si accorse con grande meraviglia che il vescovo Ambrogio leggeva senza muovere le labbra. 

 

Questa innovazione di Ambrogio, conclude, «è stata considerata come un momento decisivo per lo sviluppo della cultura occidentale» e probabilmente ha un ruolo importante nello stimolare il linguaggio interiore.

Per alcuni il pensiero si manifesta più sotto forma di voci che di parole, e siccome l'esperienza di sentire voci è spesso associata alla schizofrenia, l'autore dedica diverse pagine a spiegare, attraverso testimonianze cliniche, la differenza tra patologia e normalità. La schizofrenia è un disturbo molto complesso, oggi considerato una sindrome, «ovvero un insieme di condizioni cliniche correlate tra loro». È chiaro che sentire voci quando non c'è nessuno attorno comporta, evidentemente, una cesura con la realtà, ma vi possono essere sottesi meccanismi sia cognitivi sia neurali diversi, e per giungere a una diagnosi corretta devono essere tutti presi in considerazione. 

 

Comunque, al di là dei fenomeni patologici, parlare con se stessi nella propria mente è «uno degli aspetti basilari della natura umana». Nella nostra mente si svolge un dialogo tra voci che sostengono ciascuna un'opinione diversa, e questa qualità polifonica è per l'autore l'essenza di quello che definisce pensiero dialogico, un pensiero corale che alimenta e nutre la creatività. Non per niente, infatti, scrittori, artisti, scienziati, pensatori dichiarano tutti d'intrattenere sempre un intenso dialogo con se stessi.  O con un Altro, come accade ai mistici, di alcuni dei quali Charles Fernyhough parla nel suo saggio. È evidente che per loro è di vitale importanza capire la natura dell'esperienza che vivono la quale, pur essendo del tutto al di fuori della normalità, non è liquidabile come espressione di uno stato patologico. Dell'estasi mistica Martin Buber, che ne fu un grande studioso, affermò che il suo linguaggio non assomiglia al parlare ma «piuttosto a palpebre che si alzano nel silenzio» (Martin Buber, Confessioni estatiche, Adelphi).

 

 

Al di là della straordinarietà di certe esperienze, comunque, siccome tutti ascoltiamo sotto qualunque forma si presentino voci diverse nella nostra mente – e non tutte sono buone, ci fanno bene o ci spingono a decidere nel modo migliore – il problema di sapere discernere tra loro si pone a tutti.  Come distinguerle? Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù e grande maestro di discernimento spirituale, attingendoli dalla propria esperienza personale, ha insegnato molti criteri utili a mettere ordine nei propri tumulti mentali, al fine di tenere saldamente in mano le redini del proprio mondo interiore. Come scrive Roland Barthes (I. di Loyola, Esercizi Spirituali, Introduzione ed. TEA) «non occorre essere gesuiti, né cattolici, né cristiani, né credenti, né umanisti, per esserne interessati». 

È impossibile riassumere i consigli di Ignazio di Loyola senza contestualizzarli, perché si finirebbe per banalizzarli ingiustamente. Ve ne propongo uno solo che credo possa essere utile a tutti. Quando ci coglie un pensiero, consideriamo l'effetto che ha sulle nostre emozioni: se ci fa sentire più sereni, se nonostante stiamo pensando a un errore commesso, ad esempio, ne ricaviamo uno stato d'animo positivo, una determinazione a superare l'errore, allora è un pensiero buono, spinge versa una scelta giusta (Ignazio dice che viene da Dio, volendo si può dire che viene dalla parte sana e libera di noi stessi). Se, al contrario, alimenta la nostra negatività e ci rende tristi, rancorosi, sfiduciati, invidiosi, allora possiamo essere certi che viene da quello che lui chiama il nemico della natura umana, qualunque sia il volto che gli volete dare. Anche il vostro stesso volto, quel qualcosa nella vostra psiche che non vi permette mai di essere sereni, tantomeno felici.

 

Talvolta il chiacchierio dei nostri pensieri ci tormenta e vorremmo zittirlo ma, se anche lo potessimo fare, sarebbe sbagliato perché l'obiettivo giusto da porsi non è ridurre la mente al  silenzio bensì ordinare i pensieri, calmare le emozioni, governare noi stessi per scegliere il meglio per noi e coltivare buone relazioni con gli altri. Il dialogo interiore «ci aiuta a regolare il comportamento, a motivarci all'azione, a valutare i risultati di queste azioni e addirittura a diventare consapevoli di noi stessi»; significa saper guardare le cose dal punto di vista di un altro, sviluppare capacità critica, pensare in modo creativo. È una narrazione da cui, cucendo insieme i brandelli delle nostre esperienze cognitive, ricaviamo un tessuto coerente e sensato, fondamentale per il nostro equilibrio psichico e spirituale. Siamo tutti frammenti, dice Charles Fernyhough, non esiste un Sé unitario e ognuno di noi lotta ogni momento per creare un me coerente, che egli ritiene illusorio. Io credo, invece, che l'illusione stia nel pensarci come fossimo statue di marmo solido – levigate, lucenti e formate una volta per tutte – mentre mi pare che assomigliamo di più a mosaici composti da moltissime tessere. Ognuno deve assemblare le proprie e dare forma a quell'unità molteplice e inesauribile che ogni persona è.

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