Il disincanto dello scrittore polacco-napoletano / Gustaw Herling

11 Dicembre 2017

Non so se facesse la sua passeggiata quotidiana anche prima; prima che gli venisse un infarto e che il medico gli vietasse di andare a Parigi, come faceva regolarmente ogni due mesi. La passeggiata lungo via Caracciolo doveva farla perché il cuore ne traeva giovamento, ma forse era anche un modo per mimare il suo allontanamento da casa e il successivo ritorno in uno spazio e in un tempo diversi, quasi una miniatura, rispetto a quelli cui era abituato nella sua pratica dell’andirivieni. Parlo di Gustaw Herling, di quell’uomo alto e di corporatura massiccia che ogni mattina puntualmente attraversava a piedi alcune strade napoletane. Da via Crispi, oltrepassata piazza Amedeo, veniva giù per via dei Mille fino a piazza dei Martiri; da lì, tagliata in due piazza Vittoria, scendeva fin quasi al mare e tornava indietro percorrendo via Caracciolo in senso contrario allo scorrere delle automobili, fino a raggiungere Mergellina, dove al capolinea c’era un autobus che l’avrebbe riportato a casa. M’immagino che a volte, al centro esatto della vasta baia, si fermasse dimenticando per un attimo il suo rimuginìo continuo. Per poi affrettare il passo, quando gli tornava in mente qualche avvenimento politico che lo turbava.

 

Era un gran conoscitore di storia napoletana; si appassionava soprattutto alle cronache, come quelle seicentesche riguardanti Masaniello. Aveva scritto Il miracolo (1984), un racconto tutto di ambientazione partenopea, e i polacchi, che in quegli anni potevano leggerlo solo clandestinamente, l’avevano interpretato come un’allegoria di Wałęsa, il protagonista di Solidarność.

 

Gustavo – come lo chiamavano gli amici italiani – era nato a Kielce nel 1919. E già negli anni Trenta, mentre studiava filologia polacca all’Università di Varsavia, aveva dato prova del suo talento di critico letterario. Ma lo scrivere e il leggere dovevano presto fare a pugni con i tumulti urticanti della Storia.

 

Dopo la sconfitta della Polonia, nel ’39 – raccontò la prima volta che andai a trovarlo –, con alcuni amici abbiamo subito creato un’organizzazione clandestina: io sarei dovuto andare all’estero, perché, all’estero, esisteva già il governo polacco in esilio, in via di formazione a Parigi; avrei così preso contatto con loro, magari, vista la mia giovane età, arruolandomi nel nuovo esercito polacco. Invece sono stato arrestato dalla polizia sovietica mentre tentavo di passare la frontiera. Fui condannato a cinque anni: nelle prigioni e nei campi ne ho passati due, dal marzo del ’40 al gennaio del ’42.

 

Sono gli anni che vengono descritti in Un mondo a parte, pubblicato in traduzione inglese nel ’51 e prima testimonianza del gulag sovietico. Bertrand Russell, nella sua introduzione, scrisse che il libro “possiede una rara forza descrittiva, semplice e vivida, ed è assolutamente impossibile dubitare della sua sincerità in qualsiasi punto”.

Sempre capace di mettere in relazione le sue letture con le esperienze fatte, Herling scrisse questo suo primo libro dialogando con il Dostoevskij delle Memorie da una casa dei morti: “La cosa più straordinaria non era la forza di Dostoevskji nel descrivere sofferenze inumane come se fossero una parte naturale del destino umano”; quel che colpiva di più il prigioniero polacco consisteva nel fatto “che non c’era il più lieve divario tra il destino di quei prigionieri e il nostro”.

Quando finalmente fu fuori da quell’incubo cominciò una peregrinazione per un mondo ancora in guerra. Arruolatosi nell’esercito polacco in Russia, in via di costituzione dopo l’accordo tra il governo sovietico e il governo polacco in esilio, Herling giunse in Italia alla fine del ’43 e partecipò alla battaglia di Montecassino nelle file dell’esercito comandato da Anders. E dopo la liberazione rimase ancora due anni a Roma, per poi trasferirsi in Inghilterra con la prima moglie nel ’47, rimanendoci cinque anni. Dal ’52 al ’55 lavorò a Monaco di Baviera per la radio Europa Libera e proprio a Monaco, prima di tornare in Italia, si risposò con Lidia, figlia di Benedetto Croce, conosciuta a Villa Tritone a Sorrento in occasione di una visita al filosofo, durante un “interludio bellico”.

Così dal ’55 scelse come sua residenza abituale la città di Napoli.

 

All’inizio andarlo a trovare in via Crispi significava varcare un sottile confine: di qua la città, di là la sua stanza “polacca”. Tra i due luoghi sembrava che non ci fossero molte relazioni. Ma era solo un’impressione superficiale, e d’altronde a poco a poco, lungo gli anni Novanta, quella sua stanza divenne sempre più frequentata.

Lui ogni due mesi partiva per Parigi e là lavorava a “Kultura”, la rivista dell’emigrazione polacca che aveva contribuito a fondare. Finché non fu finalmente possibile tornare in Polonia. Lì, dopo le presentazioni dei suoi libri, si faceva la fila per chiedergli gli autografi. Ne era contento, certo. Ma decenni di esilio intellettuale non si eliminano con facilità.

 

 

Una volta, al ritorno da una nostra passeggiata, disse che si apprestava a partire per la Polonia, ma sarebbe tornato a Napoli (dove è scomparso nel 2000), perché era a Napoli che voleva trascorrere i suoi ultimi tempi. Era da poco nato il nipotino che porta il suo nome e quell’evento lo aveva legato ancor di più a una città che era stato capace d’indagare come pochi e di trasformare in scrittura diaristica e narrativa.

In effetti Herling era un europeo che aveva imparato a osservare il mondo dal Sud. E il Sud gli aveva suggerito di guardare alle storture della Storia, ai totalitarismi del passato e a quelli sempre in agguato senza mai dimenticarsi degli agguati della Natura.

Memorabili sono le pagine che gli furono dettate dal terremoto irpino del 1980. Penso in particolare alla sua capacità di scrutare nei dolori inflitti agli uomini e alle cose dal sommovimento della terra. La paura, sì, chi non provava paura?, ma era necessario saperla guardare in faccia, rispettare la morte altrui e tenere vive le riserve di speranza per i vivi.

 

In quelle pagine, che non è difficile definire leopardiane, la tragedia non era messa da parte. E se ciò era possibile, lo si doveva al fatto che, avendo dovuto subire gli strazi imposti dalla Storia, era riuscito a venirne fuori come un “pellegrino della libertà”; e di quegli strazi se ne era fatto testimone e allo stesso tempo li aveva saputi trasformare nella materia di un rimuginìo continuo.

Quello stesso rimuginìo di cui si ascolta il suono nel racconto dedicato a Varlam Salamov, l’autore dei Racconti della Kolyma; un autore da Herling molto amato. In entrambi i casi un gelo scende lungo le ossa come un requiem intimo.

E ciò non è infrequente quando si legge il Diario scritto di notte. È la sua opera maggiore; quella nella quale lo scrittore seppe forgiare un intreccio tutto personale di annotazione e racconto, di tesa argomentazione saggistica e di peculiarità ritrattistica. E dove, quasi avesse in mente le bachiane Variazioni Goldberg, viene di continuo modulato il suo tema principale: la presenza del male nel mondo.

Che si tratti del gulag, della peste, del terremoto, della malattia o dell’imbecillità, il suo sguardo perfora le scabrose superfici della realtà per portarne alla luce la radice malata.

Per Herling, dunque, il male prevarrà sempre e non c’è salvezza e la speranza è una pia illusione? Tutt’altro. “Un fenomeno strano della vita umana è il rafforzarsi della speranza attraverso la sconfitta”, si legge in una sua annotazione.

E la Storia cos’è dunque per lui? Dalla Storia deriva forse qualche insegnamento? “Affermo che non ne derivano affatto oppure si tratta di insegnamenti illusori e ingannatori. Ma affermo al tempo stesso che a volte, molto di rado, gli avvenimenti storici trascinano con sé uno strano e tenue chiarore, che è una sorta di messaggio implicito, scritto in maniera indecifrabile da una qualche Mano Invisibile”.

Questo “strano e tenue chiarore” illumina misteriosamente la sua scrittura, come negli amati dipinti di Georges La Tour; una scrittura che si pone al di qua o al di là dei generi letterari, servendosene quanto basta, come avviene, soprattutto negli ultimi anni, con l’uso del racconto indiziario alla Sciascia; una forma che Herling modella e fa sua con una vertiginosa sapienza musicale, che ricorda per l’appunto l’arte della fuga, come ebbe a notare Cristina Campo.

 

Scrivere diventa così un incessante rimuginìo morale con figure; dove la parola pensata, nel transito verso la pagina, deve sapersi dare dei limiti: “Ho sempre rispettato il pudore delle parole”, che è anche e soprattutto il rispetto per il “segreto, il mistero di ogni cuore”. Il pudore per le parole significa la parsimonia nell’usarle, la propensione per la miniatura e la sintesi verbale, l’amore per le cronache; queste ultime considerate “un’eccellente scuola di scrittura; insegnano (quando sono vere) il rispetto per la supremazia della nuda relazione sulle tentazioni del descrivere”.

Infine, la consapevolezza di cosa sia “la massima verità nell’arte, e cioè che non esiste nulla di più difficile, di più bello e di più reale della semplicità”. Da qui la libertà di movimento del suo scrivere, lo scintillare dell’ironia al fondo delle frasi e l’ombreggiatura a punta secca del suo giudizio sul mondo e sugli uomini.

A fronte dei tanti volumi polacchi, in Italia, purtroppo, disponiamo di una traduzione molto parziale del Diario scritto di notte, uscita da Feltrinelli nel 1992, quando in casa editrice lavorava Francesco Cataluccio, il polonista per il quale lo scrittore aveva un grande affetto, considerandolo alla stregua di un figlio adottivo.

 

Per di più si tratta di un’edizione ormai introvabile. Ma anche i racconti contenuti in Ritratto veneziano e in Don Ildebrando (entrambi pubblicati da Feltrinelli nel 1995 e nel 1999) non sono più circolanti. A questo si aggiunga che la chiusura de l’ancora del mediterraneo, la casa editrice napoletana che alla fine degli anni Novanta aveva “adottato” l’opera di Herling, ha significato la dispersione di titoli come L’isola (2003), La notte bianca dell’amore (2004) o Requiem per il campanaro (2002); o, ancora, le conversazioni raccolte in Variazioni sulle tenebre (2000) e Ricordare, raccontare (1999). E anche i dialoghi con Titti Marrone, prima pubblicati su “Il Mattino” e poi confluiti in Controluce (1995), sono finiti fuori catalogo. Ma per fortuna una nuova stagione editoriale sembra aprirsi in Italia per Herling e i suoi libri, visto che Mondadori ripubblicherà Un mondo a parte, primo tassello di un trittico che comprenderà altre opere.

 

Entrare nella stanza polacca di Gustavo non era facile; significava entrare in una relazione ardua ma necessaria. Ci si andava per imparare ad auscultare il Novecento e i suoi tormenti; e ci si andava per allargare i confini a volte angusti di una Napoli che, come ha raccontato Ermanno Rea, era stata quasi inconsapevolmente uno dei luoghi strategici della Guerra Fredda.

Dopo la caduta del Muro, Herling potè tornare più volte in Polonia, e disse che il suo esilio aveva avuto fine e che poteva accettare di buon grado la definizione di scrittore polacco-napoletano. Aveva sempre sperato che accadesse qualcosa del genere, ma non si trattava certo di un lieto fine. Le complicazioni di una nuova stagione della Storia erano da subito in agguato e lui se ne faceva lucido interprete, a cominciare da quelle del suo Paese.

Allo stesso tempo poteva riepilogare se stesso, congiungere gli sparsi frammenti della sua vita. Così, arieggiando il Contributo alla critica di me stesso di Benedetto Croce, in Breve racconto di me stesso (2001), un piccolo libro tradotto e curato egregiamente dalla figlia Marta, Herling mostra una netta e limpida collezione di immagini e di pensieri autobiografici.

Nell’elencare i suoi hobby preferiti, ad esempio, ricorda di aver adorato la pesca con l’amo e di essere stato un ottimo pescatore:

 

Possedevo una vera canna da pesca e mi piaceva moltissimo pescare nello stagno vicino alla nostra casa di Suchedniòw. Pescavo il pesce persico, il brocciolo, la carpa, il luccio (quest’ultimo ovviamente con l’esca viva). Era il mio hobby preferito, che mi è sempre mancato da quando mi sono trasferito in Italia. Mi sono anche chiesto se non avrei potuto mettere in pratica questa passione a Napoli, andando a pescare al mare, dal momento che lungo la via che costeggia il golfo si incontrano moltissimi pescatori. Più volte mi sono immaginato che durante le mie passeggiate quotidiane sarei potuto uscire con la lenza, ma avrei dovuto imparare ancora molte cose, da specialista di pesci d’acqua dolce quale sono, poiché naturalmente qui vi sono altre specie e bisogna trattarle in altro modo, con metodi di pesca diversi. Alla fine ho abbandonato questi progetti, quando mi sono reso conto che se avessi pescato un pesce di mare molto grande, avrei dovuto portarlo a casa tenendolo sollevato in alto.

 

Ecco sgusciar fuori da queste righe un apologo, che rivela fulmineamente come Herling abbia vissuto nella città partenopea, trasportando con sé la propria origine a noi remota e di difficile comprensione come la sua lingua e come sia riuscito infine ad alleggerire il tutto con l’aiuto dell’umorismo, facendosi di tanto in tanto una risata sonora, quella risata che gli si affacciava sul viso e finiva spesso con un colpo di tosse.

Il disincanto dello scrittore polacco-napoletano per il mondo contemporaneo si è sempre tenuto alla larga dal cinismo. Piuttosto, in grande consonanza con Nicola Chiaromonte e usando le sue stesse parole, ci si potrebbe spingere a parlare anche per lui di un “nihilismo positivo”, che renda possibile il discernimento tra “ciò che importa e ciò che non vale, per sperimentare infine di nuovo la differenza tra il falso e il vero”.

“La cultura non è il terreno della verità, ma della disputa intorno alla verità”, aveva scritto Chiaromonte, il grande amico italiano che in tempi difficili lo aveva accolto in “Tempo presente”. Ed Herling aveva pienamente condiviso.

 

Da il Mulino. Rivista bimestrale di cultura e politica, 5/17.

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