Speciale

Bergamo e Val Seriana / Medici: danza macabra in Lombardia

22 Giugno 2020

Il primo segnale di allarme sulla chat dei vecchi compagni di liceo è del 24 febbraio: è la foto di una mascherina 3M, accompagnata dall’augurio “in attesa di ATS”. La manda Olmo, medico di base dell’hinterland bergamasco. Nei giorni successivi i messaggi s’infittiscono e vi partecipano altri medici, anche ospedalieri; col tempo, su mia sollecitazione, mi verranno inviati via mail resoconti più dettagliati. Il materiale con cui è costruito questo articolo proviene quindi dalle testimonianze di amici dei primi anni ’70, diplomati insieme a me al Liceo Classico di Bergamo. 

A qualcuno magari verranno in mente le confraternite studentesche americane ma sarebbe fuori strada: nessun rituale di ingresso, nessun simbolo di appartenenza, nessuna pratica di lobbying fra vecchi sodali. A tenerci vicini in tutti questi anni una sola vera eredità: l’amicizia. Coltivata negli anni, legata alla condivisione di un tempo bello delle nostre vite e nutrita da un affetto profondo.

Anche per rispetto verso quel sentimento, quindi, nelle prossime righe attribuirò loro nomi di circostanza: occorre molta prudenza da quando è emersa l’odiosa abitudine di accusare di “infedeltà aziendale” il personale sanitario lombardo che nei mesi della pandemia ha rivolto appelli e scritto lettere per denunciare le durissime condizioni di lavoro loro imposte, oltre che la confusione e i ritardi delle direttive impartite. Io quei nomi li conosco bene ma non li farò mai. 

 

Bianca lavora nella rianimazione di un ospedale della provincia e il 5 marzo, di turno al Pronto Soccorso (PS), si trova ad affrontare per la prima volta la pratica del cut-off, fissato quel giorno a ottant’anni. Tradotto vuol dire che quel giorno non si potranno ammettere in terapia intensiva (TI) pazienti ultraottantenni, bisognerà selezionare. Nella shock room del PS ci sono tre possibili candidati per un solo posto disponibile in TI. “L’aria nella stanza è pesante, calda e umida: sotto il camice chirurgico, la mascherina FFP2 e i doppi guanti, dopo pochi minuti ci si inzuppa di sudore, si ha la sensazione di essere in un acquario e di respirare aria e virus. I rumori sono incessanti, gli allarmi, il sibilo dei gas, i telefoni che squillano, creano un sottofondo che rende difficile sentire le voci dei malati sotto i caschi. Mi tocca scegliere: mi sento come un marinaio sulla scialuppa del Titanic che gira intorno alla nave che sta affondando e deve scegliere chi far salire e chi lasciare annegare. Guardo i malati, li esamino, spero non capiscano cosa sto facendo, alla fine decido; ovviamente scelgo il più giovane. Siamo abituati a lavorare sul confine tra la vita e la morte e quasi sempre la decisione è collegiale e condivisa, ma in queste giornate spesso siamo stati soli a sparare nel buio”.

 

Olmo e Margherita, medici di base, il 15 marzo pubblicano un appello di tutti i medici di famiglia di Bergamo: “abbiamo bisogno di presidi di protezione individuale, camici mascherine occhiali guanti e soprascarpe”. L’emittente BGNews quello stesso giorno raccoglierà l’appello. Nella prima settimana di marzo hanno dovuto riorganizzare il lavoro, fra visite domiciliari e assistenza telefonica: “il numero di telefonate è impressionante, mentre parli con uno senti tre bip di chiamate e continua così mattino e pomeriggio. Tanti sono spaventati anche se con sintomi iniziali, per altri i sintomi sono già seri. Le telefonate si susseguono, non riesci quasi a pensare perché sono troppi i problemi e tutti insieme. Uno solo di quelli richiederebbe 10’ di riflessione ma non li hai dieci minuti per ciascuno”. Verso fine mese la situazione diventa drammatica; scrive Olmo: “giornate al telefono per monitorare pazienti che non rientrano nei bollettini quotidiani perché lasciati a casa con ossigeno o febbre da dieci giorni senza tampone. Molti anziani muoiono a casa perché inutile andare in ospedale”.

 

L’impatto col dolore è devastante, come racconta Olmo: “Il mio ricordo più penoso è quello di una madre che all'inizio della pandemia, nella fase convulsa in cui tutto stava per precipitare, perse il proprio figlio. Da allora si è rinchiusa in casa, pietrificata dal dolore, incapace persino di piangere, sospesa in un incubo senza fine”. Margherita ricorda “uno dei primi anziani che dopo l’antibiotico non aveva più febbre e però era stanco, allora pensi: per l’antibiotico? perché è ansioso? per cosa? Sempre più stanco ma senza febbre né tosse. Dopo qualche giorno che lo rassicuri finisce in ospedale: polmonite. Morto dopo 7 giorni. L’ho sulla coscienza, su di lui ho imparato: quando sono stanchi subito allarmarsi”.

 

 

Poi arriva il mese di aprile, il contagio comincia a calare: si fa strada l’ipotesi di allentare un po’ le restrizioni sanitarie, ma è troppo presto. Olmo e Margherita sono preoccupati: “assurdo allentare adesso le restrizioni quando iniziamo a vedere i benefici sui nuovi contagi. Corriamo il rischio di vanificare i sacrifici fatti, mi sembra un insulto a chi è morto o potrebbe morire; teniamo duro ancora un po’ e soprattutto facciamo i tamponi prima di rimettere in circolo gli asintomatici. La situazione è un po’ più tranquilla in generale ma ogni giorno muore qualcuno dei ricoverati”. Bianca ci aggiorna dall’ospedale: “PS vuoto, corridoi sgombri, sub intensive con posti liberi, TI piene (ci sono ancora pazienti entrati all’inizio di marzo), non più trasferimenti, gli ultimi sette li abbiamo mandati in Germania la settimana scorsa. Le cose stanno andando meglio”.

 

A quel punto, siamo a inizio maggio, inizia il tempo dell’indignazione. L’ATS di Bergamo affida ad un noto avvocato una consulenza per scoprire se ci sono state responsabilità dei medici di base. “Alla fine vedrai che la colpa sarà di noi medici… ci vuol nulla a passare da eroi a capro espiatorio nel magico mondo degli azzeccagarbugli” – chatta Olmo, che aggiunge: “come dimenticare il senso di abbandono che abbiamo vissuto, noi che in ordine sparso ci siamo dati linee guida, ci siamo procurati autonomamente DPI cercando di essere presenti comunque”. Bianca, dall’ospedale, ci informa che “dagli esami sierologici risulta che un quarto del personale è stato contagiato e molti di questi, in assenza di tamponi, hanno circolato a lungo in ospedale e fuori, a causa di una gestione del personale a dir poco opaca”. L’ultimo fronte delle recriminazioni nasce dalla cervellotica gestione del loop test sierologico/tampone/quarantena, nel quale noi lombardi valligiani siamo ancora oggi coinvolti. Riporto le voci di tutti in ordine sparso: “la Regione ha prolungato da 14 a 28 gg la quarantena per temporeggiare in attesa del tampone. Ho pazienti a casa da 40 giorni”; “ogni giorno arriva un nuovo applicativo per gestire la fase 2, peccato che nessuno risponda ai numeri indicati. Abbiamo la vaga sensazione che ci stiano prendendo per i fondelli”; “I parenti dei ricoverati a metà marzo hanno cominciato ad essere chiamati per fare i tamponi dopo due mesi…: sono stati in quarantena da allora?? forse sì, più facile no”; “Il 22 maggio ho segnalato un nuovo caso sospetto, ad oggi, 01 giugno, non è stato ancora chiamato per il tampone (da fare secondo ordinanza entro 24-48 ore)”.

 

A inizio giugno chiedo loro: qualche piccola gratificazione? Olmo: “ricordo diversi attestati di stima e riconoscimenti verbali, una confezione di cioccolatini, le telefonate dei pazienti che adesso mi chiedono come sto…”. Margherita invece racconta un episodio: “una mia paziente di mezza età mi telefona per la cognata che abita a Alzano, marito ricoverato, cognata messa male; il dottore non risponde, non sanno cosa fare, do qualche indicazione. Dopo un po’ mi richiama la paziente: hanno preso alla lettera tutto quanto hai detto e piangevano dalla gioia di avere qualcuno che li indirizzasse, finalmente hanno potuto parlare con un dottore! Nell’anno 2020 in Lombardia, Italia”.

 

 

La RSA di Clusone, che ha subito nei mesi della pandemia un aumento abnorme dei decessi, si trova a poche centinaia di metri dall’Oratorio dei Disciplini e dalla sua celebre Danza macabra. La prima volta che ne avevo sentito parlare ero al liceo: la professoressa Saibene di Storia dell’Arte ci stava addestrando a riconoscere l’arte attorno a noi, ad esempio negli affreschi dell’arte popolare sparsi in provincia; era molto brava e io invece ero molto stupido, a me interessavano solo il cinema, la storia e la letteratura, non avevo tempo da perdere io. E così nel 1972 riuscii nella dubbia impresa di farmi rimandare a settembre in storia dell’arte, il primo del mio liceo dopo tempo immemorabile. Ma la lezione diede i suoi frutti, anche se a distanza di parecchi anni. Da insegnante ho accompagnato spesso i miei studenti alla Danza Macabra, presso cui ho abitato e insegnato per più di trent’anni. 

 

Oggi, per tornare alla RSA e ai nonni dell’altopiano, la situazione è molto complicata: le visite dei familiari e gli accessi dei pazienti diurni sono sospesi, decine di famiglie sono in grave difficoltà. Nel frattempo stanno tornando i turisti delle seconde case, al mercato settimanale e nelle strade del centro si rivede un po’ di gente, ma la ripresa sarà lenta e le cose forse non saranno più come prima. Sono pochi i bar e i ristoranti che hanno riaperto la sera e dopo le dieci c’è parecchio silenzio.

Anche sulla chat dei miei compagni di liceo è calato il silenzio nelle ultime settimane, spero davvero che Bianca, Olmo e Margherita abbiano trovato il modo di riposare un po’. 

 

Anni fa, quando la nazione ricordava i 150 anni dell’Unità, avevo dedicato alcuni articoli (qui e qui) agli studenti del Liceo Paolo Sarpi di Bergamo che avevano partecipato all’avventura dei Mille e alla Resistenza antifascista. Ero così orgoglioso di avere studiato nella stessa scuola frequentata da quei ragazzi, tanto coraggiosi da rimanere fedeli ai propri sogni nelle condizioni più difficili. Chi avrebbe detto che quello stesso sentimento mi sarebbe stato regalato dai miei vecchi compagni diventati medici e capaci di continuare a fare il proprio mestiere anche nel buio più profondo della nostra storia recente. 

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