Palermo / “Tutto porto”, niente certo
“Non pare destituita di fondamento la spiegazione dal greco πᾶς ‘tutto’ e ὅρμος ‘ancoraggio’, cioè ‘ampio porto’”: la voce “Palermo” del Dizionario di toponomastica (UTET, Torino 1997, seconda edizione aggiornata) s’esprime con circospezione, quanto all’etimo del nome del capoluogo siciliano. A comporre tale voce fu Giovan Battista Pellegrini. Veneto, di studi padovani, Pellegrini aveva insegnato anche nell’università palermitana per un paio d’anni. Nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, vi aveva avuto la sua prima cattedra universitaria: Storia della lingua italiana. Aveva poi finito per insegnarvi anche Glottologia e discipline consimili. L’etimo in questione circola problematicamente da gran tempo. C’è chi l’ha tenuto come acquisto di salda conoscenza; c’è chi no. Menzionandolo, Pellegrini lo fa con cautela. ‘L’idea forse non è cattiva’: tipica sortita di un lessicografo che non vuole lasciare insoddisfatta la brama di vero (questo è l’etimo di “etimo”) di chi ne consulta l’opera e, esponendo ciò di cui dispone in proposito, s’impegna a garantirlo giusto quanto basta.
“Petramala”: sette secoli fa, Dante Alighieri chiamò così, con un nome parlante, la città di fantasia ai cui abitanti egli attribuì la sciocca credenza di essere al centro e all’origine (linguistica) del mondo. Evidentemente, non voleva equivoci neppure sotto la prospettiva etimologica, quanto alla sua opinione sopra un’attitudine siffatta che, in ogni Petramala, caratterizza soprattutto il ceto dotto.
Dante non ne disse, ma agli abitanti di una Petramala qualsiasi può anche capitare di trovare oltraggiosa la perdita di senso del nome della città che li alberga ed è “ipso facto” eminente. Può essere mai stato così evanescente, tale senso, da oscurarsi per il semplice scorrere del tempo? Ai dotti abitanti di Palermo è venuto in soccorso, in proposito, l’etimo di cui s’è detto. L’‘ampio porto’ di Pellegrini ne è un piccolo aggiustamento ermeneutico: l’etimologia consente e forse incoraggia pratiche siffatte. Alla vulgata locale basta un po’ di liceo classico per farsi “savante” e decretare con sicurezza: “Palermo”? ‘Tutto porto’, “sic et simpliciter”.
Fuori delle virgolette, Palermo è d’altra parte un luogo comune e non da oggi. È anche opinione comune che “Palermo sia un posto singolare [...] dove accadono cose imperdibili”: tempo fa e con acutezza, ne ha scritto qui Franco La Cecla, attribuendo la credenza a “salotti milanesi” attuali. Chi scrive non sa di tali salotti (non sa del resto dei salotti di nessuna Petramala). Non è del resto indispensabile saperne qualcosa, per rendersi conto di una circostanza socialmente macroscopica: permanendo come tali, i luoghi comuni sopra Palermo hanno solo cambiato di segno morale, in anni recenti. Se oggi ci fosse un Flaubert (ma oggi, in Italia, un Flaubert sarebbe possibile?), all’eventuale voce “Palermo”, un aggiornamento del “Dictionnaire des idées reçues” gli si imporrebbe.
A caratterizzare i luoghi comuni sopra Palermo era un dì la disforia. Oggi, è l’euforia. Che il mondo sia più euforico può solo rallegrare. Se l’euforia investe poi una nobile città italiana, il rallegramento, come Italiani, cresce. Non fino a spingere tuttavia chi vi partecipa appassionatamente a spregiare chi trova l’euforia esagerata, gettandogli addosso l’etichetta di “nimicu di la cuntintizza” (la “vague” camilleriana esime dalla glossa). Colorita e locale, essa è una variante del sempre truce “disfattista” e, se pare destinata a qualificare negativamente coloro cui viene attribuita, mette chi se ne serve in sospetto di ottusità reazionaria. Il celebre e ironico “e sempre allegri bisogna stare...” di Dario Fo è, al proposito, riflessione chiarificatrice e definitiva.
Alimentato da sentimenti euforici, il luogo comune non smette del resto di essere tale ed è più che dubbio che, a conti fatti, un luogo comune finisca per rendere un buon servigio tanto a chi ne è oggetto, quanto a chi ne è portatore (i due ruoli in commedia non è detto siano riempiti da persone distinte).
Oggi, la comunicazione pubblica non solo nazionale attesta che, insieme con folle anonime, molta gente nota e di cui si dice faccia opinione è impegnata in vorticosi e desultori giri per il capoluogo siciliano. A farle da mentore e guida, la migliore società intellettuale locale, nel clima euforico di cui s’è detto. Non sono i dotti di un tempo che fu, oltre che per ragioni anagrafiche, anche per via di mutamenti socio-culturali. Per esempio, sarebbe completamente inadeguata, oggi, una loro designazione che si servisse del solo maschile, come genere grammaticale.
Coi dotti d’un tempo, il ceto intellettuale della Palermo odierna partecipa tuttavia di qualche certezza, quanto alla sua Petramala. Altre non vale qui la pena di convocare, se non quella che concerne l’etimo di “Palermo”: ‘tutto porto’. La si vede occhieggiare adesso non di rado nella stampa nazionale e sono firme reputate a farsene aralde, segno che è fatta oggetto di conversazione nel corso delle visite in questione. Queste vanno del resto come, con realistica fantasia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa immaginò andasse la visita a villa Salina (peraltro, trasparente sineddoche della città) di uno “sveltissimo [generale] toscano sui trent’anni, chiacchierone e alquanto fanfaronesco” e del contino milanese Cavriaghi, un “pivellino di diciannove anni”, introdotti e accompagnati da Tancredi Falconeri. Con essi, Tancredi curava di “mostrare la propria intimità […]; intimità a base di «tu» e di «mio prode amico» reciproci”.
“Mutatis mutandis”, è così che oggi, tra un “tu” e un “mio/a prode amico/a”, l’etimo traballante si sta facendo doxa, non solo nazionale, per un processo di diffusione virale. S’afferma così una leggenda: che, nella profonda verità rivelata dal suo nome, sia “tutto porto” una città cui il mare che pure la bagna non ha ispirato grande trasporto, se non da quando se ne può fare una storia affidabile, certo da molti, molti secoli. Lo dice con la chiarezza delle cose concrete il suo sviluppo urbanistico.
Al mare, Palermo ha volto le spalle e non è detto che, così facendo, non si sia messa per se stessa in una posizione sconveniente. Ma ognuno è come è e anche le città, come le persone, hanno la loro indole, difficilmente mutabile.
Non basta. Chi ha interesse per il patrimonio siciliano dei nomi propri di luogo e di persona ha un’opera cui riferirsi, da venticinque anni a questa parte. Si tratta dei due poderosi volumi del Dizionario onomastico della Sicilia di Girolamo Caracausi (Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Palermo 1993). Successore di Pellegrini e di altri linguisti di vaglia, come Marcello Durante, romano di studi romani, e Riccardo Ambrosini, livornese di studi pisani, portati temporaneamente nel capoluogo siciliano dalle progressioni delle loro carriere accademiche, Caracausi, palermitano di studi palermitani, giunse maturo all’insegnamento universitario, sul principio degli anni Settanta del secolo scorso. Insegnò tuttavia Glottologia a Palermo per più di un ventennio. Fu uomo silenzioso e riservato. Quel dizionario non è la sola ragione per la quale gli si deve essere riconoscenti. Era studioso predisposto alla costruzione di affidabili repertori di conoscenza concepiti per durare e la sua operosità tranquilla lo orientava all’esercizio di un discernimento rigoroso: anche quanto alla parola, solo ciò che si rivela solido merita d’essere riferito e trasmesso. C’è naturalmente una voce dedicata a “Palermo” nel Dizionario di Caracausi. Tale voce rende conto della forma latina e greca del nome della città, delle evoluzioni e dei mutamenti che tale nome ebbe per via della mediazione araba e di altri accidenti.
Nel cuore di una delle sezioni del suo Palomar (Einaudi, Torino 1983), Italo Calvino pose la prosa “Serpenti e teschi”: qualcuno ne avrà memoria, tra chi, leggendo queste righe, ha avuto la pazienza di giungere fin qui. In visita tra le rovine di Tula, il signor Palomar è accompagnato da un dotto, “un amico messicano, conoscitore appassionato ed eloquente delle civiltà preispaniche”. Ascoltandolo, egli si fa la convinzione, peraltro banale quando ci si trova confrontati con ciò che è poco noto, che “nell’archeologia messicana ogni statua, ogni oggetto, ogni dettaglio di bassorilievo significa qualcosa che significa qualcosa che significa qualcosa che a sua volta significa qualcosa”. Nel corso della visita, i due si imbattono però in “una scolaresca: ragazzotti dai lineamenti di indios, forse discendenti dei costruttori di quei templi […]. I ragazzi sono guidati da un maestro non molto più alto di loro e appena più adulto, con la stessa tonda e ferma faccia bruna. Salgono gli alti gradini della piramide, si soffermano sotto le colonne, il maestro dice a che civiltà appartengono, a che secolo, in che pietra sono scolpite, poi conclude: «Non si sa cosa vogliono dire» e la scolaresca lo segue giù nella discesa. A ogni statua, a ogni figura scolpita su un bassorilievo o su una colonna il maestro fornisce alcuni dati di fatto e aggiunge invariabilmente: «Non si sa cosa vuol dire»”.
Il signor Palomar non può trattenersi dal fare un confronto tra le due attitudini intellettuali. E “quella che gli era parsa dapprincipio solo una sbrigativa mancanza d’interesse [da parte del maestro], gli si va rivelando come un’impostazione scientifica e pedagogica, una scelta di metodo di questo giovane grave e coscienzioso, una regola a cui non vuole derogare. Una pietra, una figura, un segno, una parola che ci arrivano isolati dal loro contesto sono solo quella pietra, quella figura, quel segno o parola: possiamo tentare di definirli, di descriverli in quanto tali, e basta; se oltre la faccia che presentano a noi essi hanno una faccia nascosta, a noi non è dato saperlo”. Come si sa, tocca nel séguito al signor Palomar e a Calvino di cercare un compromesso tra l’atteggiamento del dotto accompagnatore e quello del piccolo didatta né è il caso di seguirli nel tentativo della complessa mediazione. Qui s’è del resto ripresa l’immaginaria circostanza per chiarire, con la forza di un esempio prodotto dalla penna del lucidissimo Calvino, con quale spirito è composto il “Dizionario” di Caracausi e, nel suo quadro, la voce “Palermo”. Dati di fatto, precisazioni temporali riguardanti le attestazioni, rinvii bibliografici e nessuna interpretazione del toponimo: “Palermo” resta parola oscura. Nessun accenno all’‘ampio porto’, ancora meno a quel ‘tutto porto’ che, intorno a sé, Caracausi aveva sentito proferire chissà quante volte, senza mai venirne sufficientemente convinto a sollevarlo dal suo incerto statuto. Piccola ma sostanziale ragione per poter dire come, anche in questo, egli abbia ben meritato nei confronti della sua città, trattata col rispetto che, come Dante insegna, non si deve invece a una Petramala qualsiasi.
Ed è tutto. A Palermo, a molti pare roba preziosa, per definire e illustrare la città, un incerto etimo del suo nome, forse testimonianza di un’antica paretimologia, a rischio d’essere dunque una patacca tramandata da gente di scarsa fantasia. Gloriandosene, si propina tale etimo a ospiti di bocca buona, che poi si fanno belli del suo ulteriore commercio. In effetti, di “Palermo” sarebbe meglio dichiarare che “non si sa cosa vuol dire” e, del resto, al di là dei luoghi comuni ispirati dall’euforia o dalla disforia, non si sbaglierebbe a dichiararlo anche di Palermo, fuori delle virgolette. Nome o città, Palermo “non si sa cosa vuol dire”.
Comparso nel fascicolo 144 (dicembre 2018) di “Prometeo. Rivista trimestrale di scienza e storia”, sotto un titolo leggermente diverso e con un refuso in apertura.