“Piccole storie dal centro” / Shaun Tan, il sasso degli sguardi

3 Febbraio 2021

In Primavera, estate, autunno, inverno, e ancora primaverail regista Kim Ki-Duk, recentemente scomparso, mette in scena il ciclo delle stagioni e della vita – della via – per la saggezza. Sullo schermo guardiamo un bambino che viene affidato al Maestro (prima di divenire, un giorno, egli stesso un Maestro) mentre si diverte a maltrattare alcuni minuti animali. Cattura dapprima un pesce di piccola taglia, grande come una sua mano, gli lega attorno al corpo una corda sottile cui è appeso un sassolino e poi, ridendone, lo guarda tentare di riguadagnare il suo ambiente, nuotando ovviamente con estrema goffaggine. Il bambino poi fa lo stesso con altri due animali, una rana e un serpentello, e ancora li osserva divertito camminare, strisciare, fendere l’acqua con addosso quel peso. Il mattino seguente, al risveglio, il piccolo si ritrova con un masso legato alla sua schiena: il Maestro, che aveva osservato tutto, gli chiarisce che per purificarsi deve tornare da quegli animali e liberarli, sempre che siano ancora vivi. La lezione è eloquente e metaforica. Al termine del film, un secondo bambino è affidato al nuovo Maestro (il bambino inziale del film) che abita l’isola galleggiante nella foresta, e anche stavolta (“e ancora primavera…”) il bambino compie, nei confronti di quegli stessi piccoli animali, azioni offensive. Soltanto che, in quest’ultimo caso, l’infante usa un piccolo sasso per infilarlo nelle bocche del pesce, della rana e del serpentello.

 

Nel suo libro Sul guardare (Il Saggiatore, 2017) lo scrittore e critico d’arte John Berger scrive pagine memorabili circa il rapporto tra uomo e animale, un rapporto fondato unicamente “sul guardare”, sul guardarsi: in verità sono pagine d’introduzione alla riflessione sullo sguardo che è difficile riassumere per densità e chiarezza.

 

Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti. Quel medesimo animale può benissimo guardare nello stesso modo un’altra specie. Non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale. Gli altri animali sono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo. L’animale lo scruta attraverso uno stretto abisso di non-comprensione. Ecco perché l’uomo può sorprendere l’animale. Eppure anche l’animale – perfino se è domestico – può sorprendere l’uomo. Anche l’uomo guarda attraverso un abisso di non-comprensione simile, ma non identico. Ed è così ovunque egli guardi. L’uomo guarda sempre attraverso la propria ignoranza e la propria paura. Così, quando è visto dall’animale, è visto come ciò che lo circonda è visto da lui. È il fatto di riconoscerlo che gli rende familiare lo sguardo dell’animale. Eppure l’animale è diverso dall’uomo, e non può confondersi con lui. All’animale viene dunque ascritto un potere paragonabile a quello dell’uomo, ma che con esso non coincide mai. L’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo. La relazione uomo/animale può chiarirsi meglio se paragoniamo lo sguardo di un animale a quello di un altro uomo. Fra due uomini il duplice abisso che li separa viene, per definizione, colmato dal linguaggio. […]

La mancanza di un linguaggio comune, il silenzio dell’animale, garantisce la sua distanza, la sua diversità, la sua esclusione dall’uomo. Proprio in virtù di questa diversità, tuttavia, la vita di un animale, che non va mai confusa con quella di un uomo, corre parallela a quest’ultima. Solo nel momento della morte le due linee parallele convergono per incrociarsi, forse, e ridiventare in seguito parallele: da qui la diffusa credenza nella trasmigrazione delle anime. Con le loro vite parallele, gli animali offrono all’uomo una compagnia diversa da quella che può essergli offerta da un altro essere umano. Diversa, perché è una compagnia offerta alla solitudine dell’uomo come specie. Un tempo questa muta compagnia era a tal punto percepita come uno scambio alla pari, che spesso si credeva fosse l’uomo a mancare della capacità di parlare con gli animali; da qui le storie e le leggende di esseri eccezionali, come Orfeo, che riuscivano a conversare con gli animali nella loro stessa lingua.

[…] Gli animali facevano da intermediari fra l’uomo e le sue origini, perché erano simili a lui e allo stesso tempo diversi. Gli animali venivano da oltre orizzonte. Erano a casa laggiù e qui. Allo stesso modo, erano mortali e immortali. Il sangue di un animale scorreva come quello umano, ma la sua specie era imperitura e ogni leone era il Leone, ogni bue era il Bue. Questo – che forse è il primo dualismo esistenziale – si rifletteva nel modo di trattare gli animali. Essi erano soggiogati e venerati, nutriti e sacrificati.

[…] Fino al XIX secolo, tuttavia, l’antropomorfismo era parte integrante del rapporto tra uomo e animale ed era un’espressione della loro prossimità. Esso era la rimanenza dell’uso ininterrotto della metafora animale. Negli ultimi due secoli, gli animali sono a poco a poco scomparsi. Oggi viviamo senza di loro. E in questa nuova solitudine, l’antropomorfismo ci mette doppiamente a disagio (p. 20). […] L’ideologia sottesa è chiara: a essere osservati sono sempre gli animali. Il fatto che essi possano osservare noi ha perso ogni importanza. Gli animali sono l’oggetto del nostro sapere in costante ampliamento. Ciò che scopriamo di loro è un indice del nostro potere, e dunque un indice di ciò che ci separa da loro. Più li conosciamo, più sono distanti. È questa la conseguenza estrema della loro marginalizzazione. Quello sguardo fra animale e uomo, che potrebbe aver giocato un ruolo cruciale nello sviluppo della società umana e con il quale, in ogni caso, tutti gli uomini hanno convissuto fino a meno di un secolo fa, si è estinto (p. 33).

 

 

Nella sua ultima opera, Piccole storie dal centro (Tunuè, 2020) Shaun Tan ha rimesso al centro questo sguardo di cui parla meravigliosamente Berger come Kim Ki-Duk aveva posto al centro della sua pellicola e della sua poetica la metafora e il rapporto uomo-animale. Metafora nella metafora è, nel film del regista sudcoreano, il sassolino che il bambino prima lega agli animali, poi infila nella loro bocca. Quella pietruzza è il linguaggio. Il linguaggio dapprima come peso: cosa ci sarebbe di divertente nel guardare un piccolo animale spostarsi a fatica per via di un peso? Se qual bambino avesse fatto lo stesso a un suo coetaneo, ad un uomo, la scena sarebbe stata per lui ugualmente divertente? Probabilmente no. Il bambino ha legato ai corpicini del pesce, della rana e del serpentello la parola, il linguaggio. Ride perché li vede per la prima volta non tanto parlare, ma provare a farlo, dunque balbettare, proprio come a fatica si muovono strisciano nuotano. Si diverte come si divertirebbe ascoltando una storia il cui il protagonista è un animale che emette suoni, che parla, che dice. Non è allora un caso che si passi dal sasso legato al corpo al sasso infilato in bocca: il passo ulteriore è provare a ficcare direttamente in bocca all’animale la parola, il linguaggio. Il bambino ha uno sguardo differente nei confronti degli animali perché questo ancora differisce da quello che sarà il suo sguardo di uomo, potremmo dirlo ancora, in un certo senso, “primitivo” (Berger scrive nel suo saggio che i bambini, almeno per un primo breve periodo, sono “diversi” dai padroni di certi animali domestici, di cui dice assai malamente). Il bambino non è ancora consapevole di se stesso, non sa guardarsi, per questo non può riconoscersi attraverso lo sguardo sull’animale. 

 

In Piccole storie dal centro Shaun Tan ha illustrato questo “sguardare”, questa forma primitiva del guardare in tralice che va affinata, in un certo senso (anche culturalmente) educata. L’autore noto per le sue periferie, per i suoi spazi vuoti, per il capolavoro di The arrival, corre adesso al centro, arriva in centro, chiude il centro. Ci infila in bocca il sasso degli sguardi, gli occhi di questi animali che abbiamo marginalizzato, che vediamo ma non guardiamo, ci chiede di riprendere questo rapporto oculare. Sembra aver dato corpo alle immagini che abbiamo visto sugli schermi durante il lockdown: animali che si riprendevano le città, le giungle d’asfalto, i boschi di luce elettrica. In Tan si fanno largo cervi che osservano lo skyline della città dal vetro di un grattacielo, squali che divorano metropoli e metropolitani, farfalle che invadono a miliardi una giornata umana, gigantesche lumache che si accoppiano per strada, rane nei consigli d’amministrazione, pecore sui banchi di scuola, rinoceronti sulle autostrade. E al centro i cani, i migliori amici dell’uomo, gli unici che nella narrazione di Tan sembrano quasi essere al loro posto. Ma si tratta di cani che ricambiano lo sguardo dell’uomo e poi si voltano, infine ritornano.

 

Al centro li divide una strada, uno spazio, un fiume, il tempo che scorre ma non più parallelamente. Lo sguardo che fatica a mirare. «Cercammo di non guardare quel grande occhio senza palpebre», scrive Tan a proposito del pesce luminescente sopra le antenne paraboliche. Invece «Il maiale non piange o non fa molto rumore, ma forse i maiali soffrono in una maniera che non conosciamo. Chi può dire con certezza cosa prova un altro animale? Papà ci dice di smetterla di fissarlo se ci dà così tanto fastidio». Il privilegio di vivere con un pappagallo, racconta Tan, forse il privilegio dell’unico animale che “sa parlare”, che sa pronunciare i nostri stessi fonemi. «Dietro quegli occhietti volubili che fissano così intensamente il sole di mezzogiorno senza sussultare, scatta un’aritmetica primordiale che non concede accesso». Un gufo arriva in una sala d’aspetto, si poggia sul ferro del letto: «Ascolto quello che mi dicono e cerco di non guardare». Lo sguardo che atterrisce, l’impossibilità di dire il guardare: «Cercammo parole che non esistevano, chiedendoci perché ne avevamo così disperatamente bisogno. […] La spiegazione è un lusso che non ci possiamo permettere e alla realtà non interessa». 

 

A sfogliare (leggere o guardare?) questo volume di Shaun Tan resta solo una considerazione: è l’opera con maggiore predominanza testuale dell’autore pluripremiato (The Arrival era completamente privo di parole). Uno dei più attenti studiosi dell’opera di Tan è Martino Negri, docente di “Letteratura per l’Infanzia” all’Università degli Studi di Milano Bicocca, che aveva sottolineato di Piccole storie di periferia proprio le qualità letterarie di Tan, la cui scrittura risulta «caratterizzata da quell’economia narrativa che Calvino apprezzava nella tradizione fiabesca» (Dai margini della coscienza: i racconti illustrati di Shaun Tan, in “Hamelin”, Anno VIII n. 22, marzo 2009, p. 80). Ma con Piccole storie dal centro Tan, che è principalmente un “artista visivo”, sembra essersi voluto spingere oltre, o spingere altro, aver voluto spingere la dimensione verbale nella bocca delle immagini.

 

Ma è il testo che illustra le illustrazioni, giocoforza: non accade mai il contrario perché anche nella narrazione scritta, rispetto a quella visiva, Tan sembra rincorrere le sue visioni, e sono echi di icone, visioni di immagini, sono metafore che la sua mente irrimediabilmente traduce prima in disegni che in segni. Forse è una considerazione filosofico-ermeneutica legata alle questioni del visivo che poco importerà ai lettori: e magari già così, chiamandoli lettori, li abbiamo “condannati” a leggere. Leggere per guardare o guardare per leggere? Cosa viene prima? È un po’ come la vicenda della natura dell’uovo e della gallina, come scrive Daniele Barbieri in Guardare e leggere: «Persino nel guardare più lontano dal leggere si insinuano atteggiamenti che hanno origine dal leggere. Ma il leggere si ritrova a sua volta, spesso, contaminato dal guardare». Anche Shaun Tan, resta dunque, insolvibile, come la sua materia: il colore, l’occhio del disegno. Mentre ci infila quel sasso in bocca per vedere se ancora riusciamo a parlare con questo peso in gola di visioni.

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