Eco e l'effetto Aleph
Perché riprendere in mano un libro scritto mezzo secolo fa su temi che cambiano continuamente e che, come riconosceva già allora il suo autore, bisognerebbe riscrivere ogni settimana (“fare una teoria delle comunicazioni di massa è come fare la teoria di giovedì prossimo”)?
Il motivo più evidente è che la contrapposizione manichea tra apocalittici e integrati, bersaglio polemico centrato da quel titolo diventato un'icona, non è affatto datata, perché è un idealtipo che attraversa le epoche, anzi vive proprio sulla cresta dell'onda del mutamento. E oggi che le onde sono più grandi e veloci, molta più schiuma si forma sulla loro cresta.
“Ci vorrebbe un Benjamin!”, ha commentato Umberto Eco durante la tavola rotonda organizzata a Bologna per celebrare il mezzo secolo del suo libro, dopo aver accennato all'intricatissima situazione dell'odierno mediascape dominato dal Web.
Questo riferimento al grande “cacciatore di perle” (copyright Hannah Arendt) che catturava frammenti preziosi (di passato) per farne nascere nuove forme (di futuro), mi offre il destro per suggerire un altro motivo per cui vale la pena di riprendere in mano questo vecchio libro.
Riguarda un aspetto del metodo o dello stile intellettuale di Eco; o meglio, un suo tipico gesto che lo accomuna a Benjamin e che propongo di chiamare “effetto Aleph”.
Nel celebre racconto di Borges, il protagonista, scivolando sulla scala della cantina, si trova casualmente davanti agli occhi, in quel luogo umile e banale, un punto scintillante dal quale, guardando con attenzione, si riesce a vedere tutto il mondo. Ecco: il gesto di Eco è quello di chinarsi a guardare un aspetto apparentemente umile e banale della nostra cantina quotidiana e farne un Aleph che ci fa vedere o intravvedere un mondo, una porzione molto più vasta e interessante della cultura in cui viviamo.
Questo è anche uno dei motivi che contribuì al successo di scandalo del libro, soprattutto nel contesto provinciale della cultura italiana. Infatti allora molti apocalittici interpretarono il gesto come un sacrilegio che contaminava l'alto e il basso, la Cultura con le carabattole della sottocultura massmediatica. In realtà, alla radice di questo gesto non c'è soltanto la critica delle gerarchie culturali, c'è anche un principio fondamentale della concezione semiotica che Eco avrebbe in seguito sviluppato (e che in quel libro mostrava qualche abbozzo embrionale): il mondo di segni e significati in cui siamo immersi non è fatto come un albero o una radice, con le sue ramificazioni gerarchiche e genealogiche; ma come un rizoma. Il celebre concetto fabbricato da Deleuze e Guattari è quello che meglio rappresenta il funzionamento della cultura; tanto che Eco, nonostante la grande distanza che lo separa dal pensiero e dallo stile deleuziano, lo ha più volte adottato, spiegandolo così: un rizoma connette un punto qualsiasi con qualsiasi altro punto, non ha centro, non è gerarchico, non è genealogico come una radice, può essere spezzato in qualsiasi punto e riprendere seguendo la propria linea; è smontabile, rovesciabile e in linea di principio non ha né inizio né fine.
Dunque, persino un punto apparentemente umile e banale come un fumetto, una canzonetta o un programma tv, non solo può essere collegato a porzioni molto diverse e intricate del grande groviglio della cultura, ma così facendo ci permette di capire meglio il groviglio stesso. Naturalmente, per far questo, oltre al piacere (“non puoi parlare del juke box se ti fa schifo infilarci la monetina”), ci vuole acribia, intelligenza e lavoro. Come dice Gianfranco Marrone: “Per studiare la cultura di massa e i suoi media bisogna arretrare lo sguardo, e andare in cerca non delle verità dell’ultimo momento, delle variazioni di superficie delle cose e delle idee, (…) ma degli schemi invarianti”. Completando la metafora topologica, aggiungerei che Eco ci ha insegnato un doppio movimento: bisogna prima avvicinare lo sguardo a un dettaglio e poi arretrarlo per stabilire le connessioni e com-prenderlo in un reticolo di rimandi tra nodi, anche molto lontani, del groviglio rizomatico.
Nel racconto di Borges è il caso, uno scivolone, che avvicina lo sguardo all'Aleph. Per Eco è la curiosità dell'intelligenza; e quel gusto eclettico, forse un po' schizofrenico, che gli permetteva di apprezzare Aristotele e Superman, Joyce e Charlie Brown.
Oggi noi sappiamo che questa salutare schizofrenia è la nostra normalità: come le “sirene stilematiche” del Kitsch, tutti noi siamo, in modi e in misure diverse, un bricolage di alto e basso, superficie e profondità, piaceri semplici e degustazioni raffinate. Questo però non significa che dobbiamo arrenderci alla deriva dell'“anything goes” e abdicare a una critica che si sforzi di distinguere tra buone idee e fuffa “che si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze”. Si può ancora fare?
Ci vuole intelligenza, lavoro e capacità di connettere nodi del rizoma, come ha cominciato a mostrarci Umberto Eco cinquant'anni fa. Ci vuole quell'agilità nell'avvicinare e arretrare lo sguardo capace di trasformare una vignetta di Charlie Brown in un Aleph.