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Virus, fine del mondo e sensi di colpa / Pandemie in tv e al cinema
Quando la nave di Nosferatu, spettrale e ormai senza più un’anima a bordo, giunge a Wismar, città tedesca sul Baltico, trasporta due cose: un oscuro potere e la peste. Il vampiro caccia la propria preda, i topi diffondono il contagio, finché la città appare più morta che viva. In ogni momento una cosa è chiara allo spettatore: il mostro e la sua pestilenza sono il male, venuto a tormentarci. Contro quel male si lotta: per resistergli, o vincerlo. O a quel male si soccombe, vinti. Neppure per un attimo ci sfiora l’idea che quel flagello sia una punizione; tantomeno una punizione che ci siamo meritati. Un secolo dopo (il primo Nosferatu, di Murnau, è del 1922) continuiamo a raccontare il contagio, spesso e con entusiasmo e non solo nelle settimane del Coronavirus. Ma lo facciamo, sempre di più, all’ombra di un malcelato e crescente sentimento di colpa.
Veniamo ai giorni nostri. E contempliamo in primis lo schermo che oggi più capillarmente, trasversalmente, profondamente racchiude e racconta paure e desideri, pulsioni e tensioni della nostra epoca: quello televisivo. Segnatamente quello delle serie tv, la formidabile macchina per la produzione e assimilazione di contenuti che ha progressivamente conquistato non solo una piena centralità in termini di pubblico, ma anche – cosa meno scontata – di appetibilità artistica e riconoscimento critico. Se la serialità televisiva, vera letteratura popolare del nostro tempo, è lo specchio in cui più chiaramente possiamo veder riflessa l’immagine della società, sarà interessante indagare come racconti lo spauracchio del contagio. E, soprattutto, come lo racconti in termini morali – dando per acquisita la predisposizione della narrativa pop al ricorso a formule facilmente decodificabili dal pubblico.
La produzione più recente è Pandemia Globale (Pandemic: How to Prevent an Outbreak, 2020): docuserie in 6 parti appena distribuita da Netflix con eccezionale tempismo, che ci racconta con tono fortunatamente pacato e anti-spettacolare le figure di scienziati, ricercatori e medici che combattono le epidemie in giro per il mondo. La più antica è Survivors (1975): serie inglese targata BBC che, quasi mezzo secolo fa, mise in scena la battaglia per la sopravvivenza dei pochissimi superstiti alla diffusione globale di un mortale virus diffuso accidentalmente da uno scienziato cinese. Cinese!
Come il cinema, anche la televisione ha lungamente flirtato con l’apocalisse. O meglio ancora con gli scenari post-apocalittici, quelli che giocano con una semplice e disturbante idea: e se il nostro mondo, il mondo come lo conosciamo, venisse spazzato via? Di colpo: la civiltà, la società, la cultura, le istituzioni umane e politiche - tutto spazzato via. Il tema è dark, certo, ma nondimeno - o forse proprio per questo - fascinoso e popolare: come giustificare altrimenti una vera e propria inflazione di show che negli ultimi anni hanno portato sul piccolo schermo, e quindi nelle case di tutti noi, il terribile incubo della fine del mondo?
La panoramica è ricchissima, anche escludendo dal conteggio serie di genere più spiccatamente horror e in cui la causa prima o il motore del contagio siano non agenti patogeni ma mostri di varia natura. Ne cito due, recenti. L’intrigante ma discontinua The Strain (2014-2017), creata da Guillermo Del Toro, il regista messicano premio Oscar per La forma dell’acqua (2017), prodotta da FX e in Italia distribuita da Sky. La trama: quando a New York atterra un aereo i cui passeggeri sono quasi tutti morti, un epidemiologo indaga. Scoprirà che a diffondere il morbo che trasforma gli esseri umani in mostri simili-vampiri è un antico male, e lo combatterà assieme a un vecchio rifugiato dell’Europa dell’Est. E poi la brutta V Wars, distribuita da Netflix a fine 2019: anche qui, un’infezione muta gli umani in creature assetate di sangue, che iniziano a organizzarsi per contendere alla nostra specie il posto in cima alla catena alimentare. In entrambe le serie è interessante notare come la propagazione del vampirismo sia del tutto assimilata alla diffusione di un’epidemia; e che a combatterla siano non dei classici eroi d’azione ma degli scienziati – naturalmente a un certo punto costretti a sporcarsi le mani.
Ha per protagonisti dei mostri, fin dal titolo, ma appartiene invece a pieno diritto al catalogo degli show che ci interessa esaminare il corpus, tutto prodotto dall’americana AMC ma in Italia distribuito da piattaforme diverse, formato da The Walking Dead (dal 2010, su Sky) e i suoi spinoff Fear The Walking Dead (dal 2015, su Amazon Prime Video) e l’imminente The Walking Dead: World Beyond. La società umana è travolta dall’improvvisa apparizione e inarrestabile moltiplicazione dei “morti che camminano” del titolo: gruppi di sopravvissuti lottano per la propria vita, giungendo a scoprire che non meno pericolosi dei revenants sono gli altri esseri umani, regrediti a una filosofia da stato di natura hobbesiano. Ci sono gli zombi, è vero, ma alla base di tutto e prima di tutto c’è la diffusione di un contagio che ha infettato i viventi, condannandoli a un ritorno post-mortem nel segno di un famelico e bramoso vagare. Un contagio a cui nessuno è immune, come si scopre nel drammatico finale della prima stagione, ambientato non per caso in ciò che resta del CDC, il mitico Centro per il controllo delle malattie infettive di Atlanta.
Passando in rassegna rapidamente le molte serie che in modo ancora più pertinente mettono al centro proprio quello scenario epidemiologico che di recente agita i nostri sonni, possiamo identificare due macro-gruppi. Dividiamoli sulla base di dove collocano il focus del proprio interesse: i tentativi di gestione del contagio da un lato; dall’altro, la sopravvivenza in un mondo post-apocalittico figlio del fallimento nel contenere la pandemia.
Il primo gruppo è particolarmente numeroso, e, in campo cinematografico, trova una sorta di capostipite moderno in Outbreak (in italiano Virus Letale), film di Wolfgang Petersen del 1995 con Dustin Hoffman, Donald Sutherland, Morgan Freeman, Kevin Spacey. Un cast stellare per mettere in scena i dilemmi etici che sorgono, anche in seno all’esercito, quando la quarantena a una cittadina americana in cui si è acceso un focolaio virale tipo Ebola non sembra bastare, e la sua distruzione appare l’unica strada razionale. Cast ancora più impressionante in Contagion (2011) di Steven Soderbergh, film molto bello e che citiamo pur differenziandosi dal registro popolare che qui stiamo indagando: Marion Cotillard, Matt Damon, Laurence Fishburne, Jude Law, Gwyneth Paltrow, Kate Winslet e Bryan Cranston mettono in scena l'insorgere da Oriente di una pandemia e la lotta per controllarla. In una prospettiva corale che dà voce non solo a medici, ricercatori, apparati securitari ma anche a giornalisti, vittime, involontari untori, e che mostra – in un finale beffardo – quanto sia facile appiccare l’incendio virale.
Planiamo ora sull’universo televisivo. Serrata, morigerata e convincente è una serie di recentissima distribuzione, The Hot Zone - Area di contagio (prodotta da National Geographic Channel e in Italia visibile su Sky), basata sullo sforzo militare e civile per contrastare la diffusione in America di un virus che qui è proprio il caro vecchio Ebola. Appena più vecchia è Helix (2014-2015), che segue un gruppo di scienziati del CDC nel tentativo di comprendere e combattere un agente patogeno che dall’Artico minaccia il mondo. Ad Atlanta, sede di quel Centro per il controllo delle malattie infettive che ricorre ormai con almeno altrettanta frequenza di quanto faccia in ambito criminologico l’inflazionata Unità di scienze comportamentali dell’FBI, è ambientata Containment (2016), serie statunitense ispirata a uno show belga di due anni prima, Cordon: qua al centro della narrazione troviamo, più ancora dell’epidemia, la quarantena in cui la città viene posta. Un tema che ha fatto molto parlare di sé, nelle prime settimane del 2020, per l’inedito e monumentale sforzo di isolamento messo in campo dal governo di Pechino. Appartengono allo stesso filone, ancora, la canadese ReGenesis (2004-2008), più attenta ad implicazioni etiche e socio-politiche, incentrata com’è su un team di scienziati che affronta misteriose malattie, minacce bioterroristiche, mutamenti ambientali; e la sudcoreana e serrata The Virus (2013), che vede un team medico fronteggiare la minaccia di un agente patogeno fulmineo e con un tasso di mortalità del 100%, lottando per arginare l’infezione prima che stermini l’umanità.
Del secondo gruppo (show che raccontano il mondo dopo la pandemia) fa parte ovviamente il già citato franchise di The Walking Dead, che da solo occupa uno spazio di grande rilievo del panorama massmediatico dell’ultima decade, essendo nato come fumetto, cresciuto come serie tv con due spinoff e persino tre film in produzione, e dilagato nel mondo del videogame. E così alcune altre serie.
Si può sentire un’eco de Il signore delle mosche nell’americana Jeremiah (2002-2004), con il popolare Luke Perry. Quindici anni dopo un’epidemia letale che ha sterminato quasi tutti gli umani sopra l’età della pubertà, i giovani sono chiamati a reimmaginare strutture sociali spazzate via dalla scomparsa degli adulti. E a combattere ciò che resta del vecchio apparato politico-militare che, protetto dai bunker del Valhalla Sector, si è mutato in un regime tirannico e aggressivo. Nel 1994 fu una delusione ma quest’anno si appresta a tornare sugli schermi, con un livello produttivo che fa ben sperare, The Stand, traduzione in immagini del bel romanzo di Stephen King (in italiano, L’ombra dello scorpione). Qui, i pochi sopravvissuti a un virus sfuggito a un laboratorio militare sepolto nei deserti della California si dividono in due fazioni, guidate da figure di leader molto diversi. Daranno vita a due comunità, una tirannica e tecno-scientista e l’altra democratica e inclusiva, inevitabilmente destinate a uno scontro escatologico, di forte matrice cristiana (secondo i classici schemi del Bene contro il Male e della Luce contro l’Oscurità). Curiosa, e a modo suo interessante, la premessa di The Last Ship (2014-2018): una nave militare americana, sopravvissuta a un’epidemia che ha sterminato gran parte dell’umanità, deve cercare una cura, continuando a navigare per i sette mari; mentre ciò che resta degli Stati Uniti cerca faticosamente di ricostruire un ordine.
Fa un po’ categoria a sé, infine, 12 Monkeys (Netflix, 2015-2018), serie che riadatta il visionario e omonimo film di Terry Gilliam del 1995 (a sua volta liberamente ispirato al cortometraggio La jetée di Chris Marker). Da un futuro che ha visto la quasi totale estinzione della specie umana, un improbabile eroe viene inviato fino ai giorni nostri, con la missione di prevenire la diffusione di un virus letale da parte di una misteriosa organizzazione. I paradossi del viaggio nel tempo fanno sì che lo show racconti, insieme, tanto un mondo che ha subito le conseguenze della pandemia quanto i tentativi di impedirla.
Ma c’è qualcosa di più che si può leggere in filigrana nelle trasformazioni di una stessa – apparentemente monotona – materia narrativa. Perché, come dicevamo all’inizio, se la storia è bene o male sempre quella, così non è per la sua morale.
Guardiamo a questa abbondantissima produzione di pop culture, e poniamoci una domanda: quanta parte di colpa viene assegnata all’essere umano su cui ciascuna di queste catastrofi narrative si abbatte? Quanto possiamo dirci innocenti – o quantomeno causalmente estranei! – rispetto alla genesi o alla diffusione di tutte queste pestilenze di fantasia che dal piccolo schermo turbano il nostro immaginario e interpellano le nostre coscienze, sempre più spesso mescolandosi agli allarmi reali di reali emergenze sanitarie (Coronavirus, SARS, AIDS, morbo della mucca pazza…)?
Potremmo distinguere, un po’ scherzosamente, tre diversi gradi di “colpa”: è proprio colpa nostra; è indirettamente colpa nostra; se anche non è colpa nostra, ce lo siamo meritato.
Il primo grado confessa: è proprio colpa nostra. Il flagello l’abbiamo creato e diffuso noi, non importa come: esperimenti scientifici tracotanti, laboratori di ricerca compromessi, ciniche operazioni militari, multinazionali farmaceutiche senza scrupoli… Appartengono a questa categoria serie che abbiamo già raccontato, come Survivors, The Stand, 12 Monkeys, così come la sovrabbondante e fortunatissima saga cinematografica e prima ancora videoludica di Resident Evil, tutta incentrata su un’eroina (nei film interpretata con molta convinzione da Milla Jovovich) che porta su di sé le stimmate delle manipolazioni genetiche ordite dalla spietata Umbrella Corporation, causa della distruzione dell’umanità e della creazione di mostri indicibili.
Il secondo grado ammette: sì, è – almeno indirettamente – colpa nostra. L’epidemia, seppur non creata materialmente dall’uomo, è conseguenza di un turbamento dell’equilibrio del mondo: come nel film The Happening (in italiano, E venne il giorno, 2008), scritto e diretto da M. Night Shyamalan (Il sesto senso, Unbreakable), in cui la natura letteralmente si ribella alla condotta umana cercando di avvelenare il parassitario Homo sapiens. O è comunque frutto di un fallimento gestionale spesso causato da un desiderio di sfruttamento delle potenzialità del patogeno per finalità economiche o politico-militari: i già citati Outbreak, The Hot Zone, Helix, e la recente The Passage (2019), giustamente cancellata dopo una sola stagione ma proprio quando ci si poteva iniziare a divertire, con la fuga dal solito laboratorio militare segreto dei mostri-vampiri creati dall’esposizione a un misterioso virus e la conseguente devastazione del mondo.
Il terzo grado (non è colpa nostra, ma ce lo siamo meritati) è ancora più sottilmente interessante e rivelatore di una tendenza psicologica di massa. Non siamo stati noi a creare o causare il virus. E neppure la sua diffusione ci è imputabile. È successo, e basta. Siamo innocenti, quindi? Neanche per idea, come il mondo post apocalittico si incarica di chiarire in modo inequivocabile. In See, serie pubblicata a fine 2019 dalla nuova piattaforma di streaming Apple TV+, si racconta di un’umanità che, secoli dopo la diffusione di un virus che ha privato tutti della vista, è tornata a comunità primitive e largamente pretecnologiche. Ma nelle quali, in paradosso, la privazione è vista come una benedizione: l’uomo di prima era malvagio, l’arroganza della civiltà del sapere ci aveva portati al disastro. Si sta meglio, in fondo, così: il che fa del virus un agente quasi morale.
Procedendo in un senso del tutto diverso, il mastodontico franchise The Walking Dead costruisce una caratterizzazione altrettanto negativa e pessimistica dell’umanità attuale. Raccontandoci un mondo in cui, poco a poco, siamo costretti a riconoscere che i mostri non sono cattivi e i protagonisti non sono buoni. Pur terrificanti, gli zombi vagano sotto il dominio dell’unico istinto loro rimasto, un’insaziabile brama di carne: sono un nemico, certo, eppure non hanno colpa morale per ciò che sono diventati. Ma che giustificazione hanno i supposti “buoni”, gli esseri umani – cioè noi? In questa popolarissima saga, giunta alla decima stagione, nessuno è davvero capace di astenersi dal male. In un mondo in cui le strutture sociali sono collassate è l’uomo, più ancora del mostro o del virus, a fare paura.
Torniamo ora a Nosferatu, e a quella nave spettrale che nel 1922 viene fissata in pellicola da Murnau. Pochi anni prima, nel 1909, dall’altra parte dell’Atlantico, un’altra nave si accinge ad approdare in America. Anche questa trasporta un oscuro potere e un contagio. E due passeggeri illustri: Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Il padre della psicoanalisi stuzzica l’allievo: “Non sanno che portiamo loro la peste”.
È il grande tema dell’introiezione del male, che, spinto all’eccesso paranoico, porta con sé una moralizzazione del principio di causalità: le sciagure del mondo non accadono seguendo ragioni esterne, magari imperscrutabili, a volte casuali; se accadono è “per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. Colpa individuale. O collettiva, sociale, culturale. Ma comunque come reazione, o conseguenza, o punizione per una violazione dell’ordine che essendo colpevole merita appunto un castigo.
Una traiettoria moralistica, perfettamente in linea con i codici largamente “bassi”, popolari, della produzione televisiva di consumo. E perfettamente esemplificata dalla curiosa, rivelatrice parabola metacinematografica di Ken Foree, attore che appare tanto nel leggendario Dawn of the Dead di George Romero (1978), consacrazione in chiave di critica sociale del sottogenere zombi canonizzato dal regista americano, quanto nel remake omonimo firmato nel 2004 da Zack Snyder. Nel film originale l’attore è uno dei sopravvissuti all’epidemia, barricato in un centro commerciale assediato dai morti viventi: la loro genesi è ignota, ma per coazione a ripetere tornano nei luoghi che erano abituati a frequentare in vita. Nel remake, un quarto di secolo dopo, Foree appare nei panni del fosco telepredicatore che con malcelata soddisfazione inchioda l’umanità, e lo spettatore, alle proprie responsabilità: gli zombi non sono capitati per caso, ma per colpa nostra. “L’inferno trabocca. E Satana ci manda i suoi morti. Perché? Perché fate sesso fuori dal matrimonio, uccidete bambini non nati, avete relazioni e matrimoni omosessuali. Come pensate che il vostro Dio vi giudicherà? Beh, amici, adesso lo sappiamo. Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra”.
Neppure di una pandemia, ci dice la cultura popolare del nostro tempo in un formidabile autodafé di massa, possiamo insomma dirci innocenti.