Astori, amanti torturati
Pagine e pagine sono state dedicate agli animali, dai più domestici ai più lontani dalle abitudini umane. I gatti di Colette, i cani di London, le balene di Melville, i pappagalli di Flaubert, i lupi di Hesse e magari di topi di Böll. Sarebbe infatti esercizio fin troppo facile associare ad ogni scrittore il suo animale, il suo correlativo oggettivo, il suo daimon come racconta Philip Pullman nella trilogia della Bussola d'oro. Un riferimento, non a caso, importante nell'immaginario di Helen Mcdonald, naturalista, storica e poetessa che nel 2014 ha pubblicato un libro decisamente eccentrico rispetto alla tradizione dove giocoforza andrebbe inserito. In Inghilterra è stato premiatissimo, adorato, forse perché altri autori come Richard Mabey, a cui si deve lo straordinario Natura come cura, hanno inaugurato la strada dell'osservazione naturale come possibile alternativa allo scandaglio dell'io. In Italia, purtroppo, questo è ancora al di là da venire, abituati come siamo a considerare lo stato di natura come eden primigenio a cui tornare. Abbiamo i nostri Tiziano Fratus o Mauro Corona, cantori di un tempo perduto, privi di qualsiasi nozione scientifica a riempire i vuoti, a incantare con improbabili richiami moralistici al ritorno a una dimensione di purezza naturale.
Einaudi ha tradotto H is for Hawk e speriamo che Mcdonald possa spazzar via tutta la pseudo fiction sulle facoltà terapeutiche della cura dell'orto o sui salvifici effetti della coltivazione di vigne e giardini. Questo è un libro che si muove su tre poli, una donna, un uomo morto e un falco. Come i tre punti si leghino insieme è il senso del romanzo. La donna, colpita da un grave lutto sogna di allevare un falco come faceva da bambina. Le viene in aiuto una lettura, The Goshawk di T.H.White (1951), l'autore della celebre rivisitazione del ciclo di Re Artù poi rielaborato dalla Disney con La spada nella roccia. Un manuale che è la storia di un fallimento totale. White, professore di letteratura a Cambridge, infanzia d'abusi e poi ricerca sfrenata di farsi amare, dandy, osservatore irriducibile, omosessuale mai dichiarato, sadico, masochista, trasformista, terrorizzato da tutto, scrive un manuale di falconeria dove riversa tutta la sua frustrazione.
Così ingozza il suo astore fino a fargli rifiutare il cibo, lo vezzeggia fino a essere mortalmente ferito, entra in simbiosi negativa fino a ridurlo ad una stanca parvenza animale. Gos è troppo pesante per volare e troppo goffo per artigliare la preda. Tutto il suo diario è composto di questi continui, ripetuti vani tentativi di entrare in contatto con la sua indole selvaggia. Gos infine fuggirà e White, come in Amore di perdizione di Camilo Branco, finirà per perdersi lui pure dietro a rapaci che sono i fantasmi di Gos. La storia d'amore tra Helen e il suo astore Mabel, quella che s'innerva sui diari di White, ha invece una ben diversa, finale, risoluzione. Dapprima la donna, del tutto annichilita dalla perdita del padre, si abbruttisce al punto da rinchiudersi dentro a una scatola, spaurita e confusa come l'astore appeso in casa coperto dal cappuccio. Poi, a mano a mano che il “condizionamento” di Mabel la costringe a uscire, Helen, scontrosa al punto da rifuggire l'incontro con i pulmini di rifornimenti in cui incappa durante le lunghe e spossanti passeggiate nei boschi vicino al campus, si trasforma in qualche cosa di diverso, di imprevisto. Avviene una mutazione nel sangue della donna che insegue le prede di Mabel per strappargliele ancora insanguinate dagli artigli, allo scopo di finirle. Poveri conigli già decimati da una terribile malattia diffusasi anni prima, ora arpionati da Mabel, un killer dai sensi sempre accesi, lacerati dall'astore, poi ammazzati e coperti d'erba. Stremata, offesa, all'erta, Helen vive mesi di passione in totale solitudine. Sarà l'arrivo del momento della muta di Mabel a fermare la sua corsa verso la ferinizzazione. Nella seconda parte del romanzo, infatti, Helen ritorna alla sua umanità, il dolore quietato, i ricordi ricomposti. “Le uniche cose che sapevo erano cose da rapace, e le rotte che mi attiravano nel paesaggio erano le stesse che attiravano l'astore: fame, desiderio, fascinazione, il bisogno di cercare, di volare, di uccidere”. Solo quando Mabel esce da folle campo visivo della sua falconiera per tornare a essere animale, allora Helen si accorge della falsità contenuta nell'affermazione di John Muir seconda la quale “non esiste dolore in terra che la terra non possa guarire”. Helen sa ora che quella era “una bugia, allentante ma pericolosa. Ero furibonda con me stessa per avere irrazionalmente e ciecamente creduto che quella fosse la cura di cui avevo bisogno. Le mani umane sono fatte per tenere altre mani, non dovrebbero diventare posatoi per rapaci. E la natura selvaggia non è una panacea per l'animo dell'uomo: troppe cose nell'aria possono corroderla”.
Scritto con acutezza, precisione, il romanzo è nuovo, forte, difficilmente ripetibile. Una doppia storia di depressione e oltraggio all'ombra della tradizione falconiera. Mcdonald apre la porta su un mondo fatto di lignaggio, di regole, di costumi antichi, un mondo aristocratico oggi del tutto rivoluzionato da nuovi falconieri dalle provenienze le più diverse. E ci consegna la figura indimenticabile dell'inventore di Mago Merlino vestito della tunica azzurra come esce dalle sue parole: “Starà lì, piccolo e capovolto, a guardare in su dalla terra sdegnata, la cupola del suo manto di stelle svolazzante nel vento, la bacchetta impotente, la barba bianca fluente. E Falco? Un trionfo, un odio, e una gratitudine. Nessuna logica o morale. Soltanto la magia fine a se stessa, che tesse e si disfa”. I falchi fuggitivi, Gos e Mabel, scappati via per sciogliere l'incantesimo dell'adolescenza rapace dei loro padroni.
Helen Macdonald, Io e Mabel ovvero l'arte della falconeria, pp. 288, euro19,50, trad. di Anna Rusconi, Einaudi, Torino 2015.