Il festival del Piccolo Teatro / Quattro proposte per un Presente Indicativo
Venticinque titoli, di cui venti internazionali. Un mese di fitta programmazione per farsi un’idea del mutare delle tendenze nella grande produzione europea di spettacolo dal vivo. Il festival Presente Indicativo – forse a oggi il segno più forte della direzione di Claudio Longhi al Piccolo Teatro di Milano – con il suo dispiegarsi di visioni e di proposte ha sollecitato lo spettatore a prendere posizione, a collocarsi, a manifestare una postura critica (e dunque selettiva). Proprio per questa ragione, per raccontare il festival, abbiamo scelto di indicare quattro spettacoli che ci hanno sorpreso, commosso, o sollecitato alla riflessione.
(Non) parlare di politica: FC Bergman, Marlene Monteiro Freitas (Maddalena Giovannelli)
“Il termine teatro politico”, scriveva Massimo Castri nel 1973, è “duro e ostico, poiché si è caricato attraverso gli anni, le polemiche, le varie distorsioni semplicistiche, di molte grottesche stratificazioni”. Oggi quell’etichetta non risulta meno problematica, e continua a sollecitare artisti, critici e osservatori a una costante ridefinizione. Cosa significa parlare del e al presente? È una questione di temi o di linguaggi?
Dopo un lungo periodo in cui è risultato difficile, per gli osservatori e i critici, fare il punto sull’evoluzione delle forme più esplicitamente politiche (cosa è accaduto dopo la grande stagione del teatro civile?), oggi l’urgenza di prendere parola sui temi più caldi dell’agenda europea è forte e chiara, ed è forse il dato più evidente emerso da Presente Indicativo. Le drammaturgie presentate al festival si muovono immancabilmente intorno a ricorrenti parole chiave: clima, identità, natura, genere, patriarcato, guerra. Si tratta, tuttavia, del medesimo campo lessicale su cui lavorano a largo spettro i grandi media, l’attivismo e i social network; e il teatro, in questo quadro, rischia immancabilmente di fare la parte dell’ancella, arrivando a formulare tesi già in larga parte conosciute e condivise dal pubblico di riferimento, e dividendo in modo manicheo i buoni (quelli dentro la sala, ça va sans dire), e i cattivi (responsabili di crisi climatica, gender gap e altre brutture).
The Sheep Song, di FC Bergman, ph. Kurt Van Der Elst.
Ma ci sono artisti e spettacoli capaci di rispondere alle importanti sollecitazioni del presente, rinunciando del tutto all’aspetto predicatorio della tematizzazione a tesi. Il collettivo olandese FC Bergman e l’artista capoverdiana Marlene Monteiro Freitas hanno dato vita a due potentissime partiture sceniche, del tutto prive di parola e capaci (per questo?) di lasciare un forte segno politico.
In entrambi gli spettacoli – assai diversi per estetica e prassi compositiva – compare curiosamente una fulminante rappresentazione della città contemporanea: in The Sheep Song si manifesta, come in un incubo distopico, una cupa metropoli con grattacieli-modellino; in Mal i performer intagliano davanti ai nostri occhi castelli e palazzi di carta per poi distruggerli un istante dopo come divinità crudeli. La polis di oggi, intesa come massimo grado di allontanamento dallo stato di natura, è ritratta come un punto di passaggio, la tappa di una transizione dolorosa che ci sta rapidamente portando altrove. Transizione è, in effetti, la parola chiave per accedere all’immaginifico mondo di FC Bergman, e al folgorante The Sheep Song. In un mondo che inneggia alle potenzialità tutte positive del cambiamento, e che ci invita a credere che tutte le vie ci siano sempre e immancabilmente aperte, il collettivo olandese invita a riflettere invece su quanto irreversibile possa essere la rinuncia a una parte di noi stessi, sacrificata sull’altare della corsa verso il progresso, l’affermazione di sé, e verso la prona accettazione degli immaginari dati.
Niente di meglio di una favola di formazione, senza parole e senza volti, per offrire allo spettatore una mela avvelenata. Una rassicurante favola di animali, come quelle di Fedro e di Esopo: “c’era una volta una pecora”. La protagonista, una pecora che si farà uomo e che vorrà tornare a essere pecora, fa capolino tra un gregge (vero) che pascola sul palco dello Strehler. Passerà attraverso prove e dolori, in un percorso binario e univoco simboleggiato da un tapis roulant che scorre solo in avanti; e quando proverà a tornare alla dimensione animale scoprirà forse che è troppo tardi.
Mal, di Marlene Monteiro Freitas, ph Peter Hönnemann.
Non meno sottilmente crudele è lo sguardo sull’umano di Marlene Monteiro Freitas, che condensa nelle due vorticose e lussureggianti ore di Mal-Embriaguez Divina, tutti i volti nefasti dell’homo civilis. Come un tritacarne – che fagocita istanze, tic e storture del nostro immaginario per poi risputarle fuori mescolate e deformate – la coreografa compone con bandiere nazionali, corone, inni, sirene di guerra, soldati, partite sportive e riti sacri. In platea si resta talmente sommersi da questo blob a un tempo energetico e disturbante da perdere ogni certezza. Intanto, sul palco, una geometrica struttura a gradini – un po’ Tribunale, un po’ Parlamento - ci ricorda le istituzioni fondative del nostro vivere civile. Ma sopra vi albergano e vi legiferano degli esseri crudeli e scimmieschi: un’Orestea animalesca e senza conciliazione, perfetta per raccontare le macerie di questo Millennio.
Matter of Identity: Marcus Lindeen (Alessandro Iachino)
“Una volta Čechov ha detto: ‘L’arte non deve risolvere i problemi, deve solo formularli correttamente’. Possiamo interpretare quel ‘formularli correttamente’ così: farci sentire il problema fino in fondo, senza negarne nessuna parte”. È George Saunders, in uno dei saggi che compongono Un bagno nello stagno sotto la pioggia – raccolta di lezioni sulla letteratura appena pubblicata da Feltrinelli nella traduzione di Cristiana Mennella – a ricordare l’aforisma del genio russo: ed è forse un’analoga consapevolezza a prevalere nello spettatore, al termine dell’esperienza di visione di Wild Minds e L’Aventure invisible. Che queste creazioni, capitoli di una trilogia dedicata all’identità, non potessero offrire alcuna soluzione ai suoi enigmi – né tantomeno rimedi alla ferocia con cui essa è troppo spesso piegata alle esigenze di un rinnovato nazionalismo, del razzismo, dell’omotransfobia – potrebbe sembrare un’ovvietà. Meno scontata, invece, è la cristallina evidenza con cui i due lavori di Marcus Lindeen hanno mostrato, di questo incandescente oggetto, tutte le contraddizioni e le aporie, tutte le ambiguità insite nelle sue possibili declinazioni, rivelando infine un senso di inadeguatezza di fronte ai dogmatismi che cerchino di imbrigliarlo e sistematizzarlo.
Wild Minds, di Marcus Lindeen, ph Maya Legos.
Classe 1980, svedese, artista associato al Piccolo e alla Comédie de Caen, Lindeen ha raccolto un piccolo gruppo di spettatori in un setting terapeutico, un cerchio di anime e parole nel quale ascoltare e – almeno potenzialmente intervenire, rivelarsi, partecipare – un grumo di microstorie, un coacervo di biografie eccezionali nel loro porsi dentro e oltre i limiti, nel loro attraversarli costantemente, irrequiete e irrisolte. Siano i cinque sognatori compulsivi di Wild Minds, affetti da un disturbo che li porta a dedicare la maggior parte del tempo a fantasticherie a occhi aperti, o si tratti invece dei tre protagonisti di L’Aventure invisible – una neuroanatomista sopravvissuta a un ictus, il primo uomo ad avere subito un trapianto di faccia, l’artista non-binary che ricostruisce grazie a brevi video-performance alcune celebri fotografie di Claude Cahun – l’umanità tratteggiata da Lindeen sembra essere emersa da un racconto di Oliver Sacks, in una paradossalità tanto romanzesca quanto vicina alle esistenze di ognuno di noi, con i loro inciampi e dubbi, con le indecisioni e i pregiudizi.
Sull’identità i due lavori propongono una galassia di punti di vista, mutuati dalle testimonianze di persone realmente esistenti: ed è proprio la verità delle loro voci, registrate in alcune interviste, che gli eccezionali interpreti ascoltano in cuffia durante le performance. Lindeen chiede infatti ai propri attori di avvicinarsi al timbro, al ritmo, alla cadenza del parlato di quegli uomini e quelle donne, la cui esperienze costituiscono l’ossatura drammaturgica delle pièce. Eppure la risultante di questo sforzo, per sua stessa natura inane, è di allontanarsi da qualsiasi velleità documentaristica, giustapponendo invece al racconto un nuovo strato di finzione e mascheramento. In un processo di mise en abyme, attrici e attori replicano uomini e donne che a loro volta hanno tentato di essere altro da sé: chi nascondendo alla famiglia la propria condizione di maladaptive daydreamer; chi cercando di recitare la sé stessa precedente all’amnesia, apprendendone come un’attrice la gestualità e i tic; chi sognando una fama irraggiungibile. Affabulano, i personaggi di Lindeen, compiendo uno storytelling del proprio io in cui autenticità e menzogna si confondono, sfrangiandosi l’una nell’altra.
L’Aventure invisible, di Marcus Lindeen, ph Masiar Pasquali.
Se in prima istanza Wild Minds e L’Aventure invisible si pongono così all’interno di quel diffuso trend della scena contemporanea che finalmente decostruisce le ipotesi intorno all’identità – soprattutto quelle veicolate da una cultura patriarcale, borghese, eteronormativa e normalizzante – a ben guardare esse operano uno scarto ulteriore, smarcandosi da qualsiasi pacificante pretesa che attribuisca alla fluidità – di genere, ma anche di stile di vita – il taumaturgico potere di assicurare felicità e auto-realizzazione, nonché la facoltà di saper accogliere nel proprio seno le irriducibili diversità di ciascuno. Non c’è compromesso possibile, tra l’artista queer che ritiene sia “una trappola pensare all’identità come uno zoccolo duro e individuale”, e il paziente che, dopo due trapianti di faccia, ha assoluto bisogno di considerarsi “come un’entità unica, con una sola vita, e non come uno che ne possiede diverse”. È un insanabile conflitto tra posizioni antitetiche che, ciò nonostante, trova una tregua parziale proprio qui, nella comunità di comunicazione che il gioco etico del teatro crea, disfa, e di nuovo sostiene, una sera dopo l’altra.
Come nelle scatole cinesi (o piuttosto come nella nostra psiche?) la scrittura inscrive un nucleo di senso dentro l’altro, in una progressiva e abissale operazione di scavo. Dalla questione estetica del rapporto tra originale e replica, a una rinuncia a quella visibilità che le categorie marginalizzate portano avanti come strumento di lotta contro l’oppressione sistemica – incarnata dall’uomo che, dopo il trapianto di faccia, ha finalmente ottenuto quell’anonimato che la malattia gli negava – Lindeen fronteggia temi capitali della nostra contemporaneità. Corrosiva, in questo senso, è l’analisi di quel sottofondo di pulsioni, di istinti primordiali, di orrore che tutte e tutti noi nascondiamo agli occhi altrui, e a una società che – spesso in barba agli slogan su comprensione e inclusività – genera costantemente nuovi conformismi e inediti standard morali. Ecco che le fantasie dei cinque sognatori compulsivi comprendono scene di torture perpetrate su bambini, si soffermano compiaciute su sparatorie e morti violente, oppure prevedono uomini malati e bisognosi di cure, nei confronti dei quali potersi percepire necessari. Ci si sente euforici, nel riscoprire – in anni in cui l’impegno e l’attivismo sono sembrati accompagnarsi al fariseismo e al virtue signaling – su quanti labirintici percorsi, su quali taciuti anfratti si sorreggano le nostre vite.