Questa storia finisce ad Auschwitz
Carlo Greppi
Questa storia finisce ad Auschwitz
Pubblichiamo per gentile concessione dell'autore e dell'editore un estratto dell'e-book La nostra Shoah. Italiani, sterminio, memoria appena edito da Feltrinelli Zoom.
Noi, italiani. Loro, ebrei. L’identità, il sentirsi parte di un gruppo umano, può alterare in maniera sorprendente la percezione del passato che abbiamo alle nostre spalle, soprattutto se si tratta della storia di un genocidio che è avvenuto anche a casa nostra. Anche se giuridicamente definisce il tentativo – non necessariamente riuscito – di eliminare un altro gruppo umano “in quanto tale” (as such), la parola “genocidio” evoca sempre enormi quantità di morti. Ma non bisogna dimenticare mai che i morti muoiono se qualcuno prima li identifica da vivi, qualcuno li denuncia, qualcuno li cerca, qualcuno non li protegge, qualcuno li consegna, e qualcuno li uccide. È successo anche sulla penisola italiana, e questo deve essere il nostro punto di partenza. Il modo in cui si è raccontata la storia della Shoah in Italia nei settant’anni che ci separano dalla liberazione di Auschwitz è stato sovente il risultato di due pulsioni contrastanti, che si proverà a restituire in queste pagine. Da un lato il tentativo di rassicurarci, sostenendo che in Italia non accadde nulla, che lo sterminio degli ebrei d’Europa non riguardò il nostro territorio; e dall’altro la tendenza a sostenere l’esatto opposto, a colpevolizzarci in quanto carnefici, persecutori, assassini. Con lo sguardo volto all’indietro, non facciamo altro che pronunciare il pronome “noi”, ossessivamente: «in fondo» – ha scritto l’antropologo Francesco Remotti, «l’identità è l’ultima risorsa che rimane quando c’è penuria di strumenti per immaginare un futuro diverso»[1]. Cosa hanno fatto i nostri connazionali? Che impatto hanno avuto le loro azioni? Questa storia riguarda veramente noi?
Birkenau, gennaio 2015
Forse, per occuparci di noi e per immaginare il nostro futuro dobbiamo partire dalle cose che sappiamo del nostro passato. Introducendo la prima edizione de Il libro della memoria di Liliana Picciotto, un volume che cinquant’anni dopo l’inizio della “soluzione finale” della “questione ebraica” riuscì a dare un nome alla maggior parte degli uomini, delle donne, dei vecchi e dei bambini deportati dall’Italia, lo storico francese Serge Klarsfeld scrisse che il loro numero è «ridotto rispetto ad altri Paesi in ragione della scarsa consistenza della popolazione ebraica locale»[2].
È vero: in proporzione i morti della Shoah “italiana” sono pochi, pochissimi. Quello che accadde in quasi due anni sul nostro territorio accadeva spesso in poche ore nell’Europa orientale, in quelle “terre di sangue” dove avvenne buona parte dell’assassinio generalizzato, dove negli anni della guerra i nazisti uccisero deliberatamente oltre dieci milioni di persone, e non una sola era un soldato in servizio effettivo[3]. All’interno dei numeri da capogiro delle vittime del “complesso concentrazionario” di Auschwitz, quelle provenienti dalla penisola italiana sono circa lo 0,5%. In altre parole, circa una vittima su duecento del “pianeta Auschwitz”, che vide la fine di più di un milione di persone. Oltre due terzi dei deportati nel lager situato oggi in Polonia provenivano dal territorio ungherese e da quello polacco, e se sommiamo il numero delle persone considerate “di razza ebraica” che vennero prelevate dalle zone di occupazione corrispondenti alle attuali nazioni di Francia, Paesi Bassi, Belgio e Grecia otteniamo un numero trenta volte superiore a quelli che erano sui territori che possiamo definire “italiani”[4]. Gli storici tendono a considerare nel computo delle vittime provenienti dal nostro paese anche i possedimenti italiani nel Dodecaneso. Sul sito “nomi della Shoah”, progetto della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea che contiene l’aggiornamento del lavoro pluridecennale di Liliana Picciotto, le due vicende sono separate in diverse sezioni. “La Shoah nell’Egeo” è sintetizzata così: «Le persone finora identificate trascinate ad Auschwitz dall’isola di Rodi e dall’isola di Kos, in un folle tragico viaggio di migliaia di chilometri, sono 1815. Della comunità ebraica di Rodi rimarranno vive dopo la deportazione 178 persone».
Nella sezione “La Shoah in Italia” si trova invece questo breve riepilogo:
«La destinazione principale delle deportazioni dall’Italia, come dal resto d’Europa, fu il campo di Auschwitz. Gli ebrei che vi giunsero dall’Italia furono più di 6000. Altri trasporti partiti dall’Italia furono diretti a Bergen Belsen. Gli oltre 400 deportati che furono rinchiusi in questo campo, riuscirono a salvarsi in quanto furono oggetto di scambio con tedeschi nelle mani delle potenze alleate. Alcuni trasporti, quelli partiti dall’Italia dopo il novembre 1944, furono diretti verso i campi di Ravensbrueck e Buchenwald, poiché ad Auschwitz era cominciata la fase di liquidazione del campo. Altri ebrei caddero nei rastrellamenti antipartigiani e, non riconosciuti come ebrei, furono deportati in campi di concentramento destinati agli oppositori politici. Le vittime della Shoah in Italia furono oltre 7.000; i superstiti rientrati in Italia dalla deportazione furono il 12,5% del totale.»
Tra il 1943 e il 1945 vennero uccise più di settemila persone ritenute “di razza ebraica” che vivevano sulla penisola italiana, dunque. Oltre trecento di loro morirono nel corso di eccidi, uccisioni singole o per altre cause, mentre tutte le altre vennero consegnate ai nazisti per essere trasportate su carri merci e carri bestiame oltre le Alpi e non fare più ritorno[5]. Qualche loro compagno di deportazione si salvò: furono circa ottocento a sopravvivere ai lager nazisti, e alla liberazione di Auschwitz risultavano vivi poco più di un centinaio degli oltre seimila individui “di razza ebraica” lì deportati[6].
Tra questi pochi salvati, alcuni ebbero il coraggio di testimoniare, ed è questa una delle ragioni per cui se ne parla tanto, nel nostro presente[7], nonostante a livello quantitativo si possa sostenere che la storia della Shoah in Italia non sia altro che una porzione di dolore in un mare immenso, circa seicento volte più grande. E ritengo che, sebbene il tema sia oggi al centro del dibattito pubblico, spesso non ne discutiamo come dovremmo: questa storia riguarda le vittime – i sommersi – quanto gli altri. Una delle idee da cui dobbiamo liberarci è che i morti contano se sono tanti. I morti contano anche perché ci raccontano come si sono comportati i vivi.
E le domande su come si sono comportati i vivi ce le si pone sempre dopo. Lo sguardo dello storico, quello dell’educatore e quello dell’italiano che coesistono in me come in tanti altri rischiano di essere compartimenti stagni. Non è facile, ma vale la pena provare a connetterli, intrecciarli, concentrandosi su alcuni passaggi a mio avviso fondamentali per provare a rimanere in equilibrio tra interrogativi che riguardano tutti noi. Concentrandosi in particolare sugli ultimi trent’anni, nei quali questa storia e la storia della sua memoria sono diventate centrali nel discorso pubblico.
[1] Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Bari-Roma 2010, p. XXV.
[2] Serge Klarsfeld, “Ricerca storica e memoria”, in Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano 1991, p. 8.
[3] Cfr. Timothy Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011 (ed. or. Bloodlands. Europe between Hitler and Stalin, Basic Books, New York 2010), pp 10-18 e 461-7.
[4] Per una sintesi si veda il sito del Memoriale di Auschwitz (http://en.auschwitz.org/h/index.php?option=com_content&task=view&id=17&Itemid=1&limit=1&limitstart=4) e Carlo Saletti, Frediano Sessi, Visitare Auschwitz. Guida all’ex campo di concentramento e al sito memoriale, Marsilio, Venezia 2011, p. 20.
[5] Degli otto-novemila individui arrestati sono stati finora identificati 7.189 deportati. Liliana Picciotto ha pubblicato questo aggiornamento, relativo al mese di settembre 2014, nella rivista “Storia e Memoria” dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (ILSREC), n. 2/2014, nell’articolo La guerra agli ebrei 1943-1945, p. 70 (il numero della rivista è stato stampato nel mese di dicembre 2014). Cfr. anche Simon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano 2015, p. 52. Si ringrazia l’autore per avermi permesso la lettura delle bozze del libro.
[6] Cfr. Bruno Maida, Il mestiere della memoria. Storia dell’Associazione nazionale ex deportati politici, 1945-2010, Ombrecorte, Verona 2014, p. 23.
[7] Mi permetto di rimandare al mio L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager, Donzelli, Roma 2012.