Città di vita / Giovanni Comisso a Fiume: Il porto dell’amore

12 Giugno 2018

Sul far della sera del 12 settembre 1919, Gabriele D’Annunzio sale le scale che conducono al balcone del palazzo del Governo di Fiume. Di fuori, la folla esulta; il poeta prende la parola: «Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola cosa pura: Fiume; vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione». All’alba di quello stesso giorno, febbricitante, D’Annunzio si era posto alla testa dei suoi volontari e da Ronchi (che da lì a poco tempo prenderà il nome odierno di Ronchi dei Legionari) era partito per prendere possesso della città portuale.

«Fiume, c’est la lune», aveva risposto dopo la guerra il primo ministro francese Clemenceau alla richiesta dei diplomatici italiani di annettere la città (non inclusa negli accordi territoriali del patto di Londra siglato dall’Italia alla vigilia del suo ingresso in guerra). Perciò, per fermare la marcia dannunziana, furono spedite le truppe del generale Vittorio Emanuele Pittaluga. D’Annunzio venne intercettato con la sua Fiat Tipo 4 a un blocco stradale e fece spengere il motore della vettura per andare a piedi incontro al generale: in un gesto che imitava quello compiuto da Napoleone nel 1815, di fronte ai soldati mandati ad arrestarlo, slacciò il soprabito mostrando il petto, chiedendo a Pittaluga e ai suoi fanti di sparare mirando alle medaglie. L’esito fu scontato: molti dei soldati mandati a fermare il poeta aderirono alla sua causa ed entrarono con lui a Fiume.

 

Fra quanti, in quei giorni, disertarono l’esercito regolare per unirsi ai Legionari dannunziani, c’è anche il giovane tenente del genio Giovanni Comisso, di stanza a Fiume col suo reggimento: «Non abbiate paura – scrive ai genitori – perché quello che dicono sono tutte sciocchezze. Noi saremo presto giudicati i migliori soldati dell’esercito. Per l’assedio son cose da ridere. Ci voleva proprio questo per farmi mangiare le rosette di pan francese».

La città è in fermento. Allegra, sempre sveglia, scatenata in feste dove vino e droghe circolano con facilità; trascinata in amori travolgenti e passioni fiammeggianti. Recita un rapporto di polizia: «Non vi è ufficiale e neppure legionario che non abbia un’amante fra le povere fiumane ormai perdute in un’atmosfera di immoralità. Fiume è per i primi l’eden terrestre, l’eldorado di tutti i piaceri e per gli altri volontari il paese della cuccagna. L’amor greco è di gran moda».

 

Questo clima non può che attrarre personaggi vari e cosmopoliti, con cui Comisso entra in contatto: c’è Léon Kochnitzky, musicista e letterato, di padre russo e madre polacca, nato ebreo ma convertitosi al cattolicesimo; c’è Henry Furst, futuro collaboratore di Leo Longanesi, che a Fiume manifesta idee di estrema sinistra: i due – scrive Comisso – «pensavano che il mondo dovesse andare verso il comunismo e si illudevano di influenzare le decisioni del Comandante»; c’è Mario Carli, che l’anno prima aveva dato alle stampa l’opera Notti filtrate in cui è possibile rintracciare i prodromi della scrittura automatica surrealista; ma soprattutto, c’è Guido Keller. Vicinissimo a D’Annunzio (è stato con lui sin dall’elaborazione dell’impresa fiumana), si distingueva per essere uomo d’azione. Durante la Prima guerra mondiale faceva parte della squadriglia di Francesco Baracca, con il nomignolo di “Asso di cuori”. Amava pilotare vestito solo di un pigiama di seta bianca e a Fiume lo si poteva incontrare disteso nudo in riva al mare o, in città, con un’aquila sulle spalle che esplorava col becco la folta capigliatura di Keller mentre lui sosteneva fossero baci. 

 

 

È in sua compagnia che Comisso naviga per la costa del Quarnaro a bordo di una barchetta trovata abbandonata e che, dispiegate le vele, li conduce senza una reale meta. «Siamo partiti senza soldi alla ventura – scrive ai genitori – e abbiamo trovato da vivere meravigliosamente scroccando da mangiare dai conventi dei frati. [...] La vita di mare mi fa bene. Sono nero come un africano e sento di divenire sempre più forte. Mio maestro di questa nuova vita è un uomo straordinario e senza paura che mi stima come uno dei suoi migliori amici». 

Keller è la figura di riferimento, «mi diede la coscienza di poter sempre agire in questo modo [coraggioso], con la mia stessa volontà che non sapevo fortissima», ricorda in Le mie stagioni. Trascorrono un periodo ospiti di una villa di signori loro amici, dove «si mangia il miele, la frutta matura del mese, latte e burro»; di notte girano per i boschi o dormono sotto agli alberi: «È veramente una vita senza pari e mai sperata che potesse esser attuata per il mio corpo», ricorda ancora ai genitori con cui il carteggio da Fiume è costante.

 

Eppure, Comisso sembra poter governare quel vivere che coinvolge il corpo e i sensi tutti: nelle lettere vi sono infatti numerosi richiami agli impegni che sarebbero arrivati dopo Fiume, alla voglia di mettere a frutto quell’esperienza senza sprecare anzitempo l’ispirazione che ne deriva: «Sospingo le mie poesie ancora indietro ché prima voglio ancora meglio vedere», scrive al cugino Nino Springolo già nell’ottobre del ’19. E, ancora ai genitori, nello stesso autunno: «Molti imbecilli hanno la facoltà di parlare o scrivere e di ciò ne deriva infinite spensierate pazzie degli uomini. Io se non avrò fortuna nel commercio, mi ritirerò nella più solitaria plaga del nostro paese e scriverò allora le cose veramente profonde della vita che non sento ma vedo».

Fiume è il luogo in cui vita ideale e nutrimento per lo spirito si uniscono in uno slancio scrittorio che nella città adriatica prende le sembianze di una rivista, ideata da Keller e Comisso, intitolata “Yoga” (organo dell’omonima associazione dal motto «Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione»).

 

 

Ma quello stesso slancio, una volta tornato in Italia si incanala nella stesura di Il porto dell’amore. Non un libro di memorie, né una testimonianza (D’Annunzio viene nominato una sola volta e con l’epiteto di Comandante): Il porto dell’amore è, per dirla con le parole di Nico Naldini, biografo di Comisso, «il prolungamento della sensibilità».

Il libro appare per la prima volta nel 1924, stampato a spese dell’autore dalla tipografia di Antonio Vianello. Si presenta in una confezione artigianale non destinata alle librerie: «Per pagare il conto dello stampatore dovetti vendere l’impermeabile», ricorderà qualche anno più tardi. Escono però alcune recensioni di amici e una colonna su “L’Ambrosiano”, firmata da Giovanni Titta Rosa, che in quel breve testo riscontra una pienezza di vita e una «maturità di stile, un linguaggio così saporosamente lirico, che non esito a definirlo un saggio di prosa narrativa come raramente se ne trovano e leggono, oggi».

 

Se quella di Titta Rosa è la penna che attira l’attenzione del mondo letterario sul giovane scrittore trevigiano, quella di Eugenio Montale traccia i segni di una conferma: il 15 marzo del 1926 recensisce Il porto in “Quindicinale”: «Libretto carnale e febbrile, che avvampa e trascolora, è appena un libro ed è ancora una malattia. Arte legata alle primavere del sangue, al corso delle stagioni e alle temperie: poco più di un rabesco, il diagramma di una vita rovesciata sulle cose; ma d’una purezza, talvolta, di cristallo. […] No, questo suo Porto è una realtà che non rifiuta, forse, ma neppure reclama prosecuzione di alcuna sorta; qualche cosa di necessario e di enigmatico come una conchiglia od una pietra». È il poeta di Ossi di seppia a segnalare Comisso allo scrittore francese Valéry Larbaud, che ne rimase colpito e propose di tradurlo all’editore Simon Kra. Sembrava fatta per la pubblicazione transalpina: «Il mio libro uscirà in autunno. Sono stato invitato a collaborare a una rivista e a un giornale letterario», annunciava ai genitori da Parigi nel maggio del 1927. Larbaud ne aveva persino modificato il titolo: Au vent de l’Adriatique. Ma le cose si bloccano, soprattutto per problemi con la traduzione: Madame Le Saché, la traduttrice, appariva a Comisso come una «borghesuccia che faceva venire la pelle d’oca».

 

 

Dell’inconcludente esperienza francese sopravvive però il titolo, e quando sul finire della primavera del 1928 il libro viene ripreso e ristampato – con numerose modifiche e interventi dell’autore – dai Fratelli Ribet di Torino, in copertina appare Il vento dell’Adriatico. L’opera è cresciuta di tre capitoli ed è proprio su quella edizione che nuovamente la critica si concentra. Giacomo Debenedetti sulla “Gazzetta del Popolo” vi scova tracce dannunziane: «Ricorda la trama, se di trama è lecito parlare, del Canto novo […]. La stessa funzione che avevano avuto per il giovane D’Annunzio le vacanze estive nella terra vergine d’Abbruzzo, hanno qui per Comisso gli estrosi giorni del centauro fiumano al tempo della Reggenza. […] D’Annunzio qui non si vede: solo si ode, tra i rumori della battaglia che segnò la fine di quella stagione favolosa, “una voce nasale, ma decisa”, che è quella del Comandante. Diverso, e meno comparativo, l’approccio di Sergio Solmi, che su “L’Italia letteraria” del giugno 1928 proclama: «La nostra prima impressione fu di trovarci davanti ad una di quelle creazioni letterarie che tengono assai più alla vita che all’arte».

 

 

E forse, Solmi davvero non sbaglia se in un ricordo fiumano di molti anni più tardi, Comisso scrive: «Usciti da una guerra che ci aveva insegnato che cosa è morire, divenuti padroni di una città bellissima tra monti, isole e mare, al comando di un poeta che ci lasciava fare tutto quello che si voleva, il nostro sguardo era quello della vita». Quella stessa vita che di lì a poco il giovanilismo fascista avrebbe raggirato e ingannato, illudendola di grandi avventure militari e riducendola – come accade ai protagonisti dell’ultimo capitolo di Il porto dell’amore – a cercarsi i pidocchi fra i capelli.

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