Un artista che si fida dell’ingegnere che ha in sé / Franco Albini. Design e interni
Studiare architettura al Politecnico di Milano negli Anni Settanta ha significato avere avuto Franco Albini (1905-1977) quale nume tutelare. Certo, dopo l’arbitraria, quanto iniqua sospensione decretata il 23 novembre 1971 dal Ministro della Pubblica istruzione del Governo Andreotti I – che investì anche Ludovico Belgiojoso, Piero Bottoni, Guido Canella, Carlo De Carli, Aldo Rossi, Vittoriano Viganò e l’allora preside Paolo Portoghesi – il maestro non veniva di frequente in facoltà. Però come dimenticare la sua commossa, se pure breve – era parco di parole – orazione funebre per Piero Bottoni tenutasi nell’atrio di Via Bonardi? Quel suo omaggio al collega morto senza aver potuto riprendere l’insegnamento. Lui, invece, l’insegnamento lo avrebbe ripreso il 5 giugno 1974 (come ricorda Guido Canella, in R.A.U 123-14-125, 2007) in seguito all’annullamento di quel decreto (avvenuto l’11 maggio del 1974), anche se sempre più spesso avrebbe preferito farsi sostituire dalla sua collega di studio, la severamente elegante Franca Helg (1920-1989), detta ‘La signora dell’architettura italiana’ per la sua innata classe. A lei dobbiamo inoltre eterna riconoscenza per aver salvato Ernesto Nathan Rogers dalla deportazione, caricandoselo sulle spalle e portandolo in salvo in Svizzera.
Nei miei anni universitari, i cantieri della prima tratta, la linea rossa, della MM, la Metropolitana Milanese erano stati chiusi da poco (i prolungamenti Lotto-QT8 e Gambara-Inganni furono infatti inaugurati l’8 novembre 1975) e noi studenti, ogni volta che prendevamo uno dei suoi treni, provavamo quel senso di orgoglio, generato dall’appartenenza alla comunità politecnica, sia che fossimo allievi diretti di Albini o meno. Era stato proprio lui, infatti, insieme alla Helg, a redigerne il progetto modernissimo, di rigore minimalista, con grafica di Bob Noorda, che gli era valso, nel 1964, il Compasso d’Oro.
Così lo spirito di Albini aleggiava in facoltà anche quando lui era assente educandoci a un’architettura democratica, finalizzata al miglioramento della qualità della vita di tutti.
Inoltre, avendo avuto la fortuna di crescere nella bottega di ebanisteria di mio padre, ho assistito a un evento relativo allo scrittoio progettato dal maestro nel 1938 e poi prodotto da Knoll nel 1950. Intorno agli Anni Ottanta, infatti, arrivarono in bottega le copie dei suoi disegni originali, inviateci da Knoll, per la messa a punto di un singolare prototipo della cassettiera di quel mobile (le parti metalliche e vitree ovviamente già predisposte altrove). Ne nacque una versione che conserviamo ancora, dove ai cassetti insiti nel parallelepipedo perfetto voluto da Albini, erano state apposte, in prova, maniglie ‘alla Ponti’, ghiandizzate da papà (ovvero connesse al corpo principale da speciali incastri). Si tratta di un pezzo unico che, se pure ibrido, conserva intatta tutta la sua ‘razionale poesia’.
Un altro piccolo ricordo personale di Albini risale alla mia infanzia, quando mi accoccolavo sulla poltrona rossa (Fiorenza, da lui disegnata nel 1940, ma allora ovviamente ignoravo il suo nome ed anche quello del suo progettista) che troneggiava nella stanza di soggiorno della casa dei miei. Era accanto a una bergère altrettanto orecchiuta (da grande avrei poi scoperto trattarsi della 877 di Frattini), che non prediligevo, chissà per quale recondito motivo, in gara con mia sorella per sedermi sulla prima.
Al di là delle loro differenze funzionali e morfologiche, ad accomunare questi due pezzi del design albiniano – lo scrittoio (1938; 1950, Knoll International, New York) e la poltrona Fiorenza (1940, VII Triennale; 1952, Arflex; 1967, Poggi) – è il motivo a chiasmo di entrambe le loro strutture portanti, in tubolare d’acciaio e ad andamento rettilineo quello della scrivania, ligneo con lieve curvatura delle parti quello della poltrona, ma assolutamente analoghi nel tratto distintivo. Fatta eccezione che per rari pezzi, il motivo a chiasmo, emblema di quell’equilibrio tipicamente albiniano “tra instabilità visiva e stabilità effettiva, tra movimento virtuale e stasi” (Marcello Fagiolo, L’astrattismo magico di Albini, in Ottagono nr. 35, giugno 1975), sembra essere stato prediletto dal maestro per i suoi mobili. Oltre che nella poltrona Fiorenza e nello scrittoio, il chiasmo si ritrova nella poltrona Bianca (1930; 2012, Tacchini), nella libreria il Veliero in tensostruttura (1938, unico prototipo per casa Albini; 2011, Cassina), nel tavolo Cavalletto (1950, Poggi; 2008, Cassina) ed anche nel tavolino portatile Cicognino (1953, Poggi; 2008, Cassina), in cui basta prolungare idealmente le linee costruttrici (una delle quali si protrae realmente diventando un manico per il trasporto) per vederle incrociarsi nello spazio loro sovrastante, così come accade anche per la poltrona Luisa, caratterizzata dall'incastro “a doppio pettine”, (1949, Knoll; 1955, Poggi; 2008 Cassina. Compasso d’Oro 1955), per citare solo alcuni esempi.
Accanto alla loro essenzialità, all’eleganza delle loro linee e alla loro levità, un’altra prerogativa degli arredi progettati da Albini e realizzati negli Anni Cinquanta dalla ditta Carlo Poggi di Pavia, era il loro essere completamente smontabili. Con grande anticipo su Ikea, e con una qualità di gran lunga superiore, la Poggi ha realizzato i mobili disegnati da Albini fornendoli al cliente in confezioni di scarso ingombro che li contenevano pronti per essere riassemblati seguendo semplici istruzioni contenute in un foglietto illustrativo.
Sull’attività di questa straordinaria bottega artigiana è allestita fino al 15 marzo 2017 una mostra presso lo Spazio Mostre Archivi Storici del Politecnico di Milano, Campus Bovisa, dal titolo: Il mondo di Poggi. L’officina del design e delle arti, in cui sono esposti anche mobili e disegni originali di Franco Albini, frutto della sua collaborazione trentennale con l’azienda pavese.
A proposito di smontabilità e di componibilità degli arredi, per facilitarne tanto la produzione, quanto il trasporto, vorrei ricordare quello che, a mio avviso, è l’esempio più straordinario di mobile albiniano. Si tratta di due pezzi sperimentali, una poltroncina e un tavolino basso, da lui concepiti nel 1943 per il Concorso “Casa per tutti”, indetto dalla Triennale di Milano. In essi le parti con funzione portante (schienale e seduta per la poltrona, gambe per il tavolo) sono basate sul principio delle travi armate, realizzate cioè con sottili aste di legno, rette da esili funi d’acciaio. Inoltre, schienale, seduta e piano del tavolo sono ottenuti da semplici superfici che si tramutano in volumi grazie al loro accostamento nello spazio secondo angoli retti o ottusi. Li governa, insomma, il medesimo principio che presiede ai mobili neoplastici di Gerrit Rietveld, solo che in questi di Albini si ritrova in più la componente tensostrutturale che li rende di una sorprendente attualità. In essi “non c’è soltanto la scomposizione del mobile in superfici e linee fluenti, ma addirittura la frantumazione in fili e segmenti che sembrano assurdi e ben poco stabili. L’apparente fragilità –ottenuta con calcoli complicati e attentissimi processi costruttivi – è in realtà un fine estetico raggiunto da Albini anche nel settore dell’allestimento di mostre.” (Fagiolo, ibidem)
Brianzolo di nascita (vede la luce nel 1905 a Robbiate), Franco Albini era brianzolo anche nell’essenza, per l’amore che mostrava verso la precisione esecutiva, per la cura meticolosa dei dettagli e per la profonda conoscenza che aveva dei materiali dei quali si serviva.
Gio Ponti, nel 1943, dalle pagine della rivista Stile così scriveva di lui: “un artista che si fida, che crede, nell’ingegnere che ha in sé”.
Architetto, urbanista, designer e professore universitario, Albini cresce e matura nella “Milano del razionalismo, della poesia ermetica, dell’astrattismo. Un’oasi di europeismo in un’Italia squallidamente provinciale.” (Fagiolo, ibidem). Dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 1929 e un praticantato presso lo studio Ponti – Lancia, ottiene l’attenzione di Edoardo Persico e di Giuseppe Pagano che, dalle pagine di La Casa Bella (Casabella dal 1933) tributano omaggio ai suoi interventi progettuali.
Così Edoardo Persico:
«Per Albini (il gusto nuovo) è determinato dalla forma degli oggetti che vivono nello spazio secondo la loro particolare stereometria. (…) I suoi interni rappresentano una specie di “razionalismo artistico” in cui la cosa più importante è l’oggetto ben disegnato e ben fatto. (…) Fra l’altro i mobili di Albini sono un indice della tendenza, assunta da parecchi costruttori giovani, di risolvere un gusto italiano dell’architettura nella razionalizzazione delle forme classiche: un criterio generale che trasferito nell’arte dell’arredamento, crea dei mobili su cui si fermerà di preferenza l’attenzione di coloro che prediligono anche in una cosa moderna l’accento, un po’ sentimentale, della grazia di un tempo.» (Un interno a Milano, in La Casa bella, 54, giugno 1932, p. 41, cfr. Giulia Veronesi, - a cura di -, Edoardo Persico. Tutte le opere, Ed. di Comunità, Milano, 1964, pag. 85).
Persico, dunque, chiama Albini innanzitutto artista (come farà in seguito anche Ponti), ed è lui a dire “artistico” il suo razionalismo, una definizione poetica ed etica che molti useranno dopo di lui, Pagano in secundis. L’artisticità del razionalismo albiniano, dissimile tanto dal macchinismo lecorbusiano quanto dal sidereo funzionalismo nordeuropeo – che pure egli conosceva ed apprezzava – è da rintracciare nella sua ricerca dell’armonia e nella sua classicità. I mobili da lui disegnati, infatti, sono classici per la proporzione fra le loro parti componenti, ma sono moderni nella loro semplicità, sebbene a un attento esame si rivelino complessi per la presenza di incastri, di snodi, di perni, di giunti con i quali le stesse parti componenti vanno a congiungersi fra loro. Essi sono eleganti, ma di un’eleganza sobria, mai retorica né sontuosa, anzi addirittura democratica, così come era democratico il modo in cui Albini affrontava le sue commesse, cui attendeva con lo stesso impegno e la medesima dedizione, che si trattasse di una villa borghese o di un quartiere popolare, dell’allestimento di un museo o dello stand di una fiera, di un intero arredamento o di un semplice sgabello.
È di fatto impossibile disgiungere la sua attività di progettista d’interni da quella di architetto civile e soprattutto da quella di allestitore di eventi espositivi temporanei o permanenti, campo nel quale ha realizzato insuperati capolavori. Anzi, c’è addirittura da ritenere che quest’ultima si intrecci indissolubilmente con la prima, in soluzioni dense di afflati lirici e connotate dal suo rigoroso metodo progettuale fondato sulla sperimentazione e sull’esperienza.
In luogo del motivo a chiasmo prediletto negli arredi, è invece l’ortogonalità a prevalere nei suoi allestimenti d’interni, dominati dalla “poetica dei diaframmi e delle trasparenze”. Siano essi spazi abitativi oppure espositivi, li presiede una meticolosa griglia cartesiana, un reticolo quasi alla Mondrian, una maglia spaziale, cui fa da contrappunto, in alcuni esempi, la presenza di un elemento diagonale o spiraliforme concentrato nelle scale, ovvero in ciò che da una quota conduce a un’altra.
La scala è invece un punto di forza dei suoi interventi architettonici, sia che essa venga a costituire un elemento interno (Parma, Edificio uffici INA, 1950; Roma, La Rinascente, 1957-61), oppure un corpo esterno (Cesate, 1950-51; Milano, Mangiagalli, 1950-51, con Ignazio Gardella; Colognola, 1964-65) o che rappresenti addirittura una soluzione urbanistica, vedasi il caso degli Uffici Comunali di Genova (1952-62), dove gli edifici, lungi dal seguire le curve di livello del suolo, si arrampicano per “gradoni”, offrendo dal basso una visione di scarso ingombro che sarà poi largamente imitata.
Dei complessi e articolati rapporti tra le diverse cifre dell’attività di “architettura degli interni, arredamento e decorazione” di Fanco Albini (era questo il titolo della sua prima cattedra allo Iuav, appositamente istituita per lui da Giuseppe Samonà nel 1949) tratta con circostanziata competenza il volume a firma di Giampiero Bosone e Federico Bucci, “Il design e gli interni di Franco Albini”, recentemente ristampato per i tipi di Electa, nella collana Documenti di Architettura.
Il libro, accanto a due preziosi saggi degli autori, di Bucci: Stanze della vita quotidiana (Un architetto pariniano; L’arredamento è soprattutto architettura) e di Bosone: Albini, la ‘profezia’ del design italiano (L’astrazione magica dell’Albini arredatore), è corredato da una ricca documentazione iconografica, che consta di fotografie provenienti dalle riviste dell’epoca (soprattutto da Casabella, da Domus e da Stile), dai cataloghi delle numerose Triennali a cui il maestro ha partecipato e dalla Fondazione Franco Albini. È inoltre ricco di riproduzioni dei disegni originali che rendono agevole al lettore la comprensione del linguaggio albiniano e della poesia che lo presiede.
Così scrive il Bucci:
“Nell’architettura degli interni il razionalismo poetico di Albini si esprime con coerenza, con un rigore quasi maniacale nell’attenzione riservata allo studio dei dettagli, ma nel contempo suscita sempre nuove emozioni con sorprendenti atmosfere spaziali in cui gli oggetti, sospesi tra luminose composizioni cromatiche, interpretano criticamente i segni del tempo e aprono le vie della creazione del nuovo.”
“Il faut être léger comme l’oiseau et non comme la plume”, ha scritto Paul Valery e gli oggetti di design di Franco Albini sono proprio connotati dalla consapevole leggerezza invocata dal poeta.