Buio su Roma
Roma, 19 marzo 2014. Sveglia, colazione, computer acceso. Rapida e sonnolenta controllata al sito di “Repubblica”, occhiata ai social. Angelo Mai: “CI STANNO SGOMBERANDO! ACCORRETE SUBITO!”. Cosa?! Condivido. Capisco dai numerosissimi post che è partito un tam-tam che continuerà per tutto il giorno. La mia testa si annuvola di pensieri, mi domando cosa sarà mai successo. Inizialmente le notizie sono poche e poco chiare, si chiede di accorrere a sostenere quello che non è solo un centro sociale, ma un polo importante di aggregazione e di produzione di cultura indipendente della città. Un punto di riferimento per la scena musicale e per la creazione teatrale nazionale e internazionale, ma anche un luogo che ha saputo intrecciare rapporti profondi con il tessuto urbano in cui è inserito. È un posto felice l’Angelo Mai Altrove Occupato, frequentatissimo. È un luogo della città aperto alla cittadinanza, fulcro di linguaggi nuovi non solo artistici, ma anche sociali e politici.
Nel corso della giornata la situazione si fa più chiara: non solo all’alba c’è stato lo sgombero dell’Angelo Mai in via delle Terme di Caracalla, ma contestualmente è avvenuto anche lo sgombero di due occupazioni abitative (in via delle Acacie e alla ex-scuola Hertz nei pressi della metro Anagnina), entrambe collegate al Comitato Popolare di Lotta per la Casa (da sempre vicino al centro sociale) e la perquisizione delle abitazioni di numerosi attivisti. Porte sfondate e famiglie per strada, bambini che piangono e la preoccupazione di non sapere dove si passerà la notte. Ancora un’altra volta.
All’assemblea convocata al pomeriggio il clima è pesante: sull’Angelo Mai sono stati posti i sigilli, sequestrato, tutto intorno si vedono le camionette della Polizia e schierate decine e decine di poliziotti. L’assemblea si tiene nel parco nel quale vive l’Angelo Mai. Tutto intorno corrono bambini, quelli appena usciti dalla scuola elementare Giardinieri, poco distante, con la quale il centro sociale svolge laboratori. L’accusa è di associazione a delinquere (ma anche estorsione e violenza privata). Ma come? Ma chi? Ma perché? Molti gli interventi da un palco immaginario su una collinetta: gli occupanti dell’Angelo Mai leggono un loro comunicato e di seguito una lettera che arriva dal Comune di Roma, numerosi esponenti di altri centri sociali romani dichiarano il loro appoggio e la loro solidarietà. Prendono la parola anche i bambini, giocando con il microfono e, felici di quell’inedito pubblico, gridano il loro disaccordo, indicano tra gli occupanti i loro maestri e se li abbracciano quasi a volerli difendere. Tutti quei bambini sono una nota di colore in quel pomeriggio, ci fanno sorridere a noi cittadini accorsi, ma non cancellano la rabbia e tutta la delusione di questa giornata. In serata rientrano gli occupanti delle due ex-scuole, mentre sull’Angelo Mai restano i sigilli e un’accusa odiosa e intollerabile.
Ph. Valeria Tomasulo
La situazione è tanto ingarbugliata quanto kafkiana. Il sindaco Marino fa sapere di non essere stato informato. Esprime anche la volontà di uscire da questa situazione, la volontà di fare la sua parte per sostenere quello che ritiene essere un importante centro culturale della città. Ma qui le perplessità aumentano. Come può un proprietario di un immobile non essere a conoscenza di uno sgombero che sta per avvenire nei propri locali? In tanti si sono domandati chi è allora che governa Roma. Come può accadere un tale cortocircuito tra politica e magistratura? Viene da chiedersi come può una cittadinanza dormire sonni tranquilli se un ceto dirigente è all’oscuro di una associazione a delinquere a scopo estorsivo che vive e battaglia in città? Ci si trincera dietro alle parole “legalità/illegalità” e le domande da porsi diventano molte: esiste una illegalità legittima? Quante situazioni, prima di essere riconosciute come valide e poi istituzionalizzate, hanno dovuto attraversare una fase di illegalità?
Roma verte in una disastrosa confusione. Chi produce cultura viene accusato di associazione per delinquere. E allo stesso modo – anche se speravamo di essercene liberati – continua a riaffacciarsi una similitudine pericolosa che accosta una certa cultura indipendente a pratiche illegali. Questo improvviso moto repressivo ha messo in luce una debolezza della politica testimoniata, in questi stessi giorni, da altri fatti che lasciano non poco sconcerto. Penso a quello che sta accadendo al Teatro di Roma. A gennaio si era finalmente potuto insediare il nuovo direttore artistico, Ninni Cutaia: un professionista competente con un passato al Mercadante di Napoli e all’Eti, propenso al rinnovamento e con la volontà di dialogare con le nuove realtà che popolano la città. Una figura salutata da tutti, operatori e lavoratori dello spettacolo, con fiducia e ottimismo. Ora un presunto “intoppo burocratico” mette in dubbio la sua nomina. In rete è partita una petizione che chiede lo sblocco della situazione. Mentre scrivo le ultime righe dell’articolo, arriva la notizia che il Ministero ha chiuso definitivamente la porta all’ipotesi Cutaia a capo dello Stabile: ha diretto la sezione “attività teatrali” del Mibac stesso, con funzioni ispettive sui teatri, e perciò sarebbe incompatibile per legge e non varrebbero le aspettative. Eppure quella nomina era sembrata una soluzione gradita al Ministero (perlomeno a quello targato Bray e Nastasi) per uscire dalla lunga crisi del Teatro di Roma.
Si interrompe così – salvo nuovi colpi di scena a una triste telenovela infinita – il percorso iniziato con impegno da Cutaia (preparazione della prossima stagione, progetti vari, compreso rendere agibile lo spazio di India, da tempo fermo), si bloccano quegli intenti di rinnovamento che da un paio di mesi stavano iniziando a restituire un qualche bagliore al buio romano. E tutto questo arriva a distanza di due mesi da un’altra ferita inflitta alla dimensione artistica della Capitale, ossia la cancellazione della stagione di Romaeuropa al teatro Palladium della Garbatella.
L’impressione generale è quella di essere di fronte a una politica lenta e incapace di leggere i segnali che arrivano numerosi dalla realtà. Due velocità che sembrano non permettere avvicinamenti. Lo abbiamo visto anche lo scorso 24 marzo proprio negli spazi del Teatro Argentina, all’interno di una affollatissima sala Squarzina, dove si sono riuniti operatori dello spettacolo, artisti e le Assessore alla Cultura Ravera e Barca, rispettivamente di Regione e Comune. L’occasione è arrivata grazie all’impegno di C.Re.S.Co (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea), un organismo nazionale che raggruppa oltre cento tra professionisti, strutture e festival e che si è fatto promotore, nell’ultimo mese, di tavoli di lavoro e incontri per costruire proposte concrete in grado di tradurre le necessità del sistema culturale locale.
È stato il momento tanto atteso per confrontarsi sulla legge regionale presentata in forma di bozza la scorsa settimana che dovrà disciplinare lo spettacolo dal vivo: una materia che la stessa Ravera ha definito un “vespaio” e che vive in una sorta di vuoto legislativo. Nonostante il percorso di dialogo tra le parti che ha contraddistinto la genesi di questa legge, resta una forte delusione da parte di artisti e lavoratori dello spettacolo su molti punti. Tra questi, si lamenta una assenza pesante (non percepita dall’assessore regionale) di riferimenti al contemporaneo e si propone un riconoscimento pieno alla definizione di impresa culturale mutuando il suo significato dalle imprese sociali. L’accusa è che questa bozza guardi troppo a un passato che è passato e non si accorga di un oggi in continuo cambiamento, al passo con i tempi e che trova soluzioni dove le istituzioni non arrivano. Soluzioni che suppliscono alle mancanze delle istituzioni, alle loro lungaggini, alla loro incapacità di vedere.
Si sogna un teatro che sappia attraversare i luoghi in cui vive e che renda vivi quei luoghi stessi; una politica culturale che sappia trascurare il profitto e valorizzare il rapporto con lo spettatore. Si sognano pagamenti certi e puntuali e una inedita attenzione al welfare dei lavoratori, da sempre trascurato. Si sogna che la sperimentazione e la ricerca trovino una giusta collocazione nell’offerta artistica perché sono lo sguardo al futuro che oggi manca. Nonostante la disponibilità al dialogo e alla concertazione sembra che questi dovranno restare sogni: la farraginosità della burocrazia e la lentezza della politica non riescono a stare dietro alle evoluzioni di cui la realtà dei fatti ha già prodotto esempi. Non si legge tra le righe di nuove forme di gestione degli spazi che si sono andate sviluppando proprio per sopperire alle mancanze del pubblico e difficilmente si riesce a capire come queste forme stiano diventando proprio una nuova rappresentazione del concetto di pubblico. Esperienze come quella della Fondazione Teatro Valle Bene Comune o dello stesso Angelo Mai hanno dato vita a nuove modalità di dialogo con i cittadini aprendo i loro spazi al confronto e allargando al massimo la partecipazione. Sono pratiche nuove che rispondono alla difficoltà del nostro tempo: nuovi modelli che vogliono allargare al massimo l’accessibilità all’arte, partecipare le scelte e attraversare in maniera incisiva luoghi e spazi. La scorsa settimana il Valle Occupato ha vinto il premio Princess Margriet della European Cultural Foundation per il merito di essere “di grande ispirazione per tutti coloro che lottano contro l’ondata di misure di austerità e privatizzazione che minacciano la sostenibilità di istituzioni culturali il cui fiorire è cruciale per la vita artistica e di comunità”. In Italia si reprime, in Europa si premia.