Un libro di Giovanni Spadaccini / Compro libri, anche in grandi quantità
Da dove arrivano i libri che troviamo nei negozi di seconda mano? Che viaggio hanno fatto per arrivare fin lì? E che storie nascondono fra le loro pagine? Ce lo racconta Giovanni Spadaccini nel suo volume, appena pubblicato da UTET, Compro libri, anche in grandi quantità (pp. 184, E.16).
E chi meglio di lui potrebbe raccontarlo dal momento che è proprio sulla compravendita di libri usati che ha impostato la sua attività lavorativa, dopo essersi laureato in filosofia e aver conseguito il dottorato in antropologia. Spadaccini gestisce infatti una libreria a Reggio, in una traversa della via Emilia, poco trafficata se non da qualche gruppo sporadico di giovinastri, nonostante essa si trovi in una zona centrale della città, di fronte al parcheggio multipiano di un ristorante ricavato dalla ristrutturazione di un cinema che nei bei tempi andati alternava proiezioni di film d’essai come Blow Up a pellicole di scarso valore “vietate ai minori di 18 anni” (o di 14) ad altre coi cartoni animati della Disney.
E forse un po’ di questa promiscuità di generi Spadaccini l’ha fatta sua in questo libro, che ho appositamente chiamato volume, dato che lo si potrebbe definire in vari modi, essendo al tempo stesso un taccuino (così lo chiama lui), un romanzo, una raccolta di racconti (alcuni dei quali peraltro erano stati pubblicati proprio qui su doppiozero), un diario di annotazioni autobiografiche, un’indagine sociologica, un manuale di critica letteraria, una cronaca che narra delle varie fasi in cui si articola un’attività come quella della compravendita dei libri usati, una riflessione sul loro destino e sull’importanza della loro presenza e della loro permanenza e anche sulla necessità che pure si può avere di sbarazzarsene. Come spesso succede in questi casi, se la mano è buona, il tutto è superiore alla somma delle parti. E qui la mano è buona.
A creare unità e uniformità nel libro, infatti, è la pregevolezza della scrittura, o per meglio dire della lingua, che sa mantenere la snellezza tipica di quella usata nella buona narrativa anche nei punti occupati da ragionamenti di carattere teorico o riflessivo, ed è puntigliosa e precisa nel trasmettere l’ampia gamma di sensazioni, a volte anche sgradevoli, con cui ci si trova a dover fare i conti in un lavoro come questo, soprattutto in quella fase delicata che è la trattativa per l’acquisto dei libri con persone, a volte anziane, o rimaste sole, che potrebbero essere i membri stessi delle nostre famiglie e che di quei libri a volte si vogliono semplicemente disfare, mentre in altre il disfarsene può avvenire per ragioni economiche e allora il coinvolgimento emotivo da parte del compratore può lasciare qualche strascico anche se l’affare concluso è buono.
Si tratta di un buon tema dai mille possibili sviluppi narrativi e non è un caso che le parti o i capitoli in cui maggiormente si sente l’abilità dell’autore siano proprio quelle in cui a emergere è l’aspetto descrittivo delle varie sfaccettature di cui si compone la fase relativa all’acquisizione dei libri, il breve fugace rapporto che s’instaura con chi si trova a doverli vendere e da cui il più delle volte lui, l’autore/libraio/compratore viene considerato alla stregua di un traslocatore, di uno svuota cantine, di un questuante, di uno scocciatore o di un facchino di cose superflue. Sono queste le parti in cui, con leggerezza e solo qualche tocco essenziale, Spadaccini riesce a penetrare nella “vita degli altri”, a darcene un quadro anche semplicemente riportandone qualche dettaglio, come l’odore di ciò che si cucina nelle loro case o la particolarità dei capi d’abbigliamento che essi indossano o il modo in cui i libri da vendere sono ordinati (in comparti) o accatastati alla rinfusa con magari una bambola senza occhi posata lì accanto a sorvegliare il mucchio.
Ed è qui che nascono le storie da raccontare e le persone diventano personaggi. Dalla signora anziana che vuole vendere i libri della figlia ormai da anni emigrata a Los Angeles per inseguire il suo sogno di attrice, al signore serissimo che possiede una libreria meravigliosa ma di cui non ha mai letto un libro e che per evitare di essere rimbrottato dalla moglie ogni volta che rientra in casa con un sacchetto di libri nuovi appena acquistati s’è comprato un appartamento sopra il suo per tenerceli tutti, anche se ora ha deciso che è venuto il momento di rivenderne almeno una parte.
Questi, nell’ottica dell’autore/libraio, sono i più grossi colpi di fortuna, ma sono anche rari, perché il più delle volte quello che egli si trova a dover raccattare è materiale da trasferire tutto in discarica, tranne qualche libro da preservare e che da solo ha reso possibile l’acquisto. Ed è questa specie di piccolo ricatto che si attua durante la transazione (o tutto o niente) ad accentuare la sensazione sgradevole che in atto il più delle volte vi sia solo una specie di guerra fra poveri, come lo stesso Spadaccini sembra suggerire, quando scrive: “Noi, miserabili che sfruttiamo la fame di altri miserabili venuti in cerca di cibo come gatti randagi, furbi, ma senza l’intelligenza per rimanere vivi più a lungo” (p. 50).
Un altro aspetto su cui Spadaccini giustamente si sofferma, oltre ad accennare al brivido prodotto dalla scoperta di certi libri introvabili in lotti che nulla lasciavano sperare, o di veri e propri diari (come quello di Anna, che scrive perché gliel’ha consigliato il medico e scrivere sarà la sua salvezza), è quello relativo a tutto ciò che si può rinvenire all’interno dei volumi e che lì è stato lasciato a mo’ di segnalibro o proprio perché dimenticato. Una banconota rimasta da un viaggio all’estero, il biglietto da visita di un dentista, un fiore essiccato, una fotografia, un disegno, il cartoncino d’invito a una serata danzante con Gino Paoli al Whisky Club, una schedina da Totocalcio: tutti oggetti che di volta in volta raccontano una storia parallela a quella che si sta svolgendo fra le pagine del libro in cui sono finiti e di quel libro formano per questo una propaggine, una specie di storia nella storia, e che in alcuni casi invitano come poche altre cose al mondo l’immaginazione a fantasticare. Tutte reliquie che il libraio Spadaccini ha appeso a una parete del suo negozio e bene ha fatto l’editore a inserirle nel volume.
Di particolare intensità è il contenuto di un altro ritrovamento, o intenso è il modo in cui è l’autore a narrarlo. Si tratta della corrispondenza fra due innamorati al tempo della seconda guerra mondiale: lei, Elena, una studentessa al terzo anno del liceo classico; lui, Edmeo prigioniero di guerra nello Stammlager XVIII C 317, a Salisburgo. Una corrispondenza costituita da centinaia di messaggi e biglietti ritrovati sul fondo di cartoni di libri acquistati e che dunque facevano da supporto a una meravigliosa libreria che i due avevano formato negli anni successivi alla fine della guerra e caratterizzata dal fatto di essere composta da due copie di ogni libro, una letta e annotata, e l’altra intonsa.
Questo episodio dà spunto a una riflessione che Spadaccini elabora riguardo al rapporto che ci lega ai libri, soprattutto a quelli che amiamo, e al fatto che indubitabilmente è su di essi che abbiamo costruito almeno in parte, ma a volte anche totalmente, la nostra identità e che su di essi a volte la nostra vita non può fare a meno di modellarsi. A partire da Cristo, verrebbe da dire, che già aveva impostato la propria in modo da adempiere a ciò che era stato profetizzato nelle Scritture; passando per Don Chisciotte, che proprio a causa dei libri era uscito di senno, ma che nulla avrebbe avuto da raccontare se fosse rimasto una persona normale; per arrivare fino a Kafka, dove il libro comincia a perdere i propri contorni e si trasforma in un flusso continuo di scrittura che stabilisce che fra vita e letteratura non esiste più alcuna differenza. Il che non differisce di molto da quanto veniva affermato Max Frisch quando constatava che si arriva a un punto nella vita in cui ormai le esperienze le si fanno solo scrivendo.
Ed è a questo riguardo che Spadaccini ha un’intuizione degna di nota che lo porta a trasferire il discorso su un piano diverso, animato da una punta giustamente polemica, che coinvolge parecchi fraintendimenti legati alla parola Cultura. Devo citare il brano per intero: “Comportarsi come il principe Myskin, impostare la propria condotta e il proprio rigore su quanto racconta di sé Kafka, o il folle Chisciotte, questo intendo come esempio. Ogni lettore fa esperienza di questa dimensione etica della letteratura, di questa assurda intercapedine che va da un uomo all’altro per un tramite altrimenti impensabile e vuoto: la parola. In questi libri fondamentali, ma a maggior ragione se sono stati letti e studiati e attraversati, passa il flusso di quello che siamo stati e che potremmo essere; passano l’orrore e la meraviglia per le cose del mondo, e l’amore e la speranza, ma non la Cultura: quella è una cosa di cui gli scrittori, quelli grandi, di solito non si occupano. La Cultura, questo enorme equivoco, questo strato di pelle morta che lascia solo polvere dietro di sé, questo magazzino di mancanze di idee e di passioni, questa chiacchiera da aperitivo e da riunione di ventenni sotto spleen e vecchi professori di scuola con la sinusite e le mutande di lana, questo inutile sfoggio di nomi e titoli, questa imbarazzante tristezza retorica per anime impreparate a tutto.” (pp. 122-123).
Ecco, qui mi pare che venga toccato un punto essenziale verso cui forse non poteva far altro che convergere un libro come questo, che parla, è vero, dell’acquisto e della vendita di libri usati, ma che è soprattutto l’opera di uno scrittore che, oltre a comprarli e a venderli, i libri li legge e li scrive. E così come nel suo negozio i libri sono accuratamente selezionati in base a un concetto di cultura che è diciamo quello vero, serio, che viene elaborato e praticato senza esibizione e che ha attraversato i tempi reggendo al fastidio che di volta in volta gli veniva procurato dalle varie mode che negli stessi tempi si susseguivano, così lui, rintanato in un angolo del suo negozio, circondato da tutti questi libri che “vengono dalla morte e dal dolore, dalla rabbia, dall’inimicizia e dal bisogno di oblio verso una persona, o dalla disperazione e dalla delusione per la vita” (p. 16), pare alla fine volersi concedere il lusso di togliersi anche qualche sassolino dalle scarpe. E fa bene a farlo. Soprattutto perché è nel giusto.