Speciale

Il sorriso di Kanye West

21 Aprile 2020

Sappiamo dei limiti della nozione di contagio quando si esce dal dominio biologico, ma il virus raccontato è comunicativamente virale, perché come un gas nobile satura ogni spazio a disposizione, satura le nostre conversazioni, perché è l’hot topic, scioccante e divisivo. Perché ci riguarda tutti. 

Se i social sembrano essere completamente monopolizzati dal virus (sappiamo che ognuno è immerso in una bolla comunicativa fatta a propria immagine e somiglianza, ma adesso tutte appaiono come collassate le une sulle altre), accendere la TV in questi giorni e dare uno sguardo al palinsesto d’intrattenimento è altrettanto straniante: a trasmissioni registrate prima della quarantena, e quindi equipaggiate del consueto pubblico in studio, si alternano talk show in cui il presentatore si trova solo in uno studio vuoto; a pubblicità che ci urtano – anche se magari non vogliamo ammetterlo – per come ignorano, incolpevoli, la contemporaneità (mostrando strade affollate e gente che viaggia, nessuna traccia della mascherina che è diventato il correlativo di queste settimane), ne seguono altre in cui il payoff del dato brand ammicca, un po’ come in una distopia alla The LEGO movie, ai vari #IoNonEsco, #IoRestoACasa e #AndràTuttoBene. Sia che se ne parli, sia che lo si ignori, la presenza del virus incombe. Perché il virus è il contesto in cui viviamo in questo momento. 

 

Il virus raccontato è un discorso: un oggetto e le parole che vi si agglutinano attorno, a uno stesso tempo definendolo e connotandolo. Un discorso da cui è impossibile uscire perché destabilizzante e ubiquo, cosicché ogni tentativo di distanziarsene non può che risultare miseramente parziale o del tutto vano. In questo la viralità comunicativa pare davvero strabordare dalla semplice metafora e assume nuovamente i connotati biologistici di passività cui originariamente voleva relegarci la vecchia teoria ipodermica dei media: il virus socializzato finisce per colpirci anche quando abbiamo fatto di tutto per evitarlo. Siamo come costretti a partecipare al grande flusso comune delle conversazioni online, anche quando non abbiamo più voglia di parteciparvi, quando non abbiamo più voglia di dire di esserci, di dire la nostra, di aggiungere il nostro pezzettino al mosaico globale. 

 

Il virus genera polarizzazione. C’è chi lo ha minimizzato (mutatis mutandis, da Vittorio Sgarbi a Giorgio Agamben, probabilmente anche a causa di un sensazionalismo e un allarmismo mediatico che ci si immaginava di rito) e chi lo ha dichiarato il segnale dell’apocalisse capitalistica. Chi ha giudicato le misure prese come del tutto insufficienti e chi del tutto esagerate. Chi ha scatenato le ricostruzioni dietrologiche e complottiste (nutrite, a suon di farmaci miracolosi tenuti segreti e virus chimera realizzati nei laboratori cinesi, da quel brodo di coltura che sono i gruppi di WhatsApp; nota: è questa una delle prossime frontiere da esplorare, al netto del GDPR, per gli studi sulla comunicazione) e chi ha provato a ricostruire filologicamente non solo la diffusione del virus, ma anche la sua origine nei termini di una vera e propria eziologia meccanicistica, per quanto diluita e complessa (antropizzazione, deforestazione, climate change, sfruttamento della fauna selvatica). Insomma: mascherina sì, mascherina no, il virus e i modi con cui lo si è detto e lo si dice si sono rivelati un reagente, un tampone identitario. 

 

Al contagio biologico, la pandemia, si accompagna quello culturale, un’infodemia (nota: ce la immaginiamo già come «parola dell’anno 2020» per l’Oxford English Dictionary): la diffusione ipertrofica e spasmodica di notizie – numeri, dati, grafici, stime, proiezioni, corsivi – che hanno finito per avvelenare l’ecologia comunicativa, creando una vera e propria «confusione semiotica» (come recitava un vecchio pezzo dei 99 Posse). Perché il virus oggi non è più soltanto un ottuso e micidiale nucleo di RNA la cui vocazione unica è replicarsi, ma è anche un nucleo di senso, una monade semantica che con altrettanta facilità riesce ad attecchire dappertutto: semplicemente perché qualsiasi contesto è fertile per parlarne. Ciascuno vi si confronta e vi si misura come può. Anche ricorrendo allo humour. È facilissimo ironizzare su come il virus e la quarantena abbiano cambiato la vita di milioni di persone (un esempio banale: gli utenti di Tinder, deprivati fino a data da destinarsi di quello che, non solo nei termini della teoria semiotica greimasiana, è il momento della performance) ed è altrettanto facile rilevare quei casi in cui non abbiano invece paradossalmente cambiato nulla (i medici negli ospedali, gli autotrasportatori sui loro mezzi, ma anche i grafici freelance abituati a lavorare da casa stanno ora esattamente dove stavano prima, anche se certamente non nelle medesime condizioni). 

 

Ovunque, da dovunque, abbiamo visto girare immagini simili, come i «saccheggi dei supermercati», con peculiari variazioni diatopiche già al vaglio dei sociologi: a Bologna sono sparite le uova, oltre all’amuchina, mentre negli Stati Uniti è finita la carta igienica. E così anche i meme – le frasi, le immagini e i video “buffi” con cui parliamo di noi e dei fatti nostri con la scusa di parlare di cosa ci accade intorno – non sono mai stati così globalizzati: perché adesso parlano tutti non solo nella stessa lingua (il famoso template, il «formato», che ne rappresenta la quintessenza), ma parlano tutti proprio della stessa cosa. Davanti al proliferare di meme e contenuti virali da ogni parte del mondo che hanno da subito accompagnato il corso della pandemia, mi sono chiesto se avessi la voglia e la forza di mettermi a studiare seriamente la cosa o quantomeno documentarla. Ho raccolto una quarantina di meme (ossia: una quarantina di occorrenze che facevano capo ciascuna a un tipo diverso), tra quelli che mi hanno colpito (nel senso letterale di «intercettato»). Dopo i video porno in cui le mascherine smettono di essere in latex e diventano quelle mediche, il murales che recita apocalittico – in senso echiano e non – «In media stat virus», dopo l’ironia sulle strade dei paesini del profondo nord vuote ora come vuote erano prima, dopo il papa che capisce finalmente che cosa volesse dirgli di tanto urgente quella signora cinese l’ultimo dell’anno, dopo John Travolta che si aggira confuso tra gli scaffali vuoti dei supermercati, Burioni che schiaffeggia un novax come Batman un Robin che aveva bisogno d’aripijasse, dopo i Beatles iconici sulle strisce pedonali di Abbey Road ma a distanza di sicurezza l’uno dall’altro, dopo Gramsci che scrive i Quaderni della Zona Rossa e Pellico Le mie quarantene, dopo l’apostrofe di Mattarella a un ormai proverbiale «Giovanni» (nota: rileggendo questo testo fra qualche anno, ci ricorderemo di cosa stiamo parlando?), dopo avere capito come la crisi pandemica stesse ridisegnando su di sé il patrimonio intertestuale, metalinguistico e autoriflessivo dei cosiddetti «fenomeni di Internet», mi sono fermato. Ma la portata della viralità comunicativa di questi giorni è stata subito colta da tanti altri studiosi, che hanno agito, diversamente da me, in maniera proattiva e sistematica. 

 

 

Giselinde Kuipers, sociologa dell’Università Cattolica di Leuven, e Mark Boukes, che insegna scienze della comunicazione in quella di Amsterdam, hanno lanciato uno studio sullo Humor during the global Corona Crisis, con lo scopo di indagarne il valore sociale nel quadro del cosiddetto disaster humour: non tutti accettiamo di buon grado una battuta sull’11 settembre, ma molti possono trarne un beneficio di qualche tipo, una qualche forma di sollievo (gli anglofoni parlano di coping, «adattarsi, fronteggiare una data situazione»). I due studiosi hanno approntato una pagina web attraverso cui raccogliere battute, immagini e meme del/sul Coronavirus. Finora hanno contribuito alla ricerca 1.357 utenti, da una cinquantina di paesi.

Un gruppo di studiosi dello IUSS di Pavia, al crocevia tra scienze cognitive e linguistica, coordinato da Luca Bischetti, Paolo Canal e Valentina Bambini, ha lanciato uno studio sull’«umorismo virale» basato su un questionario, i cui partecipanti devono valutare battute, vignette e meme veri e propri, a tema Coronavirus e non solo. Lo scopo è indagare quali siano i confini di liceità dello humour in situazioni del genere e quali siano i possibili meccanismi che sovrintendono alla categorizzazione di un dato contenuto come divertente o disturbante (in gergo internettiano potremmo dire lol vs. cringe).  

Vedremo cosa ci diranno questi studi, che rappresentano due interessanti esempi di meme studies su basi quantitative, come già da anni se ne conducono nei contesti anglofoni (la studiosa principale del campo è Limor Shifman, sociologa dei media attiva presso la Hebrew University di Gerusalemme, che si occupa di questi temi dal 2009 e che nel 2013 ha pubblicato per MIT Press uno dei testi di riferimento del settore, Memes in digital culture).

 

Il punto – mi sembra di potere dire – è che i meme, che li si voglia chiamare così o in altro modo, sono importanti. Perché rappresentano oggi il modo, trasversale a ogni dimensione sociolinguistica, in cui una data cultura, più o meno specifica o globalizzata, realizza la propria omeostasi, perché rappresentano il modo in cui si metabolizzano e negoziano contenuti e significati, in cui si cristallizzano abiti interpretativi e si definiscono e ridefiniscono quelli che Peppino Ortoleva chiamerebbe «miti a bassa intensità». 

Nel suo To Save Everything, Click Here, pubblicato nel 2013, Evgenij Morozov sosteneva che se Horkheimer e Adorno stessero scrivendo il loro Dialettica dell’illuminismo oggi dovrebbero rivedere il capitolo più famoso di quel libro «sostituendo il termine ‘industria culturale’ con ‘industria dei meme’». Ma è vero anche che i meme possono assumere, seppure in veste ludica (quando non propriamente demenziale), il ruolo di quelle «pratiche di resistenza» della quotidianità di cui parlava Michel de Certeau. Ciò appare particolarmente evidente quando i meme contribuiscono sì a rendere virale e ubiquo un dato contenuto o discorso, ma volgendolo «al secondo grado», come direbbe Gérard Genette, operando per appropriazione, distanziamento, virgolettatura, facendo quella che è a tutti gli effetti una parodia della viralità: i meme, cioè, non ci parlano direttamente del virus, ma obliquamente della nostra ossessione per esso. Parafrasando Roland Barthes (nelle sue conclusioni al saggio Società, immaginazione, pubblicità, pubblicato nel 1968), la vera possibile risposta al messaggio broadcasted, imposto, calato dall’alto, la vera possibile risposta al messaggio confuso e banalizzante della mitologia infodemica «consiste non nel rifiutarlo o nell’ignorarlo, ma nell’appropriarsene, nel falsificarlo, combinando in forma nuova le unità che a prima vista sembrano comporlo naturalmente». I meme sembrano fare precisamente questo, mettendo a nudo, con la loro sagacia, le loro forzature, il loro nonsense, la banalità del tormentone.  

 

Ridotti – e qui ci vuole, agambenianamente – a corpi biologici immobili e atomizzati, non ci restano che le parole. Noi umili artigiani degli studi sulla comunicazione sappiamo bene che di questa pandemia non ci libereremo presto, che se ne parlerà a lungo: siamo già invasi dai longform e ci attendiamo o stiamo noi stessi preparando call for papers, convegni (sperando che si tengano di nuovo faccia a faccia), saggi e libri di ogni sorta. Ed è normale che sia così. A ciascuno il suo alfabeto, il suo lessico e il suo genere testuale. Non ci restano che le parole. E i meme. Importanti anche e soprattutto perché stupidi. Necessari perché effimeri. Si può già ridere del Coronavirus? O è ancora troppo presto (too soon!, dicono gli anglofoni quando la battuta del comico scatta a “cadavere ancora caldo”)? Alcuni pensano che si debba ridere del Coronavirus, proprio perché in fondo forse non è il caso, proprio perché così in qualche modo se ne ridimensiona la portata, lo si normalizza, si prova a venire a patti con questo incommensurabile (a proposito di cose del genere, gigantesche, perturbanti, imprendibili, Timothy Morton ha parlato di «iperoggetti»). 

Per evitare il silenzio della pagina muta (e del template vuoto, suggerisce un post della pagina Facebook E-God, datato 7 marzo), non ci resta che sforzarci di riderci su, comunque. Come fa Kanye West in un vecchio meme remixato per l’occasione dall’instagramer @MasiPopal. Nonostante il peggiorare della situazione. 

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