Diario di un'insegnante / Scuola: scrutini e bocciature

15 Giugno 2021

Gli scrutini della seconda A si sono conclusi alle 21.40 di giovedì sera. Sei bocciati in una classe di venticinque. Sei bocciati sono tantissimi, sei persone rispetto alle quali domandarsi: abbiamo davvero fatto di tutto per vederli, ascoltarli, dare loro un posto, capire cosa stava accadendo e agire di conseguenza? No. Li abbiamo persi durante la dad, credo. Telecamere spente, connessi sì, connessi no, connessi ma assenti. Il tabellone dei voti lasciava poco spazio, nessun margine di intervento: tre debiti a settembre? Tre debiti a settembre a Ricardo che parla così poco e male l’italiano? Sono stata zitta e io non sto mai zitta in situazioni come questa: le cose sono spurie, c’è un altro lato da guardare – c’è sempre un altro lato da guardare –, ma erano tutte rosse le righe di quel dannato tabellone, a cosa potevo appellarmi?

 

Avremmo dovuto prenderci del tempo – abbiamo questo tempo? è previsto? – per dirci: questa classe è spaccata in due, che si fa? Nomi su uno schermo, nomi senza volto: come li vedi, come li raccogli, i silenziosi, quelli che in aula se ne stanno ai margini, i solitari? Non ci siamo interrogati sul punto in cui qualcosa si è inceppato. Dove abbiamo sbagliato? Questa domanda andava posta a gennaio: a noi, ai ragazzi, ai genitori. Quella “rete” di cui tanto si parla è stata davvero attivata? “I genitori li abbiamo avvertiti, contattati, lettere, telefonate: non si sono mai visti”. Se i genitori non si sono mai visti, se hanno ignorato ogni appello della scuola, l’unica cosa che avremmo dovuto dedurne è che c’era un problema, e non da poco, nella vita di Ricardo. 

 

Ma noi le vite degli altri le sappiamo immaginare? Le finestre illuminate la sera: intuiamo la cucina, i pensili, ci domandiamo perché diamine qualcuno scelga le luci bianche o, peggio, al neon. Sappiamo immaginare quel che ci somiglia, quel che potremmo essere noi. Il resto è complicato. Scostiamo lo sguardo. Ecco perché di Ahmed ci facciamo bastare il suo vivere con cinque fratelli e il suo parlare, in casa, soltanto arabo. Ecco perché della follia raccontiamo il lato romantico, il genio, il fascino. Ecco perché diciamo “diversamente abile” e parliamo di “bambini speciali”. Il tema dell’inclusione, demandato all’insegnante di sostegno, si traduce un po’ troppo spesso in un “pensaci tu che segui lui”, dove “tu” e “lui” diventano animali fantastici di Borges all’interno di un’aula scolastica, un poco discosti.

 

Ph. Rania Matar (2018)


Siamo arrivati a giugno di questo secondo anno d’eccezione. “Paghiamo il ‘liberi tutti’ dell’anno precedente”, si dice un po’ sommessamente nei corridoi. “Paghiamo” e “liberi tutti”, come ci fossero schieramenti. L’impressione, in alcuni consigli di classe, è che il linguaggio sia davvero quello della battaglia: numero di sanzioni disciplinari, voti, bocciature. Sono questi gli strumenti educativi a nostra disposizione? Questa eterna e insopportabile cantilena delle “bocciature per il loro bene” tiene ancora? Conosco l’importanza del fallimento, ma perché una bocciatura abbia il valore educativo dell’incontro con il limite, devono esserci alcune condizioni: culturali, sociali, pedagogiche.

Lo abbiamo detto spesso: il contesto è cambiato. Le leve del timore dell’autorità, e del dovere, non sono il cuore di questo tempo. Pietropolli Charmet ha spiegato con grande chiarezza le conseguenze enormi determinate dal passaggio da adolescenti schiacciati dalla colpa ad adolescenti schiacciati dalla vergogna.

 

In questo mutato contesto, in una scuola di periferia di Milano, la bocciatura ha un ruolo educativo? Cosa sarà di Ahmed? Il suo rifiuto della scuola che cosa è? È un gesto con cui si ritaglia uno spazio proprio rispetto al mandato genitoriale? Amhed si accorge, in questo inciampo, che il proprio desiderio non è garantito? Fa i conti con questa tappa fondamentale nella crescita di ognuno di noi, tappa che ci insegna a provare ancora, a scegliere la nostra via, il nostro stile, a abbandonare il porto sicuro e protetto di quello che gli altri hanno scelto per noi? È per questo che Ahmed non si è connesso? È un "no", il suo?

Non credo sia questo che incontriamo nelle aule oggi, penso anzi di poter dire che ci sia dell’altro. I giovani volti che abbiamo davanti agli occhi, e che devono “rifarsi un corpo”, rifarsi un’identità lontani dalle mura di casa, spesso hanno pochi strumenti per capire quale sia la partita in gioco. È questo il nostro campo, in queste mutate condizioni storiche, un campo che ci implica molto più – e molto prima – di nozioni, voti, note, promosso o bocciato.

 

Ph. Rania Matar (2009)


Forse l’impossibile presa in carico della differenza – il “matto”, il ragazzo tetraplegico che non sappiamo guardare perché non sopportiamo di essere visti nel nostro disagio, Silvia che non studia, non vuole studiare, non ha alcun interesse per quel che per noi è bellezza – passa per una fatica che facciamo – nonostante tutte le parole che cantano il vuoto, il niente, il buco, la ferita – a smettere di guardare il mondo dal lato del dire e non dello stare in ascolto, dell’emergere e non dell’accogliere, dal lato binario del più e meno.

Vittoria o sconfitta e, se anche è sconfitta, come facciamo della sconfitta una vittoria? Gli slogan motivazionali ripetono questo. Ecco perché detesto le metafore di guerra. Non si vince né si perde: né con la scuola, né con il cancro, né con la depressione. Non si vince né si perde con la vita, sopratutto.

 

Noi e loro, noi che accogliamo la loro differenza, noi che giudichiamo e comprendiamo e stabiliamo con definitiva certezza il senso del loro silenzio, del loro abbandono, del loro disertare la scena.

Ma quante sono le differenze? I “bisogni educativi speciali” si sono tradotti in un ampliamento dello sguardo diagnostico e dunque in un rimbalzare delle responsabilità: c’è una certificazione, un particolare eccezionale che richiede competenze che esulano dal ruolo di insegnante. La categoria di “bisogni educativi speciali” è cartina tornasole di un sistema che non funziona. Tutti i bisogni educativi sono speciali: moltiplicare le diagnosi non serve a niente. Educarci, come adulti, a guardare diversamente mi pare invece più prezioso.

Cosa vedo quando ti guardo? Che cosa mi invento per dare un posto nella classe a una differenza che sarà preziosa, per Sara come per Mohamed? Come posso raccontare – se tutto attorno a me insiste a dire il contrario – che bisognerebbe proprio dare ascolto a Gianni Celati quando ci dice che debolezza non è un termine negativo, e che dobbiamo pensare a un tipo d’uomo diverso dal tipo di uomo forte, che vuol essere sempre forte, vuole sempre aver ragione e che vuole sempre imporsi ovunque e su tutti. Celati parla in una scuola, parla proprio a degli studenti quando dice: “Non so se ve l’hanno detto ma prima o poi moriamo tutti!”. Siamo sempre esposti alla morte, e così credo che sia per questo che facciamo un gran baccano per farci vedere tanto e presto e per dire “Io!” e alzare la mano. In questo modo non vediamo la differenza tra Io e Tu. Tra Io che alza la mano e Tu che chissà cosa fa. Introdurre altri criteri, smetterla di guardare gli studenti lato deficit, lato etichetta diagnostica, ma scorgere il loro “più”, un “più” che delle volte – là fuori mi sentite? – non sappiamo riconoscere perché se ne sta rivolto al Tu, al Noi, rivolto alla mancanza e sordo a quel che è prestazione, carriera, vittoria, adattamento, american happiness.

 

L’anno prossimo cambio scuola. Una nuova nomina, interamente su filosofia e in una realtà un po’ differente da questa periferia di Milano. È difficile scrivere della scuola, ancora. È difficile perché mi pare di dire sempre e solo una cosa, sempre la stessa, sempre inascoltata: la scuola è condizione di possibilità della democrazia e dunque classi meno numerose; insegnanti selezionati diversamente; un docente di sostegno dedicato all’inclusione in ogni consiglio di classe. Tutto insieme sarebbe troppo, lo so, ma mi vengono in mente i versi di Agota Kristof, Vivere, e mi pare che questi verbi all’infinito, in fila, tutti, dal primo all’ultimo – morire compreso –, ci dicano: abbiamo altro da fare qui? Imparare amare innaffiare piantare piangere amare educare viaggiare soffrire ridere amare. Possiamo provare?

 

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