Letteratura e politica / Dante abusato
Durante il primo confinamento causato dall’epidemia di Covid-19, a farci “sentire italiani” è stata, per così dire, l’epidemia stessa, l’angoscia che un evento così terribile e inatteso aveva suscitato: tricolori sui balconi, canti dalle finestre e inevitabili, sovrabbondanti dosi di retorica (“andrà tutto bene”, “ne usciremo migliori di prima” e così via). Un anno dopo, agli italiani fiaccati da mesi di pandemia, ripiombati in zona rossa, non poteva bastare il repertorio dei mesi precedenti, ormai inevitabilmente usurato: occorreva affidarsi a un eroe nazionale senza macchia, evocare un grande nume patrio, attorno al quale la nazione, assai provata, potesse ritrovarsi. Chi, allora, se non il sempre caro e austero padre Dante?
La prima edizione della giornata celebrativa dedicata ad Alighieri, nel 2020 era occorsa proprio pochi giorni dopo l’inizio del primo lockdown e aveva colto tutti piuttosto impreparati: annullate molte delle iniziative previste, la ricorrenza era trascorsa senza troppi clamori tanto che i fondati timori che Stefano Jossa aveva espresso per tempo in un articolo su Doppiozero sembravano fugati. In questo 2021, invece, grazie soprattutto al fatto che il Dantedì è caduto nell’anno settecentenario, ma anche a causa della perizia nel frattempo acquisita nella realizzazione di eventi a distanza sulle piattaforme digitali, Dante, mercé i suoi numerosi portavoce, ha potuto benedire i suoi figli italiani da ogni schermo della nazione. Questo Dante settecentenario, infatti, perfino più di quanto si potesse temere, è stato prepotentemente italiano.
Già le prime avvisaglie non facevano ben sperare: prima che l’anno cominciasse, per esempio, il giornalista Aldo Cazzullo aveva licenziato un libro di successo, A riveder le stelle, il cui sottotitolo recitava; Dante il poeta che inventò l’Italia. Sono passati sette secoli, qualche cosa nel corso degli anni sarà pure accaduta, ma niente da fare: “noi italiani” (davvero difficile scriverlo senza virgolette) siamo sempre quelli là, inchiodati al nostro eterno presente, quelli che avrebbe sapientemente descritto il poeta di Beatrice, denunciando implacabilmente i nostri vizi ed esaltando le nostre virtù, invariati nel corso del tempo. Finanche la giornalista di Rai due, presentando, proprio in occasione del Dantedì, la lettura in prima serata del XXVII canto del paradiso di Roberto Benigni, ha esaltato l’afflato patriottico che le terzine del Ghibellin fuggiasco infondono in tutti noi: «grazie Benigni, e grazie Dante di farci sentire italiani». Mercé il poeta e il suo canto immortale ci sentiamo italiani, dunque, anche se non si sa bene in che modo, rispetto a chi, e soprattutto cosa mai esattamente voglia dire “sentirsi italiani”: chissà se varrà per chi in Italia è nato, ha studiato (magari perfino la Commedia!), è cresciuto, ma italiano per cittadinanza, ai sensi di legge non è; e uno svizzero di Chiasso, per dire, vibrerà di spirito irredentista, partecipando al giubileo dantesco?
Nondimeno, ci è toccato prendere atto che il rigenerato orgoglio nazionale di matrice dantesca può arrivare al punto di non paventare, se necessario, crisi diplomatiche con gli stati stranieri, allorquando un loro cittadino mancasse di rispetto al nostro poeta. Nonché a incorrere a imbarazzanti figuracce, come è avvenuto quando un quotidiano italiano ha assai malamente riportato un articolo dantesco del critico del «Frankfurter Rundschau», Arno Widmann, imputandogli di avere maltrattato Dante. Non era così, ovviamente (e sarebbe stato sufficiente risalire alla fonte), ma tanto è bastato per scatenare la reazione sui social di alcuni leader politici della destra (Salvini, Meloni) e addirittura del Ministro dei beni culturali in carica, Enrico Franceschini. (Un primo bilancio critico del Dantedì 2021 lo aveva già scritto Antonio Montefusco per «Jacobin»)
A disinnescare questo armamentario retorico, grossolano e robusto, potrebbe bastare la lettura del saggio, tempestivo e opportuno, di Francesco Filippi, Prima gli italiani! (sì, ma quali?). Ma, per il caso in questione, potrebbe non essere sufficiente. Perché non si tratta certo di mettere in discussione il valore dell’opera dantesca, né di negare la sua rilevanza nella storia letteraria e civile del Paese nel corso dei secoli, ovvero di sminuirne il suo contributo decisivo per la codificazione di una lingua nazionale. E nemmeno di biasimare l’orgoglio con il quale, nei media generalisti, si celebra una gloria nazionale riconosciuta ovunque nel mondo, quand’anche affettate e approssimative siano queste liturgie. Del resto, in occasione dell’anniversario, non sono mancate pubblicazioni capaci di analizzare e descrivere, ma anche di divulgare e finanche di celebrare, con intelligenza, L’Italia di Dante, per citare il titolo di una di queste: il ponderoso e a suo modo leggiadro Viaggio nel paese della Commedia, dettagliatissimo baedeker dantesco e insieme personale diario di viaggio, lungo la penisola e le isole, di Giulio Ferroni. Oppure di volare lontanissimo dalla nostra noiosa ossessione identitaria, sulle ali dell’intelligenza e della più vitale filologia, come ha fatto Federico Sanguineti col suo Le parolacce di Dante Alighieri. Nondimeno, trascorso ormai per metà l’anno dantesco, forse non è inopportuno riflettere su questo rinnovato e un tantino minaccioso uso pubblico del poeta.
Difficile stabilire se sia più rassicurante o più inquietante ricondurre questa recrudescenza a una tradizione persistente, la quale coincide in maniera quasi didascalica con la genesi del nazionalismo moderno, con le sue degenerazioni e con il suo tralignamento novecentesco, ovvero se si tratti, più banalmente, di una sovreccitata reviviscenza da comunicazione social-televisiva in tempi di claudicante qualità della comunicazione culturale (o meglio di esiziale difficoltà a selezionare informazione culturale di qualità). Di quella tradizione ha ricostruito la storia – una storia culturale che mai come in questo caso si intreccia con la storia politica – Fulvio Conti in Il sommo italiano. Dante e l’identità della nazione, preziosa lettura da collazionare quantomeno con un saggio di Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, apparso qualche anno fa su un fascicolo di «The Italianist» e con il più recente lavoro di Stefano Jossa, Dantisti, dantofili, dantologi, dantomani e dantofobi nel dibattito estetico (e politico) nell’Italia di Primo Novecento, raccolto in Dantesque. Sur les traces du modèl per le cure di Giuseppe Sangirardi e Jean-Marie Fritz.
È tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, come si diceva, che l’interesse per Dante torna a prendere vigore, dopo secoli nei quali l’attenzione verso Alighieri e il suo capolavoro era stata discontinua e occasionale. Ad alimentarlo sono i poeti e i letterati: Vittorio Alfieri, anzitutto, ma anche Vincenzo Monti, che ne riprende metro e intonazione nella Bassvilliana, e poi Ugo Foscolo (il quale, come è risaputo, tanto nei Sepolcri quanto nel più tardo Discorso sul testo della Commedia di Dante, sarà il primo a interpretarlo come un campione del neoghibellinismo). Ma è forse più interessante rilevare come sia un protagonista politico del Risorgimento quale Giuseppe Mazzini a fare, per primo, di Dante il profeta della nazione, sin dai suoi scritti giovanili, «di nessun valore, se vogliamo vederci uno studio di critica storica o estetica», ma di grande interesse su come il patriota attribuisse le proprie convinzioni a Dante, come rilevò Gaetano Salvemini. La “nazionalizzazione” dell’autore della Commedia aveva dunque inizio.
Dodici anni dopo che Giacomo Leopardi licenziava la canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (1818), il monumento veniva eretto, ovviamente dentro alla chiesa di Santa Croce. Un cenotafio (le spoglie del poeta, ancorché ripetutamente reclamate dalla municipalità fiorentina, di centenario in centenario, rimarranno a Ravenna) realizzato da Luigi de Cambray Digny e Stefano Ricci, in cui l’allegoria dell’Italia è finalmente fiera, impettita ai piedi del suo poeta, a differenza di quella prostrata e afflitta sul sepolcro di Vittorio Alfieri sito nello stesso luogo, scolpita nel 1810 da Antonio Canova.
Sarà la prima di una lunga serie di statue che, specie dopo l’unificazione, avrebbero popolato le piazze delle città della penisola, modificandone la toponomastica. Nel frattempo, a proposito di tombe, quella di Ravenna diventava tappa irrinunciabile del viaggio in Italia, assecondando la fascinazione romantica per i sepolcri: dopo Alfieri, vi faranno tappa, tra gli altri, Byron, Shelley, Chateaubriand, de Musset, James. Alla vigilia dell’unificazione, dunque, Dante era già «l’Italiano più italiano che sia stato mai», come scriveva Cesare Balbo, primo presidente del consiglio del Regno di Sardegna, nel 1853.
Assai interessante, specie per cedere alla tentazione di azzardare qualche confronto con i fasti dell’odierno settecentenario, è la ricostruzione delle cerimonie e degli eventi organizzati in occasione di altre due ricorrenze fatidiche: quella della nascita del poeta, nel 1865, e quella di cento anni or sono, alle quali il saggio di Conti dedica svariate pagine, nonché di quanto è accaduto nei cinquantasei anni intercorsi tra i due anniversari. Il centenario del 1865 cadeva pochi mesi dopo la proclamazione di Firenze nuova capitale del Regno: la città toscana diveniva pertanto l’epicentro delle celebrazioni dantesche, della «prima festa nazionale della nostra rigenerazione», tra innalzamento di nuove statue e aggiornamento della contesa per le Dantis ossa, ormai divenute le più preziose reliquie per la nuova la religione della patria, oggetto di un culto che, come si conviene in casi del genere, dal sacro virerà rapidamente verso il grottesco. In questa ricapitolazione sarebbe esiziale trascurare la Storia della letteratura italiana di Francesco de Sanctis, che fu, tra l’altro, manuale scolastico per generazioni di studenti italiani: nell’andamento dialettico del grande racconto desanctisiano, il magistero dantesco si ricongiungeva agli ardori risorgimentali, suggellando la sintesi dello spirito nazionale.
Ben presto, dopo appena un giro di letture, ovviamente la declinazione del paradigma desanctisiano si farà subito corriva: la riscoperta di Dante, poteva scrivere Ulisse Micocci nel 1890, era «effetto della reazione giusta e naturale contro l’indifferenza del secolo XVIII e contro l’Arcadia e i metastasiani che tentarono di esporre Dante alla derisione del mondo». Questo Dante redivivo della Nuova Italia, dunque, fiero e virile, riscattava la poesia nazionale dalle effeminate lepidezze barocche e dal fatuo bellettrismo arcadico e vendicava la perdita del primato nazionale nel campo letterario patita due secoli prima.
La consacrazione dell’icona dantesca nell’Italia liberale (icona laica e neoghibellina, occorre ribadire, solido baluardo contro il neoguelfismo, giacché i cattolici faticheranno ancora qualche anno prima di conquistarsi un loro Dante) venne alimentata ovviamente da fatti culturali o paraculturali.
Gran parte degli esponenti della Scuola storica furono coinvolti in questo processo: Zingarelli, D’Ancona, Parodi, D’Ovidio, lo stesso Rajna (ma se ne smarcherà un grande filologo dantesco come Michele Barbi), sebbene questa egemonia dei filologi scatenasse le reazioni aggressive dei giovani Prezzolini e Papini (la contesa è indagata diffusamente nel saggio di Jossa; può essere interessante aggiungere che Prezzolini, dopo la sbornia del Ventennio – dalla quale, pur da conservatore, si tenne lontano, a differenza del suo antico sodale Papini – tornasse sul tema con un titolo emblematicamente provocatorio: il quarto capitolo del suo L’Italia finisce, ecco quel che resta, del 1948, si intitola infatti Dante – l’antitaliano. ); nel 1888 veniva fondata la Società dantesca italiana (già ne erano sorte in Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti) e contestualmente, dopo una vasta mobilitazione intellettuale, si istituivano due cattedre dantesche, a Firenze e a Roma: Giosuè Carducci accettò di tenere la lezione inaugurale di quest’ultima nell’aula magna dell’Università di Roma, pur rifiutandosi di averla assegnata, rimanendo una delle poche voci lucide e critiche nel tripudio assordante dei dantofili e dei dantomani (non molto tempo dopo sarà Benedetto Croce, anche nelle vesti di ministro, ancora sulla base di fondate istanze culturali oltre che politiche, a opporsi a questa monumentalizzazione e alle conseguenti misinterpretazioni).
Non mancarono, inoltre, autorevoli sponde istituzionali, anche tra le più alte cariche dello stato. Il caso di Sidney Sonnino, dantista appassionato, bibliofilo e collezionista di testi (fino a possedere una delle più cospicue e preziose biblioteche dantesche al mondo), autore egli stesso di una Lectura Dantis già nel 1905, poco prima di diventare per la prima volta Presidente del Consiglio, è emblematico: strenuo sostenitore dell’istituzione della Casa di Dante, che venne costituita nel 1914 nella sede del palazzo degli Anguillara a Trastevere e lo ebbe tra i primi presidenti, donerà alla Fondazione la sua biblioteca e vi terrà una Lectio in occasione del sesto centenario del 1921. Anche la produzione culturale di massa non avrebbe esitato a fornire il proprio contributo alla causa e a cavalcare l’onda: si pensi soltanto all’Inferno, primo kolossal della cinematografia italiana (una produzione costata 100.000 lire), diretto da Francesco Bartolini, Giuseppe de Liguoro e Adolfo Padovan, la cui prima si tenne il 22 marzo 1911.
Non ci potrà sorprendere, a questo punto, l’arruolamento del Sommo, già nume dell’irredentismo triestino, eroico combattente, nella Grande guerra. Bastino qui le citazioni di due ferventi interventisti, riportate da Conti; Emanuele Sella, economista dell’Università di Messina, scriveva: «la lotta fra gli interventisti e i neutralisti […] è una intima e inconsapevole battaglia fra i cultori di Dante e coloro che Dante hanno ignorato ed ignorano»; Francesco Ruffini, ministro della Pubblica istruzione, nel 1917, rilanciava: «Dante al di sopra di tutti i più sapienti nostri reggitori politici e di tutti i più valorosi nostri condottieri militari, l’autore primo e il duce supremo di questa grande e santa impresa. Dante va innanzi alle forti schiere d’Italia, vessillifero divino della nostra gente». E proprio la Casa di Dante, dunque, sarebbe diventata inevitabilmente una delle trincee del cosiddetto “fronte interno”. Dante «fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele», scriverà nel 1937 Giuseppe Antonio Borgese.
3) L’anniversario del 1921 costituisce una sorta di apoteosi e al contempo uno snodo cruciale di questo processo che abbiamo sommariamente definito di “nazionalizzazione”. Finalmente, Papa Benedetto XV, con la lettera enciclica del 30 aprile 1921, rivolta ai docenti e agli alunni di tutti gli istituti cattolici, invitava a leggere e a studiare Dante, «il cantore più eloquente del pensiero cristiano», restituendo un pezzo di Dante al mondo cattolico e al Partito Popolare. Sempre nel corso delle manifestazioni per il seicentenario avvenne una sorta di sinistro passaggio di testimone, dai nazionalisti liberali a quello che, a novembre, sarebbe diventato il Partito Nazionale Fascista: nel pieno delle celebrazioni dantesche, nel settembre di quell’anno, infatti, Ravenna venne invasa da circa tremila fascisti al comando di Italo Balbo e Dino Grandi (1.500 ferraresi con Balbo, altrettanti bolognesi con Grandi). La marcia su Ravenna, nel corso della quale fece la sua comparsa la camicia nera come divisa ufficiale degli squadristi, fu la prima grande manifestazione di massa del fascismo, costituendo la prova generale della marcia su Roma dell’anno dopo. Dopo avere assaltato e devastato la Camera del lavoro e le sedi dei partiti di sinistra, scontrandosi in strada con i socialisti e perfino con i cattolici, le squadre fasciste si raduneranno, insieme ai genitori dell’eroe di guerra Francesco Baracca, davanti al sacello di Alighieri: il fascismo, dopo essersi intestato l’eredità di Vittorio Veneto e dell’impresa fiumana, come è stato scritto, si consacrava alla propria missione di redenzione della nazione «presso all’urna dove dorme il Padre spirituale della nazione».
Naturalmente il regime, una volta instauratosi, ebbe gioco facile nel fare indossare a questa sorta di ieratico lare patrio la camicia nera e a suggellare la definitiva fascistizzazione del poeta di Beatrice. Restava, a quel punto, solo da certificarne la purezza razziale: a questo avrebbero tempestivamente pensato gli scienziati. Alla chiusura delle celebrazioni del 1921, infatti, si pensò bene di condurre una nuova ricognizione (dopo quella del 1865) delle spoglie mortali di Dante. A eseguirla furono chiamati due fra i maggiori antropologi dell’epoca: Giuseppe Sergi e Fabio Frassetto. I risultati vennero pubblicati in due articoli scientifici, nel 1921 e nel 1924: grazie alla recognitio exuviarum il Sommo poeta poteva essere proclamato, anche in nome della scienza, «il rappresentante più glorioso e più autentico della stirpe mediterranea», un «italiano di sangue e di stirpe». Un italiano vigorosamente “maschio”, oltretutto: come riportato da Conti, il professor Frasetto rimarcava puntigliosamente le caratteristiche virili che lo studio condotto sulle ossa del poeta rivelava: «la pelvi di Dante mostra spiccatissimi i caratteri sessuali maschili, tanto morfologici quanto metrici». Alcuni anni dopo, ovviamente, su questi presupposti, il poeta campione antesignano della stirpe italica sarebbe stato chiamato a legittimare la legislazione razziale del regime. Altrettanto prevedibilmente, l’idiozia fascista riconobbe in Mussolini (dantofilo anche lui, ça va sans dire) il Veltro profetizzato da Dante: il saggio di Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, del 1927, è probabilmente la testimonianza più significativa della sussunzione della figura e del pensiero di Dante, finanche del Dante politico, alla retorica del Ventennio. La canonizzazione delle opere dantesche nella scuola fascista, da Gentile a Bottai, divenne funzionale all’indottrinamento ideologico perseguito dal regime (ne dà conto Albertini nel suo saggio), e perfino l’interpretazione di una terzina profetica tra le più oscure della Commedia venne piegata alla propaganda:
Nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque
(Purg., XXXIII, 41-43)
La cifra trascritta in numeri romani, DXV, da gran parte dei commentatori fino ad allora interpretata come un riferimento all’imperatore, verosimilmente Enrico VII (DUX), non poteva che essere una predizione dell’avvento del «Duce Magnifico della nuova Italia» (questa esegesi viene ripresa in una sezione del saggio del 2018 La nazione fatidica. Elogio politico e metafisico dell’Italia, scritto da Adriano Scianca, uno dei leader di Casa Pound). Il maestoso Danteum, una sorta di tempio laico da edificare a Roma, commissionato nel 1938 agli architetti razionalisti Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri, avrebbe dovuto eternare il culto nazionale per l’autore della Commedia. A causa dell’entrata in guerra dell’Italia non venne mai realizzato: ce ne resta il progetto, dal quale recentemente è stato realizzato un rendering digitale.
4) L’avvento della Repubblica, insieme agli italiani liberò per così dire anche Dante, il quale, sciolto finalmente dalle mansioni di vate della nazione, ha potuto circolare, verrebbe da dire gioiosamente, nelle illustrazioni, nel teatro d’avanguardia, nel fumetto, nella pubblicità, in televisione, fino a trasformarsi in una icona pop (ne scrivono Alberto Casadei e Paolo Gervasi, La voce di Dante. Performance dantesche tra teatro, tv e nuovi media, e ancora Casadei nel lepido Dante. Storia avventurosa della divina commedia dalla selva oscura alla realtà aumentata. Ma propiziò altresì quella feconda stagione di studi danteschi che ebbe tra i suoi protagonisti Contini, Petrocchi, Sapegno, dediti alla cura dei testi danteschi quanto poco avvezzi a ricavarne santini nazionalisti. Tornando ai nostri giorni, proprio l’università, a dispetto dell’ennesima campagna denigratoria promossa da alcuni organi di stampa giusto a ridosso del Dantedì, si può dire che si sia tenuta lontana dalla retorica inutile anche in occasione del settecentenario: le attività dell’Associazione degli italianisti e dei tanti atenei che hanno organizzato congressi e cicli di seminari, solo per fare un esempio, sono state tanto ricche quanto varie, tra ricerca e divulgazione, e a bassissimo tasso di enfasi nazionalistica. Lo stesso può dirsi per la scuola italiana, nella quale Dante e la Commedia si leggono e si studiano con assiduità e passione, a dispetto delle ricorrenze e degli anniversari. E con buona pace di chi, in un libro intitolato addirittura Stil novo, pochi anni fa, non trovava di meglio che scrivere:
Dante appartiene a quei personaggi rovinati dalla scuola. Ce lo figuriamo sempre uguale, sempre nel mezzo del cammino, noioso come la spiegazione di un professore arrugginito. [...] Spesso ce lo presentano in modo monotono. E invece Dante era un ganzo. Amava l’amore, amava la politica, amava le passioni forti. Detta male, gli garbava vivere. E certamente era un uomo a colori, non una statua in scala di grigi come ormai ci siamo abituati a immaginarlo. (Matteo Renzi)
Un altro ottimo spunto per riflettere, nelle solite grigie e cadenti aule scolastiche della Repubblica (le quali, ironia a parte, tali rischiano di rimanere nell’anno di Dante e della pandemia, vista la decurtazione di 2,5 milioni di euro per l’edilizia scolastica dal Piano nazionale di ripresa e resilienza), sugli usi politici sbagliati, per dirla con Calvino, che si possono fare di un grande autore.