Richard Eyre, Ian McEwan / Il verdetto. Amministrare la giustizia

9 Novembre 2018

Quando un romanzo diviene film è discussione obbligata se il primo sia preferibile al secondo o se il secondo sia fedele al primo.

È questo uno dei possibili approcci a Il verdetto, da poco uscito al cinema con la regia di Richard Eyre e la sceneggiatura di Ian McEwan, autore del romanzo da cui la pellicola deriva, La ballata di Adam Henry (Einaudi, 2014). Ma un'altra prospettiva emerge, in linea con le intenzioni dell’autore: la difficoltà di amministrare la giustizia in un mondo sempre più complesso e soprattutto pluriculturale.

Il giudice Fiona May, “My lady” per il ruolo di vertice ricoperto nella magistratura britannica, si occupa di diritto familiare e in particolare del diritto dei minori, tanto che il titolo inglese del romanzo è The children act. Mentre il romanzo si occupa di più casi, sempre in coppie provenienti da culture diverse da quella inglese (dalla scelta della scuola tra genitori separati alla facoltà di portare all’estero il figlio da parte di un padre), il film ne tratta due soltanto.

 

Inizialmente la scena è occupata dalla scelta se dividere due neonati siamesi, uniti per il cervello. La discussione è serrata: con la separazione ne morirebbe uno solo; senza, morirebbero entrambi. La decisione finale è per il minor danno, quindi per l’intervento.

Maggior spazio è dedicato al secondo caso, quello di Adam Henry, giovane al confine della maggiore età, malato di leucemia, che rifiuta le trasfusioni per obbedire ai principi dei Testimoni di Geova in cui crede, come l’intera sua famiglia, che lo appoggia. La giudice Fiona deve decidere in poche ore per il rispetto della volontà del giovane, condannandolo così a morte, o per la trasfusione, salvandogli la vita. Non dovrebbero esservi dubbi ad applicare la legge protettiva dei minori, trascurando morale e religione. Eppure Fiona esita, sospende la procedura, va a parlare con il giovane in ospedale e poi adotta la soluzione prevista. 

 

Ecco emergere i temi cruciali della decisione giudiziaria, sul "verdetto", proprio come vuole il titolo del film. Il primo riguarda i criteri su cui tale decisione si basa, il secondo i costi personali che impone. La questione è peculiare per la cultura giuridica anglosassone: rari sono i romanzi o le pellicole che trattano quest’argomento, assegnando privilegio all’inchiesta, alla raccolta delle prove, allo scandaglio dei personaggi, all’individuazione del colpevole, alle qualità dell'investigatore. E poi, in aula, mostrare il confronto tra le tesi, l’arroventarsi del clima tra le parti, il loro incrociarsi da cui nascono gli elementi che conducono al verdetto. È il modello del processo accusatorio, accolto timidamente anche in Italia nel 1989, dove il giudice vive defilato, autorevole spettatore di contrapposte tesi di cui non è attore. E non a caso nasce in paesi che esaltano ed incarnano lo spirito della combattiva competitività e dello spirito agonistico.

 

A dispetto del titolo identico, Il verdetto è stato anche un film del 1982 centrato sulla figura dell’avvocato crepuscolare Paul Newman. Il regista, Sidney Lumet, nel 1957 si era cimentato in ben altra prova, La parola ai giurati, dove lo spazio centrale della vicenda era occupato proprio dal tormento del decidere, da quella situazione segnalata dal filosofo-giurista Carl Schmitt come “la rescissione autoritaria del dubbio”. E quel film dava corpo a uno dei problemi cruciali della sentenza, l’ondeggiare tra la risposta, spesso meccanica, logico-consequenziale alle regole scritte e l’emozione, il trasporto, il “pre-giudizio” che anima il magistrato persona, di carriera o giurato. È il ‘processo invisibile’ di cui si è già parlato, la presa di coscienza che l'esito processuale formale risponde ad un “fatto incarnato”, strutturato non su muscoli e scheletro ma su carne e cuore pulsante.   

 

Ma quali sono le basi della decisione che indica questo film-romanzo? Il primo rinvio è al rapporto tra diritto e morale, tra lo stato di diritto e le regole non scritte. È la legge di Antigone, l’acquisizione secolare che la legge non sempre coincide con ciò che è giusto e che l’aspirazione collettiva è che si realizzi una ‘etica giusta’. La protagonista è seria e puntigliosa, autorevole ma non autoritaria, il giudice che ciascuno vorrebbe risolvesse un proprio caso. Sebbene in Gran Bretagna non viga la nostra tradizione e si applichi la Common Law, cioè la tradizione giurisprudenziale, esistono anche là testi di legge, come quello sui minori del 1989. E Fiona lo applica con dedizione, proteggendo un soggetto che ha uno status “minorato” proprio perché minore, un soggetto che deve essere per statuto gestito da altri. Ma qualcosa scricchiola nella struttura quasi metallica di Fiona. Il suo sguardo, sicuro e senza incertezze, si appanna ed esce dagli schemi. Inaugura una prassi prima mai adottata e va all’ospedale per incontrare il giovane Adam. Mentre fino a quel momento le emozioni erano state soffocate per non alterare il giudizio, ora hanno il sopravvento. Il suo mondo, fino a quel momento muto rispetto all'incarico, prende spazio e si allarga. In ospedale sorride al giovane, e l’attimo in cui gli sguardi s’incontrano cambia la loro vita. Il giovane trasfuso inizia un nuovo percorso trasferendo il culto per la fede religiosa al culto per Fiona. All'entità religiosa dei Testimoni di Geova si sostituisce la figura affettiva di Fiona. Alla fine il giudice deciderà per le trasfusioni come la legge prescrive a protezione del minore, ma sorge il dubbio che esista anche “un’altra faccia della luna”, quell’irrazionale che, confinato ai margini, scombina la logica.

 

A questo profilo se ne affianca un altro, imponente e complicato, che permea l'opera. 

Si tratta del rapporto tra legge e culture, siano esse politiche o religiose, originarie o importate, lecite o devianti. Connesso, ma non subordinato, è quello del significato dell’identità, soprattutto in una dimensione globalizzata. Ancora di recente si è impegnata su questa riflessione Cinzia Sciuto (Non c’è fede che tenga, Feltrinelli, 2018), affrontando un tema gigantesco dalle variegate risposte. L'autrice s’innesta nel filone critico del multiculturalismo, in auge nel passato quando il relativismo era considerato la nobile derivazione della tolleranza, che non discrimina ma apre a tutti. Oggi invece è appannato, ha subito numerosi scossoni. Anche non recenti: tra questi, piace ricordare Ernesto De Martino, quando metteva in guardia dal considerare le culture come 'una sfilata di moda' (Il mondo magico, Bollati Boringhieri, 2007); o quando taluno riteneva l'identità una nozione di chiusura, quasi una "cultura marmellata" da cui scaturisce un mondo "leggero, soggettivistico, asistematico, ostile al prendere posizione" (Giovanni Jervis, Contro il relativismo, Laterza, 2005). Per giungere al ruvido intervento d’intellettuali da combattimento che hanno reclamizzato il termine 'oicofobia' per indicare che "l'origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica e in cui una sola identità è tacciata d’irrealtà, quella nazionale" (A. Finkielkraut, L'identità infelice, Guanda 2015).

 

 

Indimenticato (ed anche paradigmatico, per il posizionamento di posizioni contrapposte) è stato lo scontro ai vertici tra Claude Lévi-Strauss e Roger Caillois. Il primo si lamentava della chiusura, per diffidenza o paura, dell'Occidente a ricomprendere culture lontane. Il secondo (in Diogene coricato, Medusa, 2004) criticava frontalmente quella posizione sostenendo l’impossibilità di confrontare le culture in termini di equivalenza (si veda anche, su doppiozero, Mario Porro: Le razze non esistono). 

 

Ma intanto, nel fiorire della discussione, quale posizione devono prendere i Tribunali di fronte a 'culture asimmetriche', talora tutte sorte nel medesimo luogo, talaltra anche importate? Questo è uno dei temi forti del film-romanzo offerto alla riflessione del pubblico. Innanzitutto: è preferibile una legislazione analitica e dettagliata o una giurisprudenza fluida legata e attenta allo scorrere del tempo? La risposta per gli anglosassoni è scontata, privilegiando loro la seconda, mentre le istituzioni continentali, tra cui la nostra, sono meno propense alla discrezionalità e più versate alla normazione.

 

E poi, se si accedesse a questa seconda inclinazione, sono coltivabili le strade del pluralismo normativo per cui ciascuna cultura ha la propria giustizia parallela, persino propri Tribunali, o deve essere stabilita l’uniformità istituzionale? In generale, questa soluzione (come lo “Sharia Council”, tribunale islamico britannico) consente agli immigrati di ritrovare la propria cultura di origine, con una sorta di rivincita della tradizione. Trascurando ogni altra considerazione, nasce un intrigo per le competenze non sempre sovrapponibili e dai confini friabili. In Italia, secondo la giurisprudenza, non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in statuti individuali quante sono le etnie che la compongono. E questo per l’unicità del tessuto sociale e quindi l’unicità dell’ordinamento, che non rende ammissibile l’ipotesi della convivenza in un unico contesto di culture tra loro confliggenti.

 

La risposta, nel mondo, però è variegata e si sviluppa con normative specifiche, deroganti quelle comuni. Dal Canada all'Australia, dal Perù allo stato dell'Arizona, alla stessa Inghilterra, che ha stabilito specifiche norme per categorie d’immigrati e per casi particolari (guida dell'auto, cantieri edili) o per gli ebrei (dal 1950 possono aprire i negozi la domenica). Difficile fornire risposte sicure, anche se l'impostazione prevalente è quella di accreditare specifiche disposizioni o deroghe agli immigrati o ai credenti di altra religione, purché insediati sul territorio da tempo (con la conseguenza di irrigidire le maglie nei confronti del migrante arrivato di recente). 

 

Quando si stabilisce che il tribunale ordinario sia uguale per tutti, emerge la difficoltà di entrare nell'universo di altri mondi culturali. E soprattutto la necessità preliminare di sciogliere due nodi cruciali. Il primo è stabilire se quella accampata dal soggetto da giudicare è "cultura" nel senso che è ancora attuale, gli elementi caratterizzanti sono stabilizzati, esiste una comune valutazione tra i componenti del gruppo. Non solo: si tratta anche di rilevare le differenze della cultura ospitata con quella del paese ospitante, e individuarne il divario reale, sempre che sussista.

Superato questo passaggio, si tratta di verificare se la "cultura" ospitata ha realmente condizionato il comportamento che devia dalle regole comuni. Nel film, l'uscita dal protocollo di Fiona (recarsi in ospedale per verificare la scelta del giovane) è in parte giustificata dal fatto che si tratta di un minore; al contrario, se si fosse trattato di un maggiorenne, Fiona avrebbe avuto l’obbligo di farlo, poiché decisivo l’accertamento dell’influenza sulla volontà è decisivo. E allora si apre la porta agli esperti, ai 'test' culturali, all’innovativa professionalità richiesta al giudice, che diviene anche "antropologo" secondo uno stimolante spunto (I.Ruggiu, Il giudice antropologo, F.Angeli, 2014).

 

Il problema, già non semplice, si complica ancora quando accade - come accade - che la condotta incriminata dal paese accogliente sia invece ammessa in quello di origine da cui il migrante è partito. Un caso italiano ha avuto molto eco. Si tratta della vicenda del Kirpan, pugnale sacro dei sikh, portato per strada con serena e mite compostezza da un cittadino indiano in una cittadina della pianura padana, senza sapere che in Italia occorre il porto d'armi. Ne è seguita la condanna, confermata nel 2017 dalla Cassazione che ha stigmatizzato trattarsi di arma per la legge italiana perché “atta ad offendere” e che nulla a che fare con la libertà di culto. Questa è vicenda in verità poco grave salvo per le credenze del sikh, diviene illuminante. E si potrebbe esporre una casistica ondeggiante dalla sistematica elemosina dei rom o di migranti da paesi del nord Africa alle mutilazioni genitali femminili, dalla gestione dell'assetto familiare alla educazione dei figli, alla nozione di onore.

 

Il problema è aperto, dalle svariate sfumature come la giurisprudenza italiana ed europea conferma e ricorda la Sciuto. Ma lo snodo è uno: la condotta "culturalmente orientata", eventualmente scriminante e protettiva secondo le norme del paese di origine, vale anche nel paese che la censura? È una "cultural defence" valida comunque? Esiste invece un'etica minima, principi o regole che impongono invece priorità? E poi ed ancora, lo Stato si può permettere un ruolo di emancipatore di altre culture, pur accreditate, presenti nel mondo e forse anche di tradizione antica? Gli è consentito mostrarsi prevalente su di esse, e quindi mostrare la priorità della propria cultura occidentale?

 

Su questo Umberto Eco, con la consueta arguzia in campi anche non suoi, rifletteva paradossalmente: “se viene a casa nostra l’ultimo mangiatore di uomini della Nuova Guinea e vuole farsi arrosto un giovanotto ogni domenica, siamo d’accordo e lo mettiamo in galera. Ma negli altri casi?”  (Le guerre sante, in Passo del gambero, Bompiani, 2006). Come osserva Sciuto, le diverse culture non possono essere rispettate in quanto tali, ma nella misura in cui non interferiscono con i principi del paese ospitante. Prima, come notava M. Amis, “devono fare ordine a casa loro” (Corriere della sera del 17.9.2009)

E poi: è sufficiente, per ammettere 'il diritto alla differenza' il limite di non cagionare un danno ad altri o occorre qualcosa di più, un valore, un principio? Qui si apre l'ennesima frattura. La sentenza della Cassazione sul kirpan, citata prima ha fornito un'indicazione precisa. Gli immigrati, che sono venuti a vivere nel mondo occidentale hanno l'obbligo di conformarsi ai valori della società in cui si sono stabiliti. E non è ammissibile, prosegue la decisione, 'che l'attaccamento ai propri valori, seppur leciti secondo le leggi del paese di provenienza, porti alla cosciente violazione di quelli della società ospitante". 

 

Ecco il punto: il reato culturale non è ammissibile quando il paese di origine, che ammette il comportamento, soccomba rispetto al paese d'arrivo, in quanto quest’ultimo non le ammette. E questo sulla base dei "valori occidentali". 

Non tutti la pensano in questo modo, tra questi la Sciuto che parla di “manifesto laico”, e sono in molti. I "valori " di un mondo settoriale sono una nozione indefinita e soprattutto prevaricante. Diverso invece è parlare dei diritti universali, dei diritti umani, di quei diritti generalissimi cruciali per la convivenza umana. Il catalogo non è lungo ma fondamentale. Sono i diritti proclamati dalle più svariate legislazioni, nati in occidente è vero ma sostenuti con un tale consenso collettivo da superare ogni perplessità nella tutela dell'integrità fisica, della libertà, dell'autonomia decisionale. Tali principi sono i catalizzatori di un'etica minima, o per dirla modernamente, 'a banda larga', in grado di unificare senza uniformare, di far dialogare senza imporre. E quindi se sono universali, la loro lesione autorizza a proteggere chi subisce il danno e colpire chi lo ha provocato. E tra essi si pone a pieno titolo il principio di tolleranza, che si caratterizza non per una naturale un’espansione incontrollata ma per coltivare il seme della reciprocità. Non si può essere tolleranti con gli intolleranti, non sono ammissibili atti altrui distruttivi o devastanti E questo perché esiste un limite oltre il quale la tolleranza non può essere tollerata.

 

Tra le tante rimaste, ancora una questione. È necessario che la violazione di quei diritti venga sentita come tale anche da chi la subisce?  In altri termini è pertinente estendere quei diritti universali a culture o paesi che non li riconoscono? La questione è nodale perché sconfina nell'ammettere o meno la liberazione di una popolazione, a prescindere che lo accetti o meno. È un dilemma che ha impegnato soprattutto le studiose. Talune, come la Green (Eunuco femmina, 1970) sostengono la libertà totale della donna di fare quello che vuole del proprio corpo, senza barriere. Altre invece, tra queste la Muller Okin (Diritti delle donne e multiculturalismo, Raffaello Cortina, 2007), respingono ogni limitazione a quei diritti che invece devono espandersi nella pienezza massima. Soprattutto nei confronti di donne e bambini che non meritano la punizione aggiuntiva di un comodo relativismo culturale. 

 

Tutto questo è in linea con quei propositi promozionali ed emancipatori che ritengono indispensabili interventi correttivi per migliorare le condizioni di chi, anche senza rendersene conto appieno, si trova in minorata difesa. Lavorare ed impegnarsi per l'affermazione dei diritti universali ed umani, a prescindere dalle geografie e dai localismi, è una delle strade per realizzare la coesistenza ed il confronto, nel rispetto dell'uno dell'altro. Per giungere, almeno, ad una società "decente" secondo la felice espressione di Margalit (La società decente, Guerini, 1998).

 

Individuato nella filigrana del film-racconto un primo profilo, e cioè i criteri su cui si basa la decisione processuale, come accennato ne compare un secondo. E' più intimo, personale, più valorizzato nel film nonostante il titolo squisitamente processuale. Esso riguarda i costi umani che il decidere sul lavoro impone a livello personale, nelle relazioni umane, nei rapporti affettivi, soprattutto per una donna. E riguarda la protagonista Fiona, sposata senza figli ad un professore quieto e innamorato, immersa senza respiro in un lavoro difficile, schiacciata dal senso di responsabilità che la asfissia. E rimane fredda, convenzionale, cieca nel cogliere attenzioni o premure nei suoi confronti. Il suo mondo interiore è gelato, chiuso in un involucro protettivo che non vuole essere intaccato da fattori distraenti, incapace di sentire quello che sentono gli altri. Ed è stupita che il marito sollevi il problema della sua incomunicabilità e si lamenti del suo lavoro totalizzante. La questione non è rinchiusa nel perimetro dei tribunali, ma si dilata allorché l’impegno lavorativo sfonda quei perimetri, quando dilaga tra le mura domestiche, soffoca il tempo e cancella le distrazioni. Soprattutto quando a dover assumere decisioni professionali impegnative e coinvolgenti altri è una donna, con i nuclei che la attorniano meno preparati dalla storia ad accettare quanto per tradizione secolare è una riserva maschile. E allora si rivelano precari gli equilibri, le richieste di attenzione s’infittiscono, le insoddisfazioni crescono nonostante nel nostro caso la coppia non abbia figli. 

 

Il limite di Fiona è pensare di svolgere il suo lavoro, immerso nei minori e nelle famiglie, rifiutando le emozioni e la vita privata. Non solo: essere convinta che il mondo che la circonda, scelto con il matrimonio e non imposto, non abbia una sua dignità ma sia a lei servile. Forse un autore più crudele avrebbe adottato un finale diverso, con il divorzio quale inevitabile conseguenza di una vita nobile ma solitaria nonostante la presenza di un marito. Lancia invece un segnale positivo quando l’ingresso di Adam fa capire a Fiona che ha rinunciato a troppo, alla metà di sé. E che forse quella metà merita di essere recuperata. O forse è il marito che salva il matrimonio perché Fiona ha rinunciato all’amore del ragazzo e ed è filtrato tra loro un raggio di luce. Soprattutto in quella fase della vita in cui inizia l’infanzia della vecchiaia.

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