Alle donne piaccio soltanto quando sono in scena
Il suicidio è inammissibile lì dove solo lo Stato ha licenza di eliminare i propri sudditi. Equivale a disubbidienza, ammutinamento, diserzione.
Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi
Il 24 maggio 2015 a San Pietroburgo si è formata una coda di persone che sono rimaste in fila, come ai vecchi tempi sovietici, fino a sei ore prima di raggiungere la destinazione. La meta non erano le arance appena consegnate da chissà dove o le scarpe polacche, né le camicie cecoslovacche arrivate nella notte. La meta era la “stanza e mezza” in cui il poeta Iosif Brodskij aveva vissuto con i genitori prima che le vicende legate al suo “parassitismo” lo portassero, negli anni Sessanta, al noto processo, al confino e poi all’esilio. Fino al premio Nobel. In occasione di quello che sarebbe stato il suo settantacinquesimo compleanno, la camera dell’appartamento in coabitazione che egli stesso evocò in Fuga da Bisanzio è stata aperta per una sola giornata al pubblico. E Pietroburgo si è messa in fila, non ha dimenticato né dissipato il suo poeta e lo ha celebrato rendendo omaggio a quello spazio angusto che di tanti significati simbolici si era colmato nei decenni, per la storia della poesia e per quella dell’umanità sovietica. Torna a mente, che lo si voglia o no, un saggio di Roman Jakobson di parecchi anni fa, l’omaggio all’amico Vladimir Majakovskij morto da pochi giorni, Una generazione che dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij.
Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c'è una attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente.
Osip e Lili Brik insieme a Vladimir Majakovskij
Jakobson lo compose con un procedimento che univa letteratura e biografia, contestando il principio secondo il quale tra la vita dell’artista e l’arte ci sia necessariamente un vuoto di legame. Senza scadere nel retrivo biografismo, lesse la vita dell’amico come se fosse letteratura, anticipando di parecchio i dettami metodologici di quella che sarebbe diventata la scienza della letteratura. E, infischiandosene degli interventi istituzionali che volevano preservare l’immagine monumentale e prepotente di tribuno arringatore del popolo del suo amico-poeta, ne indagò i momenti più intimi, i temi e i motivi più ricorrenti nella sua poesia, messi in relazione con i ricordi dei contemporanei e filtrati dal suo dolore personale per la scomparsa violenta di un compagno caro.
Il “problema Majakovskij” ritorna, a decenni di distanza, in un saggio impostato su principi analoghi, concepito e redatto con rigore e, al contempo, con sobria partecipazione emotiva, in cui si percepisce l’analogo afflato che aveva portato Jakobson a scrivere di Majakovski e i pietroburghesi a fare la coda per entrare nello spazio più intimo di Brodskij, Il defunto odiava i pettegolezzi, di Serena Vitale.
Questo libro potrebbe parere la cronaca di un’inchiesta, un dettagliato regesto di testimonianze e attestazioni, la raccolta sfaccettata di molte delle “chiacchiere, dicerie, congetture”, per dirla con l’autrice, che, a dispetto della volontà del defunto si sarebbero sviluppate dopo che una mattina d’aprile del 1930 il famoso quanto contestato poeta sovietico Vladimir Majakovskij fu trovato morto per un colpo di pistola nella stanza in cui viveva, anche lui, all’interno di uno dei famigerati appartamenti comunitari che la Russia del tempo tanto bene conosceva. Ma Serena Vitale, ovviamente, non si limita a raccogliere e passare in rassegna questi dati. Va ben oltre. Raffinando un’arte che i suoi lettori già avevano dimostrato di apprezzare, costruisce una narrazione composita e sofisticata, quanto profonda e lucida, che combina nelle sue pagine impercettibili momenti di critica letteraria, pregnanti citazioni di versi, sottili analisi di storia del costume e della mentalità, sferzanti reportage di cronaca e molto altro ancora. Il lettore pedante che volesse assicurarsi sulla legittimità delle fonti troverebbe tutti i rimandi del caso, ma non nelle impiccianti note a piè di pagina, bensì in una originale sequenza finale (apparato di note/bibliografia/sitografia in cui le indicazioni rimandano al numero della pagina e della riga in questione), la cui lettura può risultare illuminante quanto quella del testo, in sequenza parallela o anche a debita distanza. Prova sicura della varietà transculturale a cui l’autrice ha attinto per giungere al risultato finale: riferimenti dai più svariati archivi, deposizioni,verbali, diari, testate giornalistiche dalle più accreditate alle meno intellettuali, testi memorialistici, letterari, politici, critici. L’intreccio e la combinazione dei materiali, sia semantica che grafico-editoriale, collegati dal pensiero e dagli interventi in punta di penna dell’autrice, si sviluppano con un flusso serrato e coinvolgente. Le pluralità lessicali rispettano e rispecchiano la provenienza dei riferimenti e arricchiscono il quadro generale che si fa sempre più articolato proprio grazie alla varietà delle testimonianze intrecciate e contrapposte. Le virgolette che segnalano le citazioni sono dovute ma discrete e non interrompono la coesione tra le componenti di questa storia. I versi di Majakovskij irrompono senza essere annunciati o commentati, come se si fosse in sua presenza e lui non aspettasse di certo il permesso per recitarli o esplodere in uno sfogo poetico. Talora immagini di piccola dimensione, spesso formato francobollo, si inseriscono nel racconto a portare un contributo iconografico, non preso in esplicita considerazione, ma dotato di una singolare autonomia, pur restando in assoluta sintonia con l’affresco che si va delineando.
Da sinistra: Lilja (Lili) Brik, Tat’jana (Tatà) Jakovleva, Veronika (Nora) Polonskaja,
Serena Vitale non è a caccia dell’eventuale assassino di Majakovskij. Fu nel 1991, a Unione Sovietica defunta, che il dossier relativo alla morte del poeta venne ripescato dagli archivi del Comitato Centrale del PCUS, reso pubblico per dare sfogo alle illazioni più fantasiose legate al suo “suicidio”. I capitoli del volume procedono rispettando l’andamento cronologico e inserendo nella collezione di dichiarazioni e argomentazioni flash back che arrivano a costituire la più vera anima del lavoro: un ritratto del problematico poeta e della sua complessa e contraddittoria epoca di rara sfaccettatura. Si comincia con le donne, la sessualità, i famosi triangoli amorosi. Si cita opportunamente il film di Abram Room del 1927, Tret’ja Meščanskaja (Terza via della piccola borghesia), apocrifamente più noto come Letto e divano o Amore a tre, di cui Viktor Šklovskij era stato sceneggiatore e che si vuole aver tratto ispirazione proprio dalla relazione incrociata tra Majakovskij, Lili Brik e suo marito Osip, di cui era amico personale. Nel film sono presenti anche le realtà che nelle pagine del libro acquistano spessore e documentazione: le cliniche per l’aborto, le signorine neo filistee a dispetto della rivoluzione, il peso del byt, la quotidianità soffocante e triviale che Majakovskij avrebbe citato a carico del proprio disagio esistenziale anche nella lettera-testamento indirizzata beffardamente al “Compagno governo”, i tradimenti, la liberazione sessuale, l’imborghesimento dei sentimenti e delle relazioni. Compaiono, tra le pagine dei rispettivi diari e dei verbali di polizia, gli amori e le amanti del poeta: la già citata Lilja (Lili) Brik, Veronika (Nora) Polonskaja, attrice del teatro d’Arte moscovita e Tat’jana (Tatà) Jakovleva, modista a Parigi. E si rendono più che mai protagoniste dei furibondi innamoramenti, con lettere, telegrammi, liti, separazioni, gelosie. Nora fu quella che si trovò con lui il giorno della morte nella stanza (assassina, testimone, causa?) da cui uscì urlando dopo (?) aver sentito il colpo di revolver per precipitarsi alle prove a teatro. Lei e le altre riverberano nelle pagine del saggio tra i colori e le fogge degli abiti che indossavano, le dichiarazioni che rilasciarono, le confessioni ai propri diari, messe a confronto dall’autrice per evidenziarne le eventuali contraddizioni. Ed emerge soprattutto lui, il poeta, la sua maschera e il suo più segreto io: “ingombrante anche da morto”, “sproporzionato anche nella bara”, emergono “alterigia, sprezzo, distacco, modi imperiosi” che ne avevano caratterizzato l’immagine pubblica. Emergono le sue pose che lo avevano reso popolare e al contempo insopportabile e che ritornano nei ricordi, nei necrologi, accanto alle paure, alle debolezze, ai trasporti emotivi e affettivi che tra euforia e disforia ne avevano segnato i giorni. E si riconsiderano con attenzione e precisione le svariate ipotesi che l’istituzione aveva messo in piedi per affrontare l’imbarazzo causato da una morte tanto scomoda.
Majakovskij affetto dalla malattia dei capitalisti, la sifilide (poi smentita dall’autopsia), Majakovskij sessualmente impotente (poi smentita dalla testimonianza della Polonskaja), Majakovskij non corrisposto dalla/e sua/e amante/i, Majakovskij in crisi creativa, Majakovskij teppista in vita e in morte, Majakovskij che cerca sistemi estremi per vendere più libri. In altre parole mille tentativi di coprire con crisi personali o amorose l’eventuale componente politico-ideologica della circostanza. E tranciante arriva il giudizio di Gor’kij: ridimensionare la portata sociale del fatto e ricondurla a una dimensione privata. I funerali rivivono in queste pagine con uno spessore sia visivo che acustico: folla immensa, caotica, indisciplinata, a sua volta imbarazzante. Così come viva e palpitante è la frenesia del periodo e dei momenti contingenti, la moltitudine sulle scale e nell’appartamento dopo il colpo di rivoltella, le telefonate concitate. Non ultima quella famosa che Stalin riservò allo scrittore Bulgakov pochi giorni dopo la morte di Majakovskij. Paura di un ennesimo inquietante suicidio? Tutto combinato con le più autentiche quotidianità e umanità di tutti i protagonisti, primari o secondari, coinquilini, colleghi, agenti di polizia, burocrati e artisti, non consuete nelle pagine della critica letteraria o dei manuali di storia, che qui occupano tutto lo spazio loro dovuto, prese in esame come fatti storici, come componenti determinanti di un’epoca e di un fatto specifico. Balenano e vengono analizzati i sospetti di spionaggio, le emigrazioni, le distanze che la situazione politica rendeva fatali, Parigi, Berlino, le rivalità e le gelosie professionali, la burocrazia intellettuale sovietica.
Non ha senso continuare a parafrasare e raccontare queste pagine. Il libro deve essere letto e goduto in prima persona. Due ultime considerazioni in conclusione. La prima come volontà di inserire tre sole immagini in questo contributo, quelle delle tre donne di Majakovskij da vecchie. Non per fare pettegolezzi, ma in risposta a un dialogo tra Lili Brik e Roman Jakobson, riportato da Serena Vitale: “Nel ‘20, durante una passeggiata, Roman Jakobson mi disse – Sai, non riesco a immaginarmi Volodja vecchio, con le rughe –. E io – Oh, non sarà mai vecchio, nel modo più assoluto, si ucciderà sicuramente –”. Le sue donne, invece, sarebbero invecchiate e avrebbero conosciuto le rughe. Le riporto in calce anche come testimonianza del fatto che sono reali, che non sono state personaggi di una commedia o di poesie, che sono esiste a lungo e per davvero.
La seconda, e ultima, considerazione riguarda un dettaglio del paratesto, apparentemente secondario in un libro, le indicazioni fonetiche per le trascrizioni e la pronuncia dei nomi russi. Ne abbiamo viste tantissime, convenzionali e fredde. Serena Vitale si distingue anche in questo particolare. Per questo volume ha scelto parole-concetti non casuali: “z dura di polizia”, “ch come nel tedesco ich”, “c di censura”, “sc di scempio”, “j come nel francese jaune (il colore della famosa giubba di Majakovskij)”. Tutto in perfetta, e discreta, sintonia con l’ambito semantico ed emotivo trattato. Ulteriore tocco di classe.
Il libro: Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015, 284 pp., 19 €.