Cromorama / Il cielo non è blu e il mare è di molti colori
Questa affermazione, apparentemente paradossale, la potete leggere nel libro di Riccardo Falcinelli Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, appena pubblicato, in settembre, da Einaudi. Certo, il cielo non è blu, il cielo non ha un colore preciso – blu pennarello, intende: può essere bianco, grigio, grigio scuro e minaccioso, celeste chiaro, screziato di rosa e di rosso; i pittori lo hanno dipinto di volta in volta con un colore diverso, anche rosso, nero e colore dell'oro. Lo stesso per il mare: lo sapeva anche Omero che parlava del mare colore del vino, mentre noi, suggestionati dall'accentuata propensione delle pellicole Ektachrome per i toni azzurri, siamo abituati a identificare i mari esotici con l'azzurro profondo e brillante.
Lo scopo del libro sta proprio in questo richiamo alla consapevolezza dello sguardo: Falcinelli ci dice che il suo non è un saggio, ma un racconto; in effetti l'analisi percorre innumerevoli esempi in cui il commercio e la tecnologia hanno modificato il nostro sguardo sulle cose – nella pittura, nel cinema, nei fumetti, nella letteratura, nel design degli oggetti quotidiani – e individua le tappe attraverso le quali scienza, filosofia e arte si sono avviluppate negli enigmi del colore. Falcinelli, disegnatore e docente, prosegue così il percorso del libro precedente, Critica portatile al visual design del 2014 (recensito in questo sito da Valentina Manchia), inserendo nella sua scrittura la capacità di osservare che deve alla pratica del disegno e alla grafica.
La prima e principale tesi riguarda i prodotti del mercato internazionale, nei quali «certe tinte diventano tutt'uno con gli oggetti che le indossano» (p. 7): il libro prende avvio con la storia del giallo industriale della Koh–I-Noor. La matita come oggetto, come la conosciamo oggi, costituita da grafite macinata e mista ad argilla incorporata nel legno, esisteva già alla fine del Settecento, ma le matite gialle vengono messe sul mercato nel 1893, in occasione dell'Esposizione universale di Chigago, dalla ditta che prende il nome dal famoso diamante con cui la grafite condivide l'origine chimica. Il giallo – scrive l'autore – è probabilmente dovuto all'esigenza di nascondere le imperfezioni di un legno scadente con un colore che gli potesse somigliare. Altre spiegazioni richiamano il colore dell'Impero Asburgico, perché la ditta ebbe sede a Vienna e a Ceské Budejovice, o addirittura il colore simbolo dell'Impero cinese da cui proveniva la grafite. Fatto sta che la fortuna del prodotto fu immediata e il giallo, quel giallo, divenne la sua icona.
Non solo gli artefatti si identificano con il loro colore – gli esempi riportati sono innumerevoli, basti citare il rosso Coca-cola e il turchese Tiffany – ma anche i prodotti naturali devono assumere un colore sempre uguale e adatto al gusto del consumatore, spesso diverso da paese e paese (le uova americane sono bianche, la maionese è gialla in Francia e bianca in America e via dicendo). Ma l'esempio paradigmatico dell'artificio risale al Seicento olandese, quando gli agricoltori progettarono l'arancione delle carote in onore degli Orange. Per dimostrare la nostra abitudine a connettere colore e oggetto Falcinelli cita un sorprendente esperimento della studiosa svedese Karin Ehrnberger che, nell'ambito di una ricerca sulla differenza di genere nel design, ha creato dei prototipi invertendo colori e forme di un trapano Bosch e di un frullatore a immersione Minipimer, ottenendo un trapano dai colori delicati e femminili, bianco e azzurro, ispirato alle forme del delfino e confermato dal nome, il Dolphia, e un frullatore guerresco, grosso, ruvido, con un'impugnatura simile a quella di una pistola, verde scuro e arancio, il Mega Hurricane Mixer.
A tutto questo si aggiunge l'intuizione pubblicitaria che propone la possibilità di personalizzare la merce venendo incontro all'esigenza del consumatore: compro un oggetto rosso perché questo è il mio colore prediletto, perché mi piace, perché lo sento affine. Lo dimostrano gli iPod e, possiamo aggiungere, gli iPhone e le innumerevoli cover. Tutto questo – conclude l'autore – «dimostra pure che chiedere a un bambino qual è il suo colore preferito è educarlo subito al suo ruolo di consumatore» (p. 288).
Un altro capitolo molto interessante rivela le possibilità euristiche dell'attenzione rivolta al colore: si tratta del Verde vertigine, dedicato alla disamina del film di Alfred Hitchcock La donna che visse due volte (1956), per il quale Falcinelli individua nell'opposizione di rosso rubino e di verde smeraldo la messa in scena della doppiezza della protagonista che compare in due ruoli diversi, prima nella figura algida e riservata della falsa Madeleine, poi in quella provocante e sensuale di Judy: la ricostruzione di una sorta di trama cromatica che gioca con gli indizi e il ritmo del rosso e del verde, confermata dalla riproduzione di alcune sequenze, risulta particolarmente convincente.
La narrazione tocca poi tanti altri approcci al tema colore, dall'uso dei coloranti e dei pigmenti alla storia culturale del colore, dalla fisica della luce alla fisiologia dell'occhio e del cervello, dalle teorie dei filosofi e dei pittori all'analisi delle opere pittoriche, dalla geometria del colore alla filosofia del linguaggio. Mi limiterò a seguire solo alcune tracce che riguardano la teoria del colore, lasciando al lettore il gusto di percorrere gli altri mille rivoli del saggio-racconto.
La tesi di fondo del libro consiste nell'indicare il progressivo, sempre più spinto processo di astrazione del colore dalle cose, un percorso che – secondo l'autore – prende avvio già in Aristotele. In effetti nel De sensu il filosofo greco accenna alla possibilità di individuare alcuni colori fondamentali e di associare colori a numeri, in analogia con i suoni, un'esigenza di ordinamento che gli deriva dal dover collocare i vari colori tra gli estremi del bianco e del nero, del chiaro e dello scuro, gli opposti che li generano. Nello stesso Aristotele e nel suo allievo, autore del Perì chromáton, e nella cultura greca sono presenti però altri ordinamenti che declinano le tinte dell'arcobaleno oppure le fasi della crescita delle piante, rivelando il legame della classificazione con l'osservazione delle cose colorate (come spiega la filologa Fernanda Ferrini, della quale si può trovare in rete l'introduzione a [Aristotele], I colori e i suoni, pubblicato da Bompiani nel 2008, a questo indirizzo.
Il passo successivo venne compiuto da Newton che «dimostra al contrario che il colore è qualcosa che sta dentro la luce e non sulle cose: si presenta come una sequenza continua che attraversa varie tinte, dal rosso al violetto, senza nessuna gerarchia» (p. 82). Questa impostazione non solo rendeva paritetici dei colori che nell'acquisto dei pigmenti avevano prezzi diversissimi, ma escludeva il bianco e il nero, la biacca e il nerofumo, che rimanevano sulla tavolozza del pittore (invero il bianco rientrava nella teoria come ricomposizione dello spettro nella luce che chiamiamo bianca).
La costruzione del cerchio dei sette colori, in analogia con le note musicali, da parte di Newton e la progettazione di un nuovo cerchio da parte di Goethe secondo una logica non basata sul calcolo, ma sull'intuizione e sulla visione diretta, hanno avuto – secondo Falcinelli – un effetto comune: la possibilità di trattare i colori in modo astratto, indipendente dalle cose, e di indagarne il rapporto. Senza entrare nel merito della famosa diatriba sulle teorie di Newton e Goethe, sul diverso rapporto che lo scienziato e lo scrittore romantico ebbero nel campo della ricerca sui colori, sulle loro osservazioni concrete, possiamo senz'altro accettare che la formulazione del cerchio metta i colori in relazione tra di loro. In questo senso Newton, Goethe e il chimico Chevreul svincolano progressivamente il colore dalla materia e lo assegnano al soggetto, conclusione questa che l'autore sembra condividere perché apre alla sperimentazione artistica: «non dipingere le cose come sono davvero ma come vengono elaborate dalla nostra psiche. E questa liberazione della materia colorata di cui sono responsabili in modi diversi un fisico, un letterato e un chimico sarà il fondamento di tutta la futura comunicazione visiva» (p. 96).
Certo, non esiste un colore vero delle cose (p. 353), il colore delle cose è vero solo in relazione a come decidiamo di pensarlo (p. 359); eppure qualcosa sembra resistere. Sì, certo, guardiamo un quadro del Rinascimento avendo in mente il giallo dei Simpson, non solo, possiamo anche essere più raffinati e guardare con ammirazione i quadri espressionisti, le creazioni delle avanguardie del Novecento e i risultati sorprendenti della grafica contemporanea che giocano con i colori liberi. Ma da un altro punto di vista il colore sembra aderire alle cose: perché un pezzo di carta verde non può avere lo stesso colore di un vetro verde? «Se confrontiamo materiali diversi – scrive Falcinelli in una nota – la faccenda diventa davvero spinosa. Che vuol dire infatti che un pezzo di vetro e un pezzo di carta hanno lo stesso colore? È un’affermazione che nel linguaggio comune facciamo con facilità ma nella sostanza non si tratta di qualcosa di esatto o di misurabile» (p. 352).
Forse nel guardare il mondo rimaniamo vicini agli antichi, forse per certi versi il colore rimane anche per noi qualcosa che ha a che vedere con l'essenza delle cose.
Questo dubbio ricompare nella discussione sui colori primari, argomento per il quale il nostro autore porta la sua esperienza di disegnatore e di grafico: «nel concreto – scrive – tutti sanno che con solo tre tubetti non si va da nessuna parte, e difatti nei negozi di belle arti le tinte in vendita sono svariate decine» (p. 141). Questo significa che la possibilità di riprodurre l'intera gamma dei colori a partire dal rosso, dal giallo e dal blu, tesi sostenuta da molti pittori importanti – tra cui Mondrian, Rietvield, Kandinskij, Klee e Itten – non può essere considerata la base ontologica della teoria del colore. Usando solo due colori è possibile creare decine di tinte; computer, telefonini e televisori usano la miscela ottica di rosso, verde e blu; la stampa su carta si basa in genere sulla quadricromia di ciano, magenta, giallo e nero; il campionario Pantone parte da diciotto inchiostri: nessuna delle possibili combinazione può ridarci però tutto il visibile, come dimostrano le varie dimensioni del colore (colori di superficie, di volume e pellicolari o illuminanti, come li chiama l'autore) e le interazioni tra i vari colori accostati.
Nelle relazioni tra i colori sorge anche il problema dei complementari, la cui determinazione risulta particolarmente complessa.
Da un lato infatti la definizione psicologica del colore complementare come colore postumo, che compare nei nostri occhi dopo aver fissato per qualche tempo una certa tinta, non sembra coincidere con le opposizioni che Goethe e Itten creano nel cerchio cromatico. Nel primo caso l'opposto del rosso risulta un turchese – come del resto riconosce anche Goethe –, nel secondo caso si tratta di un verde. L'opposizione di rosso e di verde sembra quindi infondata o, per lo meno, un antagonismo culturale, confermato dagli opposti valori attribuiti ai due colori (numeri verdi, ecologia di contro a pericoli e divieti, associati con il rosso, cfr. n. 8, p. 90 e p. 265). Rimane su questo punto qualche indecisione di Falcinelli, dovuta forse al procedere stesso della stesura del testo, ma anche al fatto che la ricerca sulle aree del cervello è ancora aperta e sembra confermare la tesi di Hering basata sulle coppie di opposti giallo/blu, rosso/verde, bianco/nero, ma anche l'analisi del linguaggio di Runge e di Wittgenstein, secondo i quali non è possibile pensare a un rosso che dà sul verde e a un giallo che dà sul blu.
Seguire tutti questi percorsi intricati, leggere le storie appassionanti, individuare pregiudizi radicati: questo rimane il fascino di Cromorama, neologismo del titolo di un libro che insegue la visione del colore in tutti gli ambiti possibili, sottoponendo il nostro sguardo a una critica radicale.