Memoria e identità ebraica / Bruno Schulz. Nel nome del Padre e del Messia
Con il poetico titolo di Le botteghe color cannella sono raccolti, e noti in tutto il mondo, i ventotto racconti de Le botteghe color cannella (1934) e Il sanatorio all’insegna della clessidra (1937), dello scrittore e pittore polacco Bruno Schulz (1892-1942). Se non fosse stato trucidato, perché ebreo, dai nazisti e il suo romanzo illustrato, Il Messia, non fosse andato misteriosamente perduto, assieme a gran parte delle carte, la sua importanza e la fama sarebbero oggi forse pari a quella di Franz Kafka.
La singolarità di Schulz consiste non soltanto nella sua fatasmagorica prosa, che spesso sembra una sorta di poesia continuata in forma di racconti, ma anche nella straordinaria, e rara, simbiosi che operò tra i suoi scritti e i suoi misteriosi e inquietanti disegni. Schulz viveva immerso in una sorta di mondo fantastico, dove la natura era animata di una bizzarra vita propria e le tradizioni religiose dei suoi antenati lo riportavano continuamente indietro nel passato.
Bruno Schulz era nato a Drohobycz, nella Galizia orientale (oggi Ucraina): un cittadino di lingua polacca, e di nazionalità ebraica, dell’Impero austroungarico. Era figlio del mercante di stoffe Jakob e di Henrietta Hendel Kuhmarker. Aveva un fratello maggiore, l’ingegner Izrael “Izydor” Schulz (che gestiva un pionieristico cinema: l’“Urania”), e una sorella, Hania, rimasta precocemente vedova per il suicidio del marito, povera e con due figli. Brunio, come veniva chiamato in famiglia, trascorse tutta la vita a Drohobycz, tranne brevi soggiorni a Varsavia, Cracovia e Vienna, e una puntata a Parigi (nel 1938).
Drohobycz non era affatto un povero shtetl affollato di chassidim: aveva la più grande Sinagoga in pietra della regione (che si è miracolosamente salvata fino ad oggi) e veniva chiamata addirittura la “California della Galizia”. Grazie anche alla scoperta del petrolio nelle vicinanze, era un crocevia di affari e movimenti di uomini che la tenevano a contatto con le città del Moderno, e in particolare con Vienna.
Alcuni dei più sarcastici racconti di Schulz mostrano proprio la nuova faccia della cittadina: piena di vita, affari e truffe. L’opera di Schulz, se anche rappresenta un mondo quasi fuori dal tempo, come quello raffigurato nei quadri di Chagall (che poi è il mondo mitizzato dell’infanzia), vive le contraddizioni di una realtà urbana e sociale che va rapidamente mutando volto. E lo stesso Schulz non fu affatto, come molti hanno fatto credere, un poetico ed emarginato insegnante di uno sperduto shtetl della Galizia orientale. Frequentava il filosofo Roman Ingarden (alunno di Husserl), gli scrittori Stanisław Ignacy Witkiewicz e Witold Gombrowicz; leggeva Nietzsche, Rilke, Bergson, Husserl (trovava la Fenomenologia affine alle proprie concezioni), Scheler, Wundt, Freud e Jung.
Eppure, della Drohobyc di quegli anni, abbiamo anche una descrizione ben diversa: quella fatta dallo scrittore tedesco Alfred Döblin (1878-1957), l’autore di Berlin-Alexanderplatz (1929), che scrisse alcuni reportage dalla Polonia nel 1924. Coerente con un’immagine che Döblin si fece della Galizia orientale come terra di povertà, che era comune a tutti i viaggiatori suoi connazionali dell’epoca, Drohobycz ci appare come un luogo di squallida miseria:
“Un villaggio, una lunga strada fangosa; tetti rivestiti di scandole con spioventi che toccano quasi terra, casupole di legno, molte con gettate di malta, tinteggiate e colorate, dipinte di azzurrognolo, giallo e rosa. Molte tettoie verdi sono sorrette da pilastri di legno; questi sono scolpiti in forma di colonne, alcuni hanno una decorazione primitiva. Sulla strada due contadine dalle sottane colorate avanzano calpestando energiche con gli stivaloni neri il pantano molliccio (…) più in là del mercato, oltre al sudiciume e l’orribile torre, ci sono dei vicoli. Sempre più raccapricciante. Chi non ha visto questi vicoli, queste ‘case’, non sa cosa significa miseria”.
Comunque, Schulz non riuscì mai a liberarsi e abbandonare Drohobyc, che sentiva come l’unico luogo sicuro e produttore di miti che ci fosse al mondo. Come ha scritto il suo maggiore studioso (e salvatore di gran parte della sua opera) Jerzy Ficowski:
“Tutti i progetti più di una volta fatti di trasferirsi altrove, vennero abbandonati – talvolta durante la realizzazione – con sgomento, persino il matrimonio con la fidanzata dovette soccombere davanti a questo inscindibile legame con la città natale, persino la fuga davanti allo sterminio cedette e si trascinò per le lunghe, annichilita dalla paura di abbandonare quella piccola patria, terra dove nell’infanzia si erano svolte le sue scoperte del mondo, e poi, negli anni successivi, la geniale esegesi, la nascita del Libro di Schulz”.
Nel 1910, Schulz era andato a studiare architettura al Politecnico della vicina Leopoli, ma la scarsa salute, la povertà e la nostalgia lo fecero rientrare dopo tre anni al paese. La morte del padre, dopo una lunga malattia (nel 1915), mise fine all’unico periodo sereno della sua vita. La povertà e l’angoscia non lo abbandonarono più. Unica garanzia di sostentamento per sé e la sua famiglia – la madre (che morirà nel 1931), la sorella vedova con due figli e una cugina pazza – fu il suo impiego (dal 1924) come insegnante a contratto di applicazioni tecniche e disegno al ginnasio di Drohobycz.
Dopo la scomparsa del padre ci furono anni davvero molto difficili. La creatività di Schulz iniziò a manifestarsi con i disegni e le incisoni. Nel 1920 dette vita, con una ventina di incisioni, a un racconto in forma di disegni, con didascalie, la sua prima storia autobiografica: Xięga Bałwochwalcza (Il Libro idolatrico). Le immagini mostrano, nella deformazione dei personaggi, l’influenza del pittore e scrittore austriaco Alfred Kubin. Come ebbe poi a ricordare la fidanzata di allora, Józefa Szelińska: “Lo univa a Kubin un certo orrore pieno di fantastico goyesco”. Motivi diversi – mitologici, letterari e biblici (come il tema di Susanna e i vecchi- compongono queste scene che rappresentano il dominio della donna sull’uomo. Un corteo di ominidi, tra i quali compare sempre anche Schulz, sovente nelle sembianze di un abbacchiato cagnetto, striscia adorante ai piedi di figure femminili belle, sicure di sè, sessualmente disinibite.
Per arrivare ai racconti dovranno passare ancora dieci anni, nei quali Schulz resusciterà un po’ alla volta suo padre mitizzandolo, all’interno di un ambiente ebraico fino a quel momento a lui abbastanza estraneo. Schulz infatti, in gioventù, era vissuto lontano dal mondo ebraico, anche per educazione famigliare: non conosceva neppure la lingua dei suoi antenati. La sua rielaborazione del lutto avvenne parallelamente al ritorno in vita delle sue radici ebraiche. Iniziò così a narrare le straordinarie storie di suo padre e della gente ebrea del paese. Così, girando attorno alla figura del padre Jakob, i racconti e i disegni di Schulz assumono una unitarietà e costituiscono un secondo libro dopo il “dissoluto” Libro idolatrico. Il “Libro dei racconti” (costituito da Le botteghe color cannella e Il sanatorio all’insegna della clessidra) è una sorta di Bibbia dell’infanzia perduta, di quel periodo in cui, grazie al padre e alla sua autorità, tutto sembrava – ed era– possibile. Decisivo per la scrittura dei racconti, che composero il primo volume, fu l’incontro, nel 1930, nella casa dello scrittore, pittore, fotografo Stanisław Ignacy Witkiewicz, a Zakopane, con la scrittrice yiddish Debora Vogel (1902-1942), nata a Leopoli e appartenente a una famiglia dell’intellighecija ebraica di lingua polacca. Il padre Anzelm, direttore dell’orfanotrofio di Leopoli, era un funzionario della Comunità ebraica. Dopo aver terminato il ginnasio ebraico, la Vogel si iscrisse all’Università di Leopoli, dove si laureò in Filosofia e fece il dottorato sull’estetica di Hegel.
Aveva viaggiato molto in Europa e si era dedicata inizialmente alla critica d’arte. Solo dopo gli studi universitari, grazie anche all’influenza dell’amica Rachela Auerbach, essa iniziò a studiare lo yiddish (suo padre, che le aveva insegnato l’ebraico, considerava lo yiddish una lingua del popolino). Scelse questa lingua per scrivere le sue prime poesia, forse per accentuare il carattere elitario della sua produzione artistica, ma anche perché affascinata dalla ricchezza e vivacità dalla cultura chassidica. Divenne tra le animatrici della vita culturale ebraica di Leopoli, che si raccoglieva attorno alla rivista yiddish “Cusztajer” (Il dono). Schulz, nelle lettere che le scrisse a partire dal 1931, iniziò ad aggiungere lunghi “post-scriptum” dove narrava le straordinarie storie del padre, riscoprendo quel mondo ebraico-orientale che costituisce qualcosa di molto più che lo sfondo de Le botteghe color cannella. In una lettera all’amica Romana Halpern (datata 15 novembre 1936), Schulz scrive: “Peccato che non ci siamo conosciuti un paio di anni fa. Allora ero ancora capace di scrivere belle lettere. Dalle mie lettere sono nate a poco a poco Le botteghe color cannella. Quelle lettere erano indirizzate la maggior parte alla Signora Debora Vogel, l’autrice delle Acacie in fiore. Ma sono andate quasi tutte smarrite”.
Debora Vogel fu quindi una sorta di “levatrice” della scrittura di Schulz: lo incoraggiava e gli dimostrava, oltre che una vicinanza sentimentale, un' affinità artistico-culturale. Le opere della Vogel di quel periodo, illustrate da Henryk Streng (Marek Włodarski) – hanno forti somiglianze e affinità con i racconti di Schulz, come notarono anche recensori e lettori dell’epoca. La cosa singolare è che, nello stesso anno nel quale si incontrarono (nel novembre del 1930), Debora Vogel pubblicò in Svezia, sul numero 7 della rivista ebraica in lingua svedese “Judisk Tidskrift” (diretta da suo zio, il rabbino di Stoccolma Markus Erenpreis) una presentazione dell’ancora quasi sconosciuto Schulz pittore: “Schulz si è occupato dei seguenti temi: Il Libro idolatrico (18 tavole), L’incontro, La famiglia malata, La rivoluzione in città, I nani, I tempi del Messia ”.
Quel termine “i tempi del Messia” (czasy Mesjasza) definisce, per Schulz, la tappa finale sulla strada che conduce alla Vera Maturità, che altro non è se non il ritorno all’Epoca Geniale (l’Immaturità).
Come scrive Schulz nella lettera (4 marzo 1936) al critico Andrzej Plesniewicz:
“Quello che Lei dice della nostra infanzia artificialmente prolungata, l’immaturità, mi disorienta un poco. Giacché mi sembra che il genere d’arte che mi sta a cuore, sia proprio una regressione, un’infanzia reintegrata. Se fosse possibile riportare indietro lo sviluppo, raggiungere di nuovo l’infanzia attraverso una strada tortuosa – possederla ancora una volta, piena e illimitata – sarebbe l’avveramento dell’“epoca geniale”, dei “tempi del Messia”, che ci sono stati promessi e giurati da tutte le mitologie. Il mio ideale è “maturare verso l’infanzia”. Questa soltanto sarebbe l’autentica maturità”.
La scoperta della cultura ebraica orientale e del vivace mondo dei chassidim permise a Schulz di dare un senso nuovo alla figura del Padre permettendogli di farlo rivivere grazie alla riscoperta di un’identità trascurata. Come ha notato il critico Jan Bloński, nel 1985, ciò che è in Schulz sicuramente ebraico è il culto del Libro e l’autorità del padre come fonte di sapere:
“Schulz sottopose entrambi i motivi a una duplice metamorfosi. Vedeva il lavoro dell’artista come una continuazione messianica del Libro (…). Il Libro trasforma la realtà in mito. In altre parole: dota ciò che è visibile, quotidiano, parziale di un significato universale, sfuggente, inafferrabile… ma sempre presente, percepibile, complesso. Tale significato è un' evidente eco (parafrasi, riflesso, trasformazione) dell’alleanza stretta da Dio col popolo eletto”.
Il primo libro di racconti di Schulz, Sklepy cynamonowe (Le botteghe color cannella), uscì nel 1933 grazie all’interessamento di Debora Vogel e di alcuni amici che fecero vedere alla scrittrice Zofia Nalkowska (1884-1954) le appendici alle lettere che aveva scritto e le carte che si convinse a tirar fuori dal cassetto.
Il titolo originario delle Botteghe color cannella, secondo le sue intenzioni, doveva essere appunto Ricordi del padre. Fu un suo amico, lo psicologo Stefan Szuman (1889-1972), che gli suggerì il titolo definitivo riprendendo quello del “racconto più abbagliante”. Schulz spiegò poi così il suo libro:
“Considero Le botteghe un romanzo autobiografico. Non solo perché è scritto in prima persona e per il fatto che vi si possano intravedere certi avvenimenti e vicissitudini dell’infanzia dell’autore. Le botteghe sono autobiografia o piuttosto genealogia spirituale, genealogia kat’exochen, poiché presentano la genealogia spirituale sino alla profondità, dove sconfina nella mitologia, dove si perde nel delirio mitologico”.
Il punto di partenza della sua fantasia visionaria è l’affollata e disordinata bottega di stoffe del padre Jakub: un vecchietto-Demiurgo che sconvolge in modo imprevedibile tutte le regole delle fisica e della ragione. La sua bizzarra filosofia è esposta nel racconto Manekiny (Manichini), e nelle tre parti del successivo Traktat o manekinach albo wtóra Ksiȩga Rodzaju (Trattato sui manichini, ovvero secondo libro della Genesi).
La “Grande Eresia” consiste innanzitutto nella teoria, prima ancora che nella pratica, del mercante Jakub. Egli infatti sostiene che il Demiurgo, il creatore dell’Universo, non ebbe il monopolio della creazione: “la creazione è un privilegio di tutti gli spiriti e la materia è dotata di una fecondità senza fine, di un’inesauribile forza vitale e al tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare”.
Jakub si presenta come un difensore della Materia (“la materia è l’entità più passiva e indifesa del cosmo”) e rivendica il diritto, come un cabbalista, a una creazione propria (“vogliamo essere creatori di una sfera nostra, inferiore, aspiriamo ad una nostra creazione, aspiriamo, in una parola, alla demiurgia”), anticipando che è sua intenzione dare la preferenza, in questa “seconda Genesi” alla tandeta (paccottaglia), “semplicemente perché ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale”. Un amore per la materia “come tale”, un materiale che permette di “creare una seconda volta l’uomo, a immagine e somiglianza di un manichino”.
Un simile progetto è impossibile senza una compartecipazione, compenetrazione, tutta speciale con la Materia. Per questo lo stesso Jakub diventa soggetto di una serie di strane metamorfosi che sono sempre originate da un bisogno fortissimo, viscerale, di vicinanza con la materia vivente. Ma le metamorfosi non si capisce mai quanto siano volontarie o provocate da un eccesso di questa vicinanza. In Schulz abbiamo a che fare con un gioioso carnevale pagano trattato, e subìto, dagli altri membri delle famiglia come qualcosa di naturale. Essi assistono così, continuamente, alle varie metamorfosi di Jakub, che si trasforma in: condor impagliato dall’enorme testa senile; volpe irsuta, tutta ciuffi e batuffoli di pelo grigio e lunghi pennacchi di setole; scarafaggio; mosca mostruosa dagli azzurri riflessi metallici; essere a metà tra un gambero e grosso scorpione, che finirà cotto in una salsetta gelatinosa…
Il commerciante di tessuti Jakub ha anche molte idee in comune con i “cabbalisti” e aspira lui stesso ad essere simile a un creatore di golem: come il Rabbi Jehudah Loew ben Bezalel (detto il Maharal di Praga) o il Rabbi Elijahu di Chełm. O a un “apprendista stregone”, oppure al Dottor Faustus: che poi, come ha mostrato André Neher in Faust e il Golem, sono tutti la stessa cosa. Come Prometeo, Giobbe e Faust, il padre di Schulz incarna la rivolta dell’uomo contro la sua condizione e, alla fine, l’inutilità dello sforzo di interrogare: il circolo vizioso di uno scandaglio spirituale che, inesorabilmente, riporta l’uomo al punto di partenza. Nelle teorie e nella pratica di Jakub c'è certamente molto della cabbalistica ebraica, ma nel suo senso più eversivo: il rapporto col Mito e la ripresa di immagini mitiche e di simboli affini alla Natura. Ma questo è l’aspetto che entra in conflitto con la Tradizione ebraica perché, come scrive Gershom Scholem ne La kabbalah e il suo simbolismo, la religione ebraica rappresentò proprio “un contrattacco contro il mondo del mito, contro l’identità panteistica di Dio/cosmo/uomo rappresentata dal mito, (...) e cercò di scavare un abisso specialmente e necessariamente invalicabile tra il creatore e la sua creatura”.
Nella creazione del Golem, o di qualsiasi altro manufatto che si anima e si muove, l’uomo si mette in concorrenza con la creazione di Adamo e quindi con Dio. Ci si imbatte così nell’Utopia di poter dare libero sfogo alle cose senza essere incatenati a nessuna legge o autorità. Ma la realtà risponde in modo diverso: “il fato trova mille scappatoie quando si tratta di far passare a forza la sua ineffabile volontà”, constata amaramente alla fine del libro l’autore dinanzi alla morte del padre nel Sanatorio all’insegna della clessidra, dove in modo pasticcione si tentava di far tornare indietro il Tempo e sconfiggere così la Morte. Da ultimo, Jakub aveva compreso che è la materia a servirsi dell’uomo per i suoi fini:
“Non era stato l’uomo a introdursi nel laboratorio della natura, bensì la natura che lo aveva attirato nelle sue macchinazioni per raggiungere, sfruttando gli esperimenti di lui, i propri fini che miravano non si sa dove”.
Determinati impulsi della materia cercavano la propria strada attraverso l’ingegno umano. Tutte le invenzioni di Jakub, delle quali si vantava, non erano che trappole in cui la natura lo attirava, “erano trabocchetti dell’ignoto”.
Schulz mutuava dal filosofo Henri Bergson l’idea che la comprensione momentanea della realtà la deforma, che il pensiero, conservando e feticizzando le persone, come una macchina fotografica, li degrada. Durata, Memoria, Slancio vitale costituivano i capisaldi della filosofia e della poetica della contorta visione del mondo del padre Jakub.
Dopo aver tentato di riappropriarsi disordinatamente del magico mondo ebraico, Schulz sembrò a un certo punto, sotto la spinta dei suoi tormenti sentimentali, sbandare verso la ricerca di un percorso spirituale completamente nuovo, che costituisse una risposta ai suoi problemi di identità.
Al 1938 risalgono le poche notizie di un avvicinamento di Schulz al cattolicesimo. Un percorso tormentato, iniziato l’8 febbraio del 1936 con la richiesta di ritiro dalla Comunità Ebraica, e la scelta di appartenere alla categoria “senza confessione” per poter sposare la cattolica Józefa Szelińska (che in realtà, ma lui lo ignorava, era un’ebrea convertita). Poi intervenne un qualcosa, nella sua solitudine esistenziale (“Nutro dell’umano timore di fronte alla solitudine, di fronte alla sterilità della vita inutile ed emarginata… ) e nei suoi “conti con la religione del Padre”, che lo portò a interessarsi alla fede cattolica. Ed è singolare che egli si sia rivolto proprio all’ateo Witold Gombrowicz, che aveva una sorella, Rena, molto impegnata in varie associazioni cattoliche ed era legata al Centro per nonvedenti di Laski, vicino a Varsavia, dove si riunivano gli intellettuali più aperti del cattolicesimo polacco. In una lettera del maggio del 1938, Gombrowicz propone all’amico un soggiorno di un paio di settimane a Laski per verificare la sua “tensione verso il cattolicesimo”: non si trattava di convertirsi ma di “trovare un contatto per soddisfare un bisogno psichico”. Schulz, secondo varie testimonianze, leggeva il Nuovo Testamento e “voleva credere”.
Il mondo ebraico sembrava esser diventato soltanto lo “sfondo dell’infanzia”, la polpa delle sue storie. Ma non era così. Già a partire dal 1934, Schulz era alle prese con un romanzo, che doveva essere la sua opera principale, e che ruotava intorno alla trasposizione mitica di motivi della cultura giudaica. Doveva chiamarsi Mesjasz (Il Messia) e, come le altre sue opere narrative, doveva essere “un racconto illustrato”. Alla vigilia dello scoppio della guerra il romanzo, con le sue suggestive illustrazioni, doveva esser quasi terminato.
Di questo volume andato perduto, ci rimangono due frammenti che Schulz, fortunatamente incluse nella raccolta del 1937: Księga (Il Libro) e Genialna epoka (L’epoca geniale). Ma soprattutto si sono fortunosamente salvati alcuni suggestivi disegni, conservati nel Muzeum Literatury di Varsavia. Come ha scritto il curatore Wojciech Chmurzyński:
“In genere, praticamente tutti i suoi disegni a tema ebraico possono essere sussunti sotto un solo titolo: Aspettando il Messia (Oczekiwanie Mesjasza). Dalla testimonianza della nipote dell’artista, Ella Podstolska, risulta che nell’abitazione di Izydor Schulz, a Leopoli, ci fosse un dipinto a olio con questo titolo. La Podstolska ha riconosciuto tra i disegni di suo zio, conservati nella raccolta del Museo della Letteratura di Varsavia, due evidenti schizzi preparatori (n. 38 e 39) di quel dipinto.
Il critico e amico Arthur Sandauer ha raccontato che Schulz gli lesse, durante una vacanza trascorsa assieme, nel 1936, l’inizio del romanzo: "Sai – mi disse una mattina mia madre, è arrivato il Messia. È già a Sambor”.
Le altre poche informazioni che si hanno su quest’opera sono degli accenni che Schulz fa nelle lettere, come in quella allo scrittore Kazimierz Truchanowski (1904-1994), autore di romanzi e racconti simili a quelli di Schulz:
“Il Messia cresce lentamente, sarà il seguito de Le botteghe color cann.”
Quindi tutti i racconti di Schulz sono l’anticipazione del romanzo Il Messia. Esso doveva essere il capitolo finale di un faticoso ed esaltante percorso creativo alla ricerca di un’identità che si basava sul Padre, il Libro e la Tradizione, e di conseguenza sulla speranza dell’arrivo della Salvezza.
In Polonia, soprattutto dopo il 1989, molti sono convinti che Il Messia, il “romanzo ebraico perduto”, si sia salvato e si trovi da qualche parte in Russia, dopo esser stato conservato negli archivi del KGB. L’atmosfera di mistero che avvolge questa vicenda fa comprendere perché una scrittrice come l’americana Cynthia Ozick, nel 1987, abbia potuto immaginare e costruire un romanzo su questo manoscritto perduto: Il Messia di Stoccolma.
Intervento al Convegno Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza, Firenze 7-9 novembre 2016.