Musei dell'Est (1) / Comunismo per turisti

20 Settembre 2021

Nella capitale della Repubblica ceca un Museo del comunismo esiste già dal 2001 per volontà di un giovane imprenditore americano, Glenn Spicker, laureato in relazioni internazionali, frequentatore dell’Europa fin dagli anni Ottanta, precedentemente cimentatosi con un jazz club e poi una catena di ristoranti detti Bohemia bagel. La prima sede del museo era passata alla storia, prima di ogni altra ragione, per la sua sensazionale collocazione: tra un casinò e un Mac Donald’s su una delle vie più frequentate della città, na Příkopě.

 

L’ingresso al primo Museo del comunismo (giugno 2008).


Pareva voler sottolineare, fin dalla sua posizione topografica, l’assurdità del proprio contenuto in netto contrasto con la realtà post-socialista che la città stava affrontando. Eclatante era pure l’insegna che lo caratterizzava: una matrëška russa dotata di una dentatura che stava tra il pescecane e Dracula, al contempo vampiro succhia sangue e bestia predatrice.

 

La primigenia insegna del Museo del comunismo di Praga (giugno 2008).


Tanto per non lasciare dubbi sull’interpretazione da dare alla storia, fin dall’ingresso e dai primissimi passi. L’oleografico souvenir russo, già gioco per bimbi contadini nelle sue lontane origini, si trasformava in macchina da guerra che nel suo grembo capiente nascondeva non già tante piccole copie di sé stessa (la terra russa che si autofeconda e nasce e rinasce in continuazione), ma Paesi e genti cooptati con la forza e costretti con la violenza per aderire a un modello imposto dall’alto. Significativo che le indicazioni si limitassero all’inglese e non comprendessero il ceco. Come a sottolineare che si dava per scontato che i visitatori non fossero gente del posto a cui di quella collezione e di quelle memorie non poteva importare di meno. L’interno raccoglieva una considerevole serie di memorabilia, recuperati dallo stesso fondatore tra mercati delle pulci e reperti privati di singoli cittadini che quell’esperienza l’avevano vissuta in prima persona, affastellati più che esposti in una sequenza da trovarobato più che da museo.

 

Un angolo del museo prima versione (giugno 2008).


Oltre al raccogliere e preservare entrava in campo un’altra volontà-ambizione, quella di raccontare la Storia attraverso le cose dotando gli oggetti di responsabilità emotive, documentaristiche, antropologiche. Nella maggior parte dei casi quei manufatti in quella galleria sarebbero rimasti muti. Molte erano le mimetiche ricostruzioni di ambienti: una classe scolastica, un negozio di alimentari, una stanza per gli interrogatori nella sede della polizia segreta. Il tutto finalizzato a “far rivivere” esperienze con un taglio che stava tra il bassamente sensazionale, il compassionevole e l’irrisoria demonizzazione di quella che era stata la realtà oggetto di rappresentazione. La raccolta era stata realizzata su base di interessi e curiosità personali, dunque priva di una logica o di un sistema organizzativo automaticamente condivisibile. Il tentativo di renderla pubblica e inserirla in un sistema fu scarsamente apprezzabile sul fronte della seria documentazione storica.

La nuova sede, inaugurata nel 2017 (visitata il 20 luglio 2021), si è spostata di poche centinaia di metri dalla precedente e si trova ora sulla centralissima piazza della Repubblica, meno vistosamente di prima inserita tra un supermercato Billa e un ristorante, priva di sgargianti insegne e considerevolmente cambiata rispetto alla primigenia sia nelle dimensioni che nella concezione. 

 

L’ingresso del Museo del comunismo.


Superata la cassa (280 corone, circa 15 euro), gestita da un’anziana signora, si viene indirizzati verso il primo piano. Una gigantesca stella rossa e una statua di Marx troneggiano (incombenti sul visitatore) in cima alla scalinata d’ingresso e fanno da cornice ai tre concetti che regolano i 1.500 m² di esposizione: DREAM (sogno), REALITY (realtà), NIGHTMARE (incubo). Scritti a caratteri grandi in inglese e più piccoli in ceco. Tre momenti che hanno segnato l’evoluzione (o involuzione) del comunismo nella storia della Cecoslovacchia. 

 

La scalinata d’ingresso.


L’esposizione è impostata cronologicamente e narra, con l’aiuto di pannelli, filmati e più rari oggetti e diorami, i momenti fondamentali della storia: dal 1918 (nascita della nazione, la Prima Repubblica Cecoslovacca, Československá republika) al 1989 (crollo del muro di Berlino e fine del regime). Secondo i responsabili il “sogno” comunista si sviluppò negli anni Venti e i fatti legati alla Seconda guerra mondiale ne determinarono il seguito e la trasformazione in “realtà” (il colpo di stato del 1948) che portò, nei successivi quarant’anni di regime sotto l’egida sovietica, all’“incubo” culminato nel 1968 con l’invasione del Paese da parte dei carri armati del patto di Varsavia. Uno dei curatori cechi, il fotografo Alexander Koráb, aveva dichiarato in un’intervista che il target del museo era il turista straniero e che quello era l’interlocutore primario che lui aveva identificato realizzando il progetto. Il sito web ribadisce che “il museo offre ai visitatori una sensazione autentica dell’epoca, arricchita dall’inserimento di brevi video, manifesti e artefatti”.

 

Anche in questo caso l’immedesimazione emotiva del visitatore con l’esperienza sembra essere l’obiettivo primario, prima ancora che il portarlo ad analizzare i fatti o documentarsi su di essi. Frequenti sono i rimandi alla storia statunitense, certamente sotto l’influenza dell’ideatore, che accostano fatti ed eventi locali a quelli d’oltre oceano fornendo possibilità di collegamenti interpretativi tutt’altro che banali la cui lettura è però totalmente lasciata alla buona volontà e alla responsabilità del visitatore: 1955 inaugurazione del monumento a Stalin a Praga e di Disneyland in California; disgelo socialista e movimento americano per la difesa dei diritti civili nella prima parte degli anni Sessanta; 1968, invasione sovietica a Praga e assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy negli USA. La consistente riduzione di oggettistica da mercato delle pulci ha tolto all’esposizione l’aura kitsch che ne aveva contraddistinto la prima variante. E, conseguentemente, anche l’idea che il comunismo fosse quasi esclusivamente un fenomeno da kitsch totalitario. Il museo non dispone di un archivio proprio, ma attinge da svariate collezioni a cui si rimanda nei crediti. Restano le ricostruzioni oleografiche di un’officina di lavoratori d’assalto, di un’aula scolastica, di un negozio di alimentari e, di maggior effetto anche visuale, di una stanza degli interrogatori realizzata come se fosse inquadrata dall’alto, attraverso l’occhio onnivedente di un grande fratello.

 

La stanza degli interrogatori.


I momenti a cui si attribuisce maggior responsabilità sono quelli legati all’influenza della politica staliniana, alle varie forme di contro-cultura per reagire a vessazioni e controlli e, ovviamente, all’invasione del 1968. Del gigantesco monumento a Stalin, una delle sculture più grandi d’Europa che troneggiò su Praga dall’alto di una collina dal 1955 (il leader era già morto e le denunce chruščëviane incombevano) per sette anni, si ricordano tratti essenziali ed eclatanti. Era un colosso di 22 m. di lunghezza e 16 di altezza, con Stalin che si ergeva solenne con lo sguardo fisso e vari rappresentanti del popolo cecoslovacco concentrati al suo seguito. Immancabilmente la lettura popolare dell’opera decostruì la retorica debordante e la scultura fu ribattezzata “in coda per la carne”. La sua distruzione, avvenuta in seguito alla seconda ondata di destalinizzazione imposta da Chruščëv (primi anni Sessanta), imbarazzante nonostante tutto (qualche dato in più rispetto alla situazione politica interna e alle resistenze al nuovo corso sovietico sarebbe opportuno), non fu documentata; rigorose proibizioni la impedirono, ma le esplosioni che progressivamente demolivano la gigantesca scultura commemorativa furono udite in tutta la città per un’intera settimana.

 

Il monumento a Stalin.


Curioso e significativo, unico tratto performativo pur nella sua discutibilità, è che due autentiche statue sopravvissute tra le tante, Lenin e Stalin, appaiati in una teca dalle pareti scrostate mentre danno le spalle a una stella rossa acciaccata (accessibili a chi desiderasse insinuarsi tra loro per un selfie), siano messe come in castigo proprio a fianco dell’ingresso alla toilette. Nulla di casuale in quell’installazione e ai visitatori il compito di sghignazzare, sorridere, sospirare o indignarsi. Difficile è transitare indifferenti.

 

Le statue di Stalin e Lenin pronte per i selfie accanto alla toilette.


Suggestiva e variopinta è la sezione che illustra il mitologema “eroe” attraverso i quadri in stile realsocialista. Colorato e ottimista era lo spirito del realismo socialista e anche su questi tratti si basava la sua retorica. 

 

I pannelli dedicati all’eroe socialista.


La discrepanza tra realtà e rappresentazione, la volontà e l’imposizione di raffigurare l’esistenza non già come appariva nella sua banalità, ma così come sarebbe stata quando i positivi effetti del regime l’avrebbero trasformata, costituiva la base del metodo realsocialista. In altre parole, la riproduzione artistica mentiva, forse per una nobile causa, ma pur sempre di inganno si trattava. Pensiero positivo, abbondanza, felicità erano i concetti fondamentali che non potevano mancare, anche quando lo stato di cose non li giustificava davvero.

Il pannello dedicato alla situazione abitativa segnala esclusivamente i lati negativi della costruzione di milioni di appartamenti all’inizio degli anni Sessanta. Se ne lamentano la serialità, la mancanza di privacy, la scarsa qualità dei materiali da costruzione. La giungla di cemento costituita dai palazzi a pannelli prefabbricati (paneláks) sorse in quartieri periferici e fu ideologicamente giustificata come conquista di una società senza classi che proponeva un nuovo modus vivendi autenticamente socialista. Anche a Praga non mancano esempi di ornata architettura dell’era staliniana, l’ancora funzionante hotel Crowne Plaza, ex Družba (amicizia in russo) edificato sul modello dei sette grattacieli moscoviti in stile impero staliniano, ma a dominare il panorama edilizio socialista nella capitale è il brutalismo massiccio e pesante, rifiutato dalla popolazione per la sua tetra e sovrastante compattezza. Una ricostruzione propone la semplicità estrema di una stanza in uno di questi appartamenti.

 

La stanza di uno studente nella ricostruzione del museo.


Gli arredi erano standard, uguali in ogni appartamento e scarse, soprattutto per i cittadini non introdotti, le possibilità di personalizzare l’alloggio con tocchi individuali. Caratteristiche che non differiscono tanto significativamente da un certo tipo di edilizia pubblica occidentale, da certi quartieri dormitorio che sorgono in ogni metropoli, da famigerati serpentoni che si snodano in tante città. La peculiarità “comunista” meritevole di segnalazione starebbe piuttosto nell’indagine relativa alla diffusione a tappeto di questa modalità, nell’approfondimento dei privilegi che ne regolavano la distribuzione, nella costruzione di residenze di lusso riservate non già ai ricchi del paese ma alla sua nomenklatura politica. Al contempo opportuno sarebbe soffermarsi sull’innegabile sforzo (ancora “sogno/incubo”) di fornire un’abitazione al maggior numero possibile di persone, evitare (a differenza dell’URSS) la coabitazione e puntare su “economie” che accelerassero la produzione di appartamenti a scapito della loro qualità.

 

Gli anni successivi alla destalinizzazione furono positivamente influenzati dalla denuncia dei crimini staliniani e portarono a una stagione (parallela a quella sovietica, ma non se ne parla) di aperture, speranze e illusioni. Letteratura, musica, cinema, teatro furono i primi ambiti a godere della distensione, ma presto le aspettative e le richieste di sensibili cambiamenti politici, stimolati dall’elezione di Alexander Dubček a segretario del partito comunista cecoslovacco (5 gennaio 1968), si fecero pressanti. In URSS la stagione del “disgelo” chruščëviano era già stata liquidata nel 1964 con la defenestrazione del leader e l’elezione di Leonid Brežnev. Fu l’Unione sovietica brežneviana a decretare la fine della breve “primavera di Praga” con la massiccia invasione di carri armati del patto di Varsavia che il 21 agosto 1968 occuparono le strade del Paese scatenando la reazione dei cittadini che tentarono di resistere e opporsi, ma che alla fine dovettero cedere alla brutale repressione.

 

L’invasione sovietica di Praga. Sul cartello dei dimostranti, in cirillico, la scritta: idite domoj (andate a casa).


La sintesi con cui è trattato l’evento è forse eccessiva: un solo settore che concentra tutti gli eventi dei variegati e contraddittori anni Sessanta. La sagoma di un grande carro armato occupa il pavimento davanti ai pannelli dedicati al 1968 e ignora l’epopea di un altro tank-monumento che, nel bene e nel male, un significativo ruolo aveva giocato nella storia del Paese.

 

La sagoma del carro armato sovietico davanti ai pannelli degli anni Sessanta.


L’anno successivo Mosca avrebbe imposto nuovi leader e ristabilito il proprio ordine. Tra le manifestazioni di protesta restano vivide nella storia le “torce umane”, giovani che si davano fuoco per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione cecoslovacca sul modello di Jan Palach, prima vittima di questa forma di opposizione (gennaio 1969) che pure sul letto di morte aveva invitato i propri coetanei a non seguire il suo esempio ma a restare in vita e lottare. I suoi funerali si trasformarono in manifestazione politica.

 

Il pannello dedicato alle torce umane.


Si prosegue brevemente con settori dedicati al crollo del muro di Berlino e alla rivoluzione di velluto del novembre-dicembre 1989 che avrebbe portato alla dissoluzione dello stato comunista.

Lo spazio occupato dalla caffetteria e dal negozio di souvenir è vuoto. Curioso che a segnalarne la chiusura, probabilmente dovuta al Covid-19, sia un cartello che ripropone la formula che per decenni aveva caratterizzato la retorica sovietica della non-informazione: “chiuso per cause tecniche”. Una specie di mantra, non a caso oggetto anche di battute e barzellette, buono per ogni stagione e circostanza, dalla cancellazione di un volo all’aeroporto all’immotivata chiusura di un negozio, caffè, ristorante. Senza volerlo un autentico tocco del meno nobile “comunismo” proprio là dove meno i responsabili lo avrebbero immaginato.

 

“Chiuso per cause tecniche”.


Un mini-shop è stato creato nella stanza d’ingresso, di fronte alla cassa. Pochi scaffali dove si riprendono le tematiche folcloristico-irrisorie che erano state caratteristiche della prima variante del museo: matrëške dai denti aguzzi con funzione di cavatappi e porta stuzzicadenti, candele effigianti Lenin e Stalin (colorati gadget a cui dare fuoco).

 

Souvenir al museo.


Nell’insieme un percorso misurato ma convenzionale, nell’installazione e nel concetto, con qualche scivolone di discutibile gusto, e nell’insieme piuttosto superficiale. All’uscita due possibilità architettoniche di integrazione del discorso, stilisticamente assai lontane tra loro, ma storicamente importanti per meglio comprendere i conflittuali trascorsi estetico-politici della città: da un lato, all’angolo con la via Králodvorská, la sagomata mole esagonale dei grandi magazzini Kotva (àncora), risalenti alla prima metà degli anni Settanta e, pur tra molte contestazioni, dichiarati monumento culturale dal 2019.

 

Il complesso dei grandi magazzini Kotva.


Dall’altro lato l’altrettanto imponente complesso art déco dell’Obecní dům (casa municipale, 1901-1906), insieme di caffè, ristoranti, teatro, sale d’esposizione in un trionfo di liberty ed eleganza retro.

 

Due pagine di storia della stessa città, pressoché faccia a faccia sulla piazza della Repubblica a testimoniare diversi momenti del suo Novecento. Entrambi passibili di essere etichettati come stupendi o orrendi, elegantemente essenziali o ridondantemente opulenti. Altri intriganti spunti da mettere a confronto per addentrarsi con maggior profondità nello spirito del comunismo, dei suoi sogni e dei suoi incubi in terra boema.

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