Limonov. Il film

5 Ottobre 2024

Il genere più moderno oggi è la biografia, scriveva Eduard Limonov nel Libro dell’acqua, scritto e pubblicato nel 2002, mentre era in prigione, accusato di star preparando una spedizione armata nel Kazakistan nord-orientale, territorio a maggioranza russofona e rivendicato dallo scrittore e dai suoi sodali nazional-bolscevichi come parte integrante della Russia. Lapidario, netto, provocatorio, nello stile assai personale e in costante evoluzione, essenza del personaggio Limonov. Anche quando sembra che le sue posizioni si siano affermate e torna sugli schermi e sulle pagine dei media governativi russi, lo scrittore si discosta, dissocia, dedicando parole taglienti ai talk-show dei canali statali: ho visto quanto facesse schifo avere davanti a me dei pappagalli, che ancora un paio d’anni prima ripetevano l’opposto, ora invece farlo con le mie idee, formatesi già negli anni Novanta. È umiliante trovarsi in quell’ambiente esagitato, sciocco, volgare. 

La slavista americana Olga Matich ha descritto Limonov, di cui era amica anche se su posizioni politiche assai divergenti, come l’impersonificazione del travestimento, letterario e stilistico. Un dato confermato anche dalle numerose fotografie che hanno ritratto lo scrittore nel corso della sua lunga vita: nei jeans cuciti da sé stesso, sarto della Mosca underground degli anni Settanta; fasciato in un abito bianco, emulo della moda della disco music, a New York e sempre lì poi con un taglio corto, radicale, la t-shirt dei Ramones; intabarrato in un cappotto militare sovietico nella Francia di dieci anni dopo, fotografia poi usata nella copertina della prima edizione italiana del romanzo di Emmanuel Carrère; e infine in giacche di pelle, ora corte ora lunghe da commissario politico bolscevico, negli anni Novanta e Duemila. Una iconografia dell’amato sé stesso, per citare Majakovskij, ripresa in pieno dal bel film di Kirill Serebrennikov, Limonov, vera e propria sfida di poter racchiudere l’essenziale di una biografia per cui servirebbe forse un serial di cinque stagioni. Impossibile da catalogare il protagonista di una storia parecchio singolare, più semplice elencare cosa non è stato: non uno scrittore sovietico, ma nemmeno antisovietico né asovietico, quest’ultima categoria adottata per Brodskij, di cui rifuggiva la fama, ma mai detestato come Aleksandr Solženicyn, considerato un prodotto, anche letterario, di quel sistema da cui nel 1974 entrambi si erano allontanati, chi con la forza, come il premio Nobel, e chi per noia, come Limonov. D’altronde egli stesso, in occasione del primo convegno sulla letteratura russa della terza ondata dell’emigrazione, tenuto nel 1981 a Berkeley, disse parlando di sé: sarei voluto nascere volentieri qui e appartenere alla letteratura americana, mi è molto più congeniale. Una frase che potrebbe portare a dei paralleli con scrittori statunitensi degli anni Sessanta e Settanta, si potrebbe accostarlo a Charles Bukowski, ma anche un giudizio simile sarebbe fin troppo fuori fuoco. La diversità viene perseguita con ogni mezzo necessario, spesso con la volontà dichiarata di scandalizzare, infastidire, un épater le ouvrier negli anni sovietici diventato un épater le bourgeois negli Stati Uniti e in Francia. In una scena del film, dove il regista Kirill Serebrennikov racchiude vari incontri con i lettori, eventi in grado di richiamare grandi folle durante la perestrojka, Limonov risponde beffardo a una donna del pubblico, rammaricata e arrabbiata per esser cambiato dai tempi in cui, giovane poeta, declamava versi nelle cucine della bohème moscovita, “del suo cuore spezzato non mi interessa”. Una frase paradigmatica.

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Limonov è stato asincrono rispetto alla scena letteraria russa, sia nel samizdat che nell’emigrazione, condividendo, seppur in modo parziale, una caratteristica di due suoi celebri coetanei e autori, Iosif Brodskij e Sergej Dovlatov, l’essere al di fuori della dicotomia potere/dissidenza: diversi in tutto e per tutto. La scelta musicale di Kirill Serebrennikov sottolinea questa alterità tra Limonov e gli autori in voga negli anni Sessanta e Settanta: i Velvet Underground accompagnano alcuni dei principali momenti del film, di particolare potenza è la corsa attraverso le sale buie dei cinema e le strade devastate di New York, a simboleggiare il decennio degli Ottanta, al suono di Pretty vacant dei Sex Pistols, le cui parole sembrano raccontare una parte del nichilismo punk dello scrittore. Una parte, perché l’asprezza di Eduard Savenko, il ragazzo cresciuto a Char’kov/Charkiv durante il dopoguerra – la città, già capitale della Repubblica sovietica ucraina fino al 1934, era stata in gran parte distrutta – un carattere così ruvido da avergli fatto scegliere lo pseudonimo Limonov, da limone ma anche da limonka, granata, è un aspetto di un uomo che è stato operaio, teppista, poeta, emigrato, autore marginale, rivelazione letteraria, polemista, leggenda, caricatura, leader e prigioniero politico. Un personaggio capace di gesti tragici per amore, ritratti nel film: il tentato suicidio sul pianerettolo dell’amata Elena è realmente accaduto, e dalla pellicola è esclusa la relazione con Natalja Medvedeva, cantante e modella a cui lo scrittore è stato legato tra gli anni Ottanta e Novanta, suo alter-ego per molti aspetti, in una vita vissuta pericolosamente e bruciata, nel suo caso, dall’alcolismo. 

Il vitalismo, però, del Savenko diventato Limonov non è mai autolesionista, non ricerca una distruzione del sé alla Sid Vicious, è in realtà animato da una propria, personale, razionalità, diretta alla gloria, quella da eroe (e Elena glielo ripete nel film), fatta di granito, guerre, povertà, riscatto, sangue. Le facili scelte che potrebbero regalargli fama vengono evitate, mosso da un’ambizione, come raccontava la Medvedeva in un’intervista del 1995, enorme, che attribuiva al suo essere provinciale, una definizione poco lusinghiera per chi aveva fissato sulle pagine la vita dei bassifondi e delle periferie come qualcosa di naturale. Sempre nella stessa conversazione l’artista, però, difende l’ex marito, parlando del loro “tragico” destino, estranei dovunque, senza una vera e propria casa. Forse non aver narrato questa parte nella bella pellicola di Serebrennikov, dove la tragedia appare soffusa dal movimento continuo del protagonista, interpretato da Ben Whishaw, lascia lo spettatore con un senso d’incompiutezza, anche se a onor del vero in russo il film è Limonov, ballada ob Edičke (Limonov, una ballata su Edička), riferimento esplicito ai romanzi del periodo trascorso a New York: Eto ja, Edička (Questo sono io, Edička) è il primo libro dello scrittore, tradotto in italiano dal francese ormai troppi anni fa sotto il titolo Il poeta russo preferisce i grandi negri, calco della pubblicazione parigina, domanda che perseguiterà lo scrittore fino alla fine dei suoi giorni. 

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La messa in controluce del personaggio Limonov si riflette anche nella fin troppo rapida descrizione del suo percorso politico da leader del Partito nazional-bolscevico, esemplificato dall’affollato sotterraneo, il bunker sede della formazione, dove ragazzi si muovono tra allenamenti, discussioni e scontri al suono degli Shortparis, gruppo sperimentale con continui riferimenti alla letteratura e alla storia della Russia. Interessante notare come alcune delle principali figure dei primi anni d’esistenza del partito, come gli artisti che vi avevano aderito (penso soprattutto a Egor Letov, padre del punk russo, e Sergej Kurechin, figura seminale della controcultura dell’epoca) non appaiono e ancor più colpisce l’assenza di Aleksandr Dugin, altro polo d’attrazione del movimento e presente fino al 1998 prima di rompere con un Limonov impossibile da ammansire e inquadrare.

È il Limonov di Emmanuel Carrère, che appare in un cameo nel film, filtrato attraverso le visioni teatrali, i ritmi e le scelte autoriali di Serebrennikov, regista esiliato, i cui spettacoli oggi sono “sospesi” in Russi, ma le vite dei due artisti appaiono unite soltanto dall’esile, seppur persistente, filo del gusto di essere scomodi, in modi parecchio diversi. Kirill Serebrennikov si è espresso contro la guerra in Ucraina nel maggio del 2022, con un testo, Krasnyj lak (Lo smalto rosso), molto forte: Chi inizia una guerra è sempre perdente. Chi violenta, uccide, tortura la popolazione civile è un criminale di guerra. Chi li giustifica lo è altrettanto. Non è possibile avere sentimenti di comprensione per sadici e assassini. Io provo compassione per chi si è involontariamente trovato coinvolto nel terribile crimine della guerra. Per chi non si è macchiato le mani del sangue degli innocenti. Parole molto diverse da quelle adoperate dal Limonov prigioniero politico e leader di partito, inneggianti all’estetica del combattente, racchiuse in una frase: Io con l’istinto, con le narici di un cane ho fiutato che al mondo gli intrecci fondamentali sono due, la guerra e le donne. Nella scelta di girare la pellicola, Serebrennikov ha raccontato di voler rappresentare un “Joker russo”, capace di risorgere di volta in volta sotto nuove vesti e di racchiudere in sé sentimenti e posizioni contrastanti, un personaggio letterario autocostruito diventato base di un ulteriore eroe libresco grazie alla penna di Carrère. Chi vuol trovare il “vero” Limonov, forse, non uscirà soddisfatto dalla sala, ma la domanda è se Eduard Savenko da adulto sia stato reale o un tentativo di costruire un eroe controcorrente, impopolare ma alla ricerca della gloria, e a questo quesito non vi è risposta.

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