Essere al suicidio, perché far disperare paga
«Quella gente, invece di darti una mano, ti dà la sifilide. Non è vero, Boïeldieu?», chiede il proletario Maréchal. «Ah sì: una volta era un privilegio, ma ora si perde. Come gli altri. Tutto si democratizza: così il cancro, o la gotta, non sono malattie da operai. Ma il popolo ci arriverà, ve l’assicuro», risponde de Boïeldieu. Profezia puntualmente avveratasi (La grande illusione di Jean Renoir, girata nel 1937, finge una conversazione della prima guerra). Anche il suicidio, un tempo appannaggio dei pallidi popoli scandinavi e di qualche anima tormentata, grazie alla crisi finanziaria del 2008 è diventato un fenomeno di massa. Per chi ha fatto caso a questo fenomeno e se ne è lasciato incuriosire, può essere utile la lettura dell’ultimo saggio di Jean-Paul Galibert (Suicidio e sacrificio. Il modo di produzione ipercapitalistico, Stampa Alternativa, Viterbo 2015) che è una sorta di appendice nera alla Società dello spettacolo. Di Guy Debord Galibert condivide il pessimismo di fondo circa il mondo in cui ci è dato di vivere e lo stile secco, semi-aforistico, della scrittura. Perché il suicidio è diventato una forma di “vita” strategica per il nostro modo di produzione e consumo, non più capitalistico ma – così lo chiama Galibert – ipercapitalisco? Facciamo questa proposta di lettura: fino a oggi abbiamo conosciuto tre forme di suicidio, cioè il suicidio stoico, il suicidio del dispendio, il suicidio fascista. Il suicidio stoico è la scelta di chi non vede più nella propria vita una vera vita, ha un sussulto di dignità o forse di compassione verso sé e chi gli è vicino, decide di farla finita per risparmiare a sé e agli altri una quantità di sofferenze inutili. Il suicidio del dispendio è quello delle feste indù descritte da Bataille, quando il fedele per l’entusiasmo si getta sotto il carro della dea su cui diluviano i fiori. Il suicidio fascista – teorizzato da Blanchot, Virilio e Baudrillard – vuole invece agire teatralmente e collettivamente l’indecidibile e incollocabile mortalità di ciascuno. Galibert con il suo saggio aggiunge una quarta forma, nuova, inedita, che già stiamo sperimentando, ma per la quale ci mancava il nome: il suicidio ipercapitalistico. La nostra società suicidaria è pur sempre una società dello spettacolo e del controllo – da questo punto di vista il saggio di Galibert non ha nulla da aggiungere alle analisi di Debord e di Deleuze. Solo che Galibert scopre l’oscuro motore che mette in scena lo spettacolo e fa funzionare l’apparato del controllo. Se il tempo della società dello spettacolo è come una fase dello specchio che si prolunga ben oltre il trentaseiesimo mese della vita di noi giganteschi infanti, Galibert svela la lamina di stagno e piombo che permette allo specchio di proiettare l’integrità delle nostre immagini. Questo motore, questa lamina fatta di assoluta opacità, condizione di ogni posticcia trasparenza, è appunto il suicidio. Il suicidio ovvero la minaccia di morte con la quale ognuno di noi viene tenuto sotto schiaffo dalla società ipercapitalistica e dalle condizioni di lavoro ivi vigenti.
Maurice Ronet in "Le feu follet" (Fuoco fatuo), 1963
Il dato di partenza di Galibert è statistico: «il suicidio causa più di diecimila morti l’anno. 11.405, secondo i dati più affidabili di una recente indagine dell’Institut de vieille sanitaire. Dal 1945 il suicidio avrebbe dunque fatto più di 700.000 morti» (p. 5). Ma, appunto, questi sono soltanto dati, e i dati bisogna saperli interpretare. Perché il tasso dei suicidi è aumentato in modo esponenziale dopo il secondo conflitto mondiale? Il lavoro che facciamo nelle società spettacolari non è più lavoro ma iperlavoro. L’iperlavoro è il rapporto inconsapevole di produzione che ciascuno di noi intrattiene con la merce. La nostra occupazione principale è vagheggiare e idolatrare – in una parola: immaginare – cose e beni come le formule che mondi possano aprirci. L’immaginazione ci risparmia la faticaccia, quei mondi, di aprirli per davvero: «colui che immagina aggiunge valore alla cosa immaginata, il valore del tempo passato a immaginare il valore, l’uso e la qualità. […] In effetti si […] aument[a] con l’immaginazione il valore della merce ai propri occhi» (p. 11). Una volta si parlava di “lavoro di concetto”, che era sempre meglio che andare in miniera. Oggi che in miniera non ci va più nessuno – o almeno a noi fa comodo pensare così – facciamo tutti quanti un ininterrotto lavoro di immaginazione attraverso il quale assegniamo alle merci il loro valore. Non è lavoro ma iperlavoro perché l’immaginazione con cui costruiamo gli oggetti del nostro desiderio non ha pause o tempi morti, continua anche di notte. Quello che ci viene restituito dal mercato non è né più né meno di quanto ci abbiamo messo per forza di immaginazione, ossia le formule magiche del desiderio: «tutti gli schermi dicono: sedetevi e vedrete tutte le immagini! Tutte le imprese lo sussurrano: restate in casa e noi vi consegneremo il mondo» (p. 53). Non uscite per strada, non conoscete altre persone, barricatevi dentro e non rompete troppo le scatole, «siate come isole immaginarie: completamente soli in un mondo che non esiste […] poiché ormai il mondo si produrrà direttamente dalle vostre teste» (p. 54). L’intero settore terziario, dai piani alti (showbiz) a quelli bassi (turismo, poste&telegrafi), funziona in questo modo. Anche nei suoi scantinati, cioè a scuola e nell’università, il terrorismo del publish-or-perish e la concorrenzialità “meritocratica” fomentata da giornali e direttive ministeriali (qual è la differenza?) fanno regnare le abitudini e i tic linguistici dell’iperlavoro o, nella migliore delle ipotesi, di un eterno apprendistato: al posto delle “immagini”, dei “viaggi da favola”, dei “prezzi scontati” mettete i “progetti”, le “eccellenze”, le “valutazioni”, e il gioco è fatto. «Se proprio volete esistere, dovete avere un progetto, presentarlo e poi sparire in attesa di una risposta, solo di rado positiva, che forse arriverà e forse no. […] Ormai l’esistenza non è altro che un progetto di esistenza» (p. 68): progetti finanziati, progetti non finanziati, progetti giudicati positivi, progetti giudicati negativi, progetti andati a buon fine, progetti non andati a buon fine… dopo un po’ di tempo nessuno si ricorda per quali ragioni si è messo mano a una determinata ricerca. L’importante è che ci sia stato un “progetto”, qualunque esso sia. “Progetto” è il nome rispettabile che prende il posto dell’“immagine” nel linguaggio compassato dell’accademia e della scuola.
D’accordo. Ma che c’entra il suicidio con tutto questo? «L’ipercapitalismo», cioè il sistema economico e di vita fondato sulla dittatura dell’immagine e del progetto, «opera […] una scelta selettiva delle esistenze, separando quelle chi si consacreranno interamente all’iperlavoro da quelle che saranno distrutte. Il suicidio è il sistema di selezione ideale perché nessuna forma di scelta selettiva autoritaria delle esistenze è ormai perseguibile» (p. 20). Vale a dire: l’iperlavoro immaginario-progettuale è l’unica forma di selezione che può funzionare dentro una società del controllo in cui ciascuna pecora, non tollerando vicino a sé la presenza di un pastore, è già diventata il medico, lo psichiatra, il dietologo, il professore, il poliziotto di sé, e arriva a capire da sola qual è la scelta da fare: «l’iperlavoro o la morte» (p. 21). Questa scelta più che libera, liberissima, ha già selezionato le esistenze immaginifiche e progettanti, nonché utili, e quelle invece inutili e homosacrali, cioè sacrificabili senza alcun rimorso. L’ipercapitalismo è una continua istigazione al suicidio, quel che i tedeschi chiamano Freitod, la “libera morte” che sacrifica anima e corpo alla trasfigurazione dell’immaginazione progettistica: «aggiungete all’elenco delle vostre disgrazie l’idea che potreste farla finita. Questa sola idea, infatti, è sufficiente a rendere redditizie tutte le vostre disgrazie e dunque la vostra intera esistenza: il suicidario è il solo essere umano che accetti di passare tutta la vita a immaginare e pagare. Siate suicidari perché questo è il solo stato d’animo che vi spinge a iperlavorare in permanenza» (p. 22). Potremmo definire l’esistenza suicidaria pensata da Galibert come una parodia dell’esistenza tragica. Quella tragica è una vita votata alla morte, ma l’eroe tragico trova in questa vocazione una paradossale ragione di durata che ne completa la vita. Nella tragedia la morte viene vissuta come ostile e imminente: la tragedia ritarda la vittoria del daimon, cioè l’arrivo della morte, in una sorta di cadenza prolungata oltremisura che fa consuonare e dissonare la melodia dell’eroe con l’accordo finale del destino, il quale rende la melodia completa. La morte tragica significa il punto di svolta in cui la singolarità dell’eroe, esponendosi al pericolo maggiore – la possibilità dell’impossibilità di ogni altra possibilità –, anche, per ciò stesso, si raccoglie su uno slancio d’essere che viene afferrato per la prima volta come un’integrità esistenziale sovraordinata a ogni reificazione. L’esistenza tragica è “alla morte” e per questo riesce a essere un’esistenza integrale. Invece l’ipercapitalismo raggiunge il proprio scopo quando ogni esistenza viene fatta essere “al suicidio”. Il suicidio va pensato come l’essere già accaduto dell’esistenza. Il comandamento dell’ipercapitalismo spettacolare è grossomodo: «consideratevi dei falliti. È indispensabile essere convinti che la propria vita sia stata un fallimento» (p. 22). Galibert non calca la mano, ma l’argomento decisivo del suo saggio mi sembra essere questo: ciascuno di noi deve persuadersi di essere già un suicidato, di essere una specie di zombie, per «aver bisogno di una seconda vita, di una seconda opportunità, perché è esattamente questo che propongono la televisione e l’internet. Nel virtuale si può riuscire a ottenere ciò che non si è avuto nella vita reale, a condizione di immaginare e di pagare. Si rimane pur sempre dei falliti ma si lavora in permanenza» (ivi). Nell’ipercapitalismo la morte non viene ritardata come nella tragedia, ma precipitata, anzi, è già accaduta, e noi siamo dei tristi risorti. La forma suicidaria dell’esistenza è il trampolino verso la vita nova del consumo. Potremmo dire: l’essere al suicidio rovescia il processo de-reificante dell’esistenza tragica. L’essere al suicidio accompagna la nostra convinzione di aver già vissuto in questo o quel modo, probabilmente di aver vissuto male (non ce l’abbiamo fatta, il mondo ci pendeva davanti come una tondeggiante mela e non abbiamo avuto i denti per morderla, si vive al cinque per cento, ecc.) e inscrive il misero resto che ci è dato ancora di vivere nel perimetro dell’immaginazione e del consumo. Siamo tentati di chiudere gli occhi e di non aprirli più. Ma se non vogliamo fallire anche in quel poco o niente che ci è dato come supplemento d’esistenza sarà allora meglio che gli occhi li socchiudiamo soltanto: per fluttuare, immaginare, formulare issofatto progetti (esistenziali, erotici, sociali, turistici, intellettuali, ecc.) consolanti e pazzeschi, ma pazzeschi a tal punto che invece di lavorarci sopra per realizzarli (ne avremmo davvero il coraggio?) ci convinciamo che è meglio evocare con il denaro gli spettri che li simulano: «a una certa ora le persone vanno a dormire. I suicidari invece no. Rimangono svegli e seguitano a iperlavorare e a consumare. Alcool, videogiochi, droga, pornografia, condotte a rischio» (p. 22).
L’esistenza di chi è al suicidio come al proprio limite costitutivo fa apparire «la sopravvivenza come la concessione di un’opportunità straordinaria, di cui dobbiamo essere grati» (p. 27). I comandamenti della società spettacolar-suicidaria ricalcano, parodizzandola, la soglia tragica della morte. Comprimono e deprimono la vita che in questo istante di compressione e depressione deve potersi riattivare, deve saltare come una molla. La vita viene fatta morire e resuscitare. Caso paradigmatico è quello della pubblicità: «perché i modelli della pubblicità sono tutti così belli? Per farvi sentire brutti e presentare la propria merce come la vostra ultima possibilità di essere come loro. […] Se volete vivere, nonostante l’età, l’inadeguatezza fisica, la grassezza, tutti i vostri problemi, comprate questo prodotto, pagate e cercate di assomigliare a quelli che esistono veramente […]. È la vostra ultima opportunità, a meno che non preferiate morire, o rimanere come siete: dovete ammettere che non c’è molta differenza» (pp. 36-8). Bisogna instillare il dubbio di non appartenere alla cerchia degli happy few, bisogna disperarsi e indurre gli altri alla disperazione per nascere e far nascere clienti. C’impegneremo con maggiore convinzione e spontaneità a obbedire agli imperativi del mercato quanto più sono i suoi comandamenti e immagini a farci disperare: «l’ipercapitalismo conosce meglio di voi ciò che può rendervi felici: si accanisce a farvi paura per farvi sentire felici di avere avuto salva la vita» (p. 91). Siccome la vita non ha di per sé alcun senso, siccome ci stiamo lentamente spegnendo e scivoliamo verso il grado zero del prestigio – non senza la nostra colpevole complicità –, allora tanto vale raddrizzare la schiena, ma soltanto per appoggiarla a una sedia e mettere i gomiti sulla scrivania, per cominciare a smanettare davanti a uno schermo e immaginare. Ci viene insegnato come stare eretti dentro il sepolcro sapendo che non c’è nessuna possibilità di smuovere la pietra che lo chiude.
A questo punto vorrei aggiungere una postilla un po’ edificante. Dopo la lettura del saggio mi è rimasto il dubbio su come, in condizioni di vita a tal punto prostituite e miserande, venga anche soltanto concesso a qualcuno (nella fattispecie: il bravo Jean-Paul Galibert) di scrivere in modo così essenziale, nient’affatto suicidario e, diciamolo pure, bello (soprattutto quando fotografa in modo politicamente semi-scorretto il piano inclinato del nostro rinconglionimento: «non avete scordato persino il significato di parole come onore, virtù, entusiasmo? Tutta la vostra serenità deriva dalle lezioni di yoga», p. 62). Com’è stato possibile comporre il saggio qui commentato? Come mai dentro la società spettacolar-suicidaria si può ancora scrivere così? Non si tratta soltanto del fatto macroscopico che «imponendo al mondo intero la propria duplice regola di captazione e soppressione di tutte le esistenze, l’ipercapitalismo produce ineluttabilmente l’accumulazione del potenziale di rivolta più alto della storia» (p. 75). Galibert sembra dimenticarsi dei microfenomeni pieni di vita che per il momento ci tengono a galla: qualcuno di noi riesce ancora a uscire e chiacchierare con amici non necessariamente lobotomizzati oppure a fare l’amore con una ragazza non per forza di cose parishiltonizzata o magari a leggere qualche pagina di un libro che non ha visto reclamizzato in TV. Anzi, è sicuramente più di “qualcuno” che riesce ancora a fare queste cose, appunto perché non tutte le esistenze – vivaddio – sono state captate e soppresse dall’ipercapitalismo. «Non credo» ha detto una volta Jean-Luc Nancy «che noi si sia prigionieri del paradiso artificiale del mercato: in realtà nessuno ci crede, tranne forse alcuni scemi in coma etilico permanente». Forse non è solo la passione triste e giansenista dell’indignazione che possiamo opporre alla società spettacolare e suicidaria così ben descritta da Galibert.