Gli Orizzonti mediterranei di Chiusi

27 Agosto 2015

Mustiola ha le mani giunte in preghiera e gli occhi bassi, penitenti e remissivi, guardano il bambino Gesù. Sulla tavola conservata nel Museo della Cattedrale di Chiusi, in provincia di Siena, e attribuita al pittore Marco Bigio (XVI secolo) la giovinezza della Santa è un pallore olivastro e schivo: mai penseresti che abbia esploso una fede che è corsa dalla Roma anticristiana fino a noi. Lo capisci in barca sul Lago di Chiusi, là dove si tramanda che il 3 luglio del 274 d.C. Mustiola abbia fatto del suo mantello una zattera e di Dio il suo sposo: Silvia Frasson ha alzato gli occhi della futura patrona della città all'altezza dei suoi carnefici e non li ha abbassati fino all'ultimo silenzio, contro un sole come ricoperto di rabbia e vergogna.

 

La Santa, ovvero quando Mustiola volò sul Lago, della 'narratrice immaginifica' nata chiusina e formatasi alla Paolo Grassi di Milano, ci ha condotto per mano dentro Orizzonti Festival delle Nuove Creazioni nelle Arti Performative (31 luglio – 9 agosto); dentro MediTERRAnea2015, il tema di questa XIII edizione, seconda dell'era Andrea Cigni, e prima a essere riconosciuta di rilevanza nazionale dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo: l'incontro tra i corpi, le voci, la bellezza e i conflitti in dote al mar Mediterraneo. Un'umanità di viaggio e radici, amore e tradimento, che si è riconosciuta nella paziente e caparbia illusione di allontanare la morte raccontandosi la vita. Trovando il miracolo in ciò che ci circonda.

 

“Se racconti ti salvi”. Le storie, poco importa se vere o inventate, sono le madri di un mondo che (si) ascolta e poi, solo dopo, decide in che direzione girare: Silvia Frasson è un'attrice-focolare attorno a cui si raduna chi vuole imparare lo stupore. Pochi accenti, pochi tocchi di colore, la voce che cambia, le mani che scalpitano, il resto l'hanno fatto, oltre a Mustiola al Lago, Sharāzād da Le mille e una notte nella città sotterranea del Museo Civico e le novelle Masetto e Guglielmo Rossiglione dal Decameron di Boccaccio negli antichi lavatoi, e il resto del resto gli occhi che la guardavano rapiti. Il taglio qua e là fiabesco e didattico è un di più e di troppo dipinto sul viso perché tutto sia chiaro a tutti. Nessuno deve sentirsi escluso o, peggio, usato per fini che non siano la comprensione e la condivisione di un'esplorazione nella realtà provvidenziale del sogno.

 

La Santa, ovvero quando Mustiola volò sul lago, ph. Matteo Brighenti

 

 

Pastiche di identità negate

 

Le parole non cambiano il mondo” graffia la signora Simpson ne L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi di Copi, spettacolo del 2012 di Andrea Adriatico per Teatri di Vita  riproposto a Orizzonti dopo il deludente Jackie e le altre dell'anno scorso. Le parole, però, sono tutto ciò che la Siberia, i cosacchi, i lupi, non hanno tolto a lei, a Irina e alla signora Garbo. La lingua è il sesso più sfrenato e irreprimibile in questo gioco di società e identità su telo bianco in un'insenatura del Lago di Chiusi, La colazione sull'erba di Manet in tacchi a spillo e bigodini, Le tre sorelle di Čechov e-virate nella spassosa e atroce telenovela di un triangolo lei-lei-l'altra, ma anche lui-lui-l'altro, dal momento che tutte hanno cambiato genere, la signora Simpson, peraltro, per essere deportata insieme a Irina. Il dramma scorre nelle vene, sotterraneo, e poi pulsa fuori in un rompicapo dell'eccesso tanto sfrenato e liberatorio quanto illusorio.

 

Il Regime, il bigottismo omofobo, non riescono a identificare (perché vogliono annullare la diversità alla loro norma) questi tre soggetti del desiderio, ma si compiacciono a osservarli da lontano e dall'alto degli occhiali scuri di un uomo in nero, si gustano 'la difficoltà di esprimersi' in cui li hanno relegati, ridotti a non andare a tempo con il tempo: fuori ci sono 40 gradi sotto zero e loro sono in costume da bagno.

 

Finché, per sfinimento, istigazione o resa, tutti i personaggi di questa corte transgender delle mete irraggiungibili non cade a terra, come i finocchi appesi a un filo tra gli alberi, nell'ultima e sorprendente unghiata di dolorosa autoironia di Andrea Adriatico. 'Finocchi' a indicare storicamente 'le persone spregevoli', che non valgono nulla né meritano alcuna stima. Anna Amadori, Olga Durano ed Eva Robin's hanno portato Irina, la signora Simpson e la signora Garbo alla morte, ma prima hanno donato loro la vita che volevano e un'intermittenza di ribellione. Con grazia profonda e scostumata.

 

L'omosessuale o la difficoltà di esprimersi, ph. Flashati Cinefotoclub

 

 

Dialogo per microfoni e figure sfinite dal disprezzo

 

Sono due donne, Thérèse e Isabelle, il loro genere è definito, riconoscibile e riconosciuto, non così la passione erotica che le travolge. È un amore clandestino, che si consuma nella rincorsa del domani, smembrato, riscritto, castigato per cinquant'anni nel romanzo autobiografico di Violette Leduc, uscito in versione integrale soltanto nel 2000 e andato in scena al Teatro Mascagni con l'adattamento e regia di Valter Malosti e le interpretazioni di Roberta Lanave ed Elena Serra.

In Thérèse et Isabelle il corpo e la voce dovrebbero essere il collegio in cui i sensi imparano a godere dell'amore. Due microfoni e una ferita di luce, come da una porta lasciata aperta a una risposta che finisce con un 'sì', sono lo spazio glaciale e anodino di un'iniziazione però soprattutto di testa, che dice il sesso, ma non lo sente fremere dentro e fuori.

 

Il testo, costruito sul punto di vista di Thérèse (il primo nome di battesimo di Leduc), diventa così la ripetizione di parole che non svelano alcuno squarcio vibrante o audace nel rapporto tra le due donne. Se ne L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi la distanza di temperatura tra condizioni e circostanze era misura dell'esclusione sociale subita, per Thérèse et Isabelle è la tensione ossessiva di un cambiamento che non cambia niente e nessuno. Nonostante l'impegno e l'eccitato vocabolario, lo spazio tra una frase e l'altra resta vuoto, nervosamente illibato.

 

“A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l'estro” scrive Ovidio all'inizio delle Metamorfosi. Lavorare sulle trasformazioni del linguaggio teatrale “che prima di ogni altro tentativo è davvero la lingua comune tra i popoli” è l'impeto che ha riportato a Chiusi Roberto Latini dopo i suoi Giganti della montagna per iniziati dell'edizione 2014. L'episodio di Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi) che ha solcato il Mascagni è stato Argonauti.

 

Tre microfoni, uno a destra spoglio, due in basso a sinistra ricoperti di fiori, un sipario chiuso, in fondo al sipario aperto del teatro, sono la spedizione intrapresa da una ciurma di clown nel mare di una paura che gioca a palla con la tristezza. Quando il saggio indica la luna, l'artista si mette il naso rosso al dito.

 

“L'universo non ha un centro” e allora Latini costruisce una sequenza di quadri in cerca di un equilibrio che parta dai piedi: ogni pagliaccio esplora lo spazio per trovarsi e capirsi lanciando in avanti le sue grandi scarpe colorate, numeri di fantasia accerchiati dalla macchina del fumo, da schizzi d'acqua e onde registrate. Il mito del vello d'oro, l'incontro tra Giasone e Medea, sono pezzi di frasi sussurrate o gridate ai microfoni e la nave che per prima abbia mai navigato è un canotto gonfiabile.

 

Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi) appare allora come un circo sognante che comunica, come e forse più de I giganti, tutta la sua buffonesca incomunicabilità. Un mondo senza porte o finestre, senza chiavi né spiragli per far partecipare o almeno sbirciare quella comunità che però ambisce a rispecchiare: per Latini infatti questa sua Metamorfosi vuole essere l'occasione per descrivere “la sensazione del viaggio in mare verso una meta che sembra essere più mitica del suo proprio mito. Come l'America del secolo scorso, come la Lampedusa delle cronache quotidiane”.

 

Thérèse e Isabelle, ph. Flashati Cinefotoclub

 

 

Il riposo senza pace dei figli di nessuno

 

L'intero palcoscenico del Chiostro di San Francesco diventa una zattera con Derive, pièce della compagnia Gli Incauti, diretta da Simone Toni, scritta dallo stesso Toni con Federica Castellini e intrepretata dai due insieme a Diana Manea. Un piano inclinato, ricoperto di reti da pesca, traversa un cumulo di rifiuti, il mare come discarica della nostra obsolescenza programmata. Qui sopra il mito di Enea è la conquista di una patria stipata a prua della speranza: profugo lui, profughi gli emigranti sui barconi criminali. L'avventatezza di paragonare un personaggio di carta a donne, uomini e bambini in carne, ossa e desideri, sale e si fa inquietante quando Toni evoca Schettino e il naufragio della Costa Concordia. La cronaca, buttata così, come cartastraccia tra l'altra spazzatura, non è denuncia, è far spettacolo del dolore, è impietosire il pubblico per un applauso che si lava le mani di cause e conseguenze nell'acqua di lacrime di coccodrillo.

 

Derive, ph. Flashati Cinefotoclub

 

Sulla medesima onda di informazione-spettacolo si colloca anche la Compagnia Festival Orizzonti con il progetto Voci dal Mediterraneo, che comprende due lavori scritti da Laura Fatini, Gli dei di Lampedusa, da lei anche diretto, e Ballata per Giufà, regia di Gabriele Valentini. Dopo le debolezze e ingenuità dimostrate l'anno scorso, si specifica che la compagnia coinvolge attori professionisti e semiprofessionisti provenienti da Chiusi e dai Comuni vicini. Il disegno, ora, più che la crescita e promozione di un gruppo di artisti anche oltre il Festival, è lo sviluppo nel lungo periodo di nuove professionalità, per radicarsi nel territorio e il suo pubblico.

 

Gli dei di Lampedusa, incrociando Antigone di Sofocle e Anouilh con Solo andata e L'ultimo viaggio di Sindbad di Erri De Luca, narra la tragedia avvenuta il 3 ottobre 2013 a poche miglia dal porto dell'isola siciliana con 366 morti accertati e circa 20 presunti dispersi. Sulle rive del Lago di Chiusi si confrontano uno scafista, un becchino, lo spirito della madre Africa e la stessa Antigone: un esito che annaspa in un pietismo simbolico, senza unità né consistenza di rapporti tra gli attori, le facce contrite per rendere evidente il loro giudizio del dramma, e una solennità di parole e gesti che si infrange su una non-presenza scenica.

 

Di segno opposto, invece, il risultato della Ballata per Giufà. Può dirsi riuscito il dramma della conquista di sé in scena nel Chiostro di San Francesco, guidato dagli occhi vivi e presenti di Valerio Rossi, che esprime gli sforzi sovrumani dello 'scemo del villaggio' di affermare che la libertà è il fiore che muove il viaggio e l'altre storie. La via del racconto, la possibilità per gli attori di aggrapparsi a stati d'animo che sanno riconoscere e perciò trasmettere, può rappresentare per la Compagnia Festival Orizzonti una delle direzioni per incontrare la qualità.

 

Ballata per Giufà, ph. Mauro Sini

 

 

La città e l'entusiasmo

 

Tutti debutti o versioni definitive, tutte produzioni o coproduzioni, negli Orizzonti di Chiusi, aperti non solo al teatro, ma anche alla musica, all'opera, alla danza, ai laboratori, alle mostre, al Premio Orizzonti Festival – Città di Chiusi, consegnato a Franca Valeri nella serata di chiusura condotta da Pino Strabioli. Come Prospero senza il suo zenit non avrebbe avuto buona sorte nel governare La Tempesta della sua immaginazione, così il Festival si è confrontato ogni giorno con ZENIT, il Quotidiano di informazione e critica ideato e curato da Andrea Pocosgnich e Viviana Raciti di Teatro e Critica all'interno del progetto di formazione “Campus per uno spettatore critico”, rivolto a studenti universitari e neolaureati da tutta Italia: Marco Argentina, Sofia Bolognini, Edoardo Borzi, Valentina De Marchi, Micol Gaia Ferrigno, Andrea Zardi hanno affilato lo sguardo e affinato il lessico, artisti e organizzatori hanno esercitato la loro umiltà. Perché tutte le opinioni sono uguali e meritano uguale ascolto, rispetto, considerazione.

 

Dunque, Orizzonti Festival si è pensato in grande e ha agito da grande. Ha portato Chiusi a teatro, trasformando in palcoscenico i diversi luoghi della trama urbana, naturale e architettonica, e ha convinto; ha portato il teatro a Chiusi, e ha faticato, perché qui non ci sono rendite di ricerca, la carta della sperimentazione se è bianca viene rispedita al mittente perché ci scriva almeno due righe di contesto.

 

Solo chi non sceglie non sbaglia e Andrea Cigni e la Fondazione Orizzonti d'Arte, promotrice della manifestazione, hanno scelto di spronare un borgo di meno di diecimila abitanti alla cultura, alle sue risorse e opportunità. Ciò che è mancato quest'anno non sono allora i successi o gli errori, è l'entusiasmo della città, quella elettricità che corre di casa in strada e di strada in piazza. Passato l'effetto novità, deve essere rimasto il pensiero autoassolutorio del 'tanto peggio tanto meglio', per cui l'isolamento e la chiusura al nuovo, invece che un ostacolo allo sviluppo, diventano una risorsa identitaria da preservare.

 

Se anche i chiusini non si penseranno in grande rischieranno di compiere una follia più grande di quella fatta per costruire il nuovo Orizzonti: vederselo scivolare tra le dita. Il prossimo anno sapremo se FOLLIA2016 sarà il tema solo del Festival (29 luglio – 7 agosto) o anche del futuro di Chiusi.

 

Franca Valeri e Pino Strabioli, ph. Giulia Fuccelli

 

 

Per approfondire:

Renata Savo, #Focus. Gli Orizzonti d'Arte dischiusi dal mediterraneo immaginario, Scene Contemporanee.

Andrea Pocosgnich, La cieca ricerca dello spettatore perduto. E le avanguardie?, Teatro e Critica.

Valentina De Simone, nuovi critici / metamorfosi, Che teatro fa.

Laura Novelli, Se un lago si trasforma in palcoscenico: Silvia Frasson e la sua martire santa, PAC.

Giulio Sonno, Festival Orizzonti 2015. Minoritario o elitario?, [paper street].

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