27 agosto 1950 / Pavese: Walt Whitman primo amore
I.
Il 20 giugno 1930, ancora ventunenne, Cesare Pavese si laureò in lettere all’Università di Torino con una tesi intitolata Interpretazione della poesia di Walt Whitman. L’incontro con le Leaves of Grass risaliva agli ultimi anni del liceo, come dimostrano alcune lettere a Tullio Pinelli. In una missiva del 1° agosto 1926, leggiamo per esempio: «Io, in questi boschi, mi esalto di Walt Whitman», mentre un’altra, del 19 settembre successivo, recita: «Ora io, non so se sia l’influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come Torino» (Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino 1966). Ciò spiega perché, sebbene il giovane studioso restasse profondamente colpito dal corso biennale di letterature e lingue classiche comparate tenuto da Augusto Rostagni, le sue preferenze si volsero ben presto verso quello di letteratura inglese. La discussione della tesi, tuttavia, risultò piuttosto problematica, dato che all’ultimo momento il professore di tale materia, Federico Olivero, non si presentò alla seduta di laurea. A subentrargli, su sollecitazione di Leone Ginzburg, fu uno fra i più valenti francesisti italiani, Ferdinando Neri.
Secondo alcuni critici (a cominciare da Davide Lajolo, in Il vizio assurdo), Olivero non avrebbe accettato il tono polemico nei riguardi del Regime e la stessa impostazione crociana della tesi.
Umberto Mariani (La seduta di Laurea di Cesare Pavese, in AA.VV., Studi di filologia e critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, vol. II, Salerno, 1985) ha però ridimensionato queste accuse, in un saggio che ricostruisce dettagliatamente la tormentata vicenda a partire dal fatto che Olivero fosse in realtà «tra i professori meno fascisti in quegli anni». Muovendosi con grande discrezione, Neri e Ginzburg evitarono ogni scalpore, al punto che nulla del delicato affaire trapelò fra gli amici di Pavese. Anche l’andamento della discussione rispecchiò la necessità di soffocare ogni polemica. La commissione, ha osservato Mariani, si limitò a soffermarsi su semplici dettagli espositivi, come l’uso di aggettivi desueti («spallata» per “sbagliata”, secondo la lezione di Papini) o di sostantivi dialettali («migliarola» per “quantità”).
Come che sia, Pavese finì per ottenere il punteggio di 108 su 110 (diversamente da quanto indicò Lajolo), voto corrispondente al 28 più tre lodi della sua media. Da un lato il risultato fu piuttosto soddisfacente, vista la scarsa accuratezza nella redazione finale di una tesi costellata da errori di battitura; dall’altro si finì per penalizzare una ricerca degna, a dir poco, di un dottorato attuale. Pavese, evidentemente, aveva fretta, e giunse a superare ben quattro esami, tutti biennali, nel brevissimo tempo intercorso tra la fine dell’anno accademico e la seduta di laurea. Concluso il periodo universitario, la tesi, come un rito di passaggio, gli consentiva l’ingresso nel mondo del lavoro, nella dimensione, così a lungo anelata, di quell’età adulta cui allude la dedica shakespeariana de La luna e i falò: «Ripeness is all» (La luna e i falò).
Non per niente, i mesi successivi si riveleranno densi di avvenimenti: l’ammirata rilettura del poema whitmaniano durante l’estate (come confermano alcune lettere a Pinelli e Augusto Monti); la proposta di tradurre Sherwood Anderson e Hermann Melville per la rivista «La Cultura»; la stesura di quella che Pavese giudicherà la sua prima prova poetica riuscita, ossia I mari del Sud; infine la morte della madre, il 4 di novembre. Il mondo dell’insegnamento, comunque, non venne dimenticato, se è vero che, ancora nel 1932, Pavese tenterà di diventare professore d’inglese. Lo scritto e la lezione si svolsero con successo, ma la cattiva pronuncia pregiudicò l’esito dell’esame orale.
Siamo comunque nell’arco di quegli anni, intercorsi tra il 1930 e il 1936, che molti giudicheranno fra i più sereni nell’esistenza dell’autore, e che egli stesso, in una pagina datata 5 febbraio 1946, ricostruirà in termini entusiastici:
Il decennio dal ’30 al ’40, che passerà nella storia della nostra cultura come quello delle traduzioni, […] è stato un momento fatale, e proprio nel suo apparente esotismo e ribellismo è pulsata l’unica vena vitale della nostra recente cultura poetica. L’Italia era estraniata, imbarbarita, calcificata – bisognava scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti primaverili dell’Europa e del mondo.
Lo stesso spirito informa un articolo apparso sull’«Unità» il 2 agosto 1947, in cui si legge:
Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere “la speranza del mondo”, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane e innocente. Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale (“L’influsso degli eventi”, in Saggi letterari, Einaudi, 1968).
In tale prospettiva appare inevitabile che, fra i maestri più amati, spiccasse appunto Whitman, su cui Pavese tornerà più tardi, in un articolo pubblicato da «La Cultura» nel luglio-settembre 1933, per affermare: «Walt Whitman canta la gioia di scoprire pensieri». La sua «poesia della scoperta», insomma, doveva costituire il migliore dei viatici per una generazione votata alla scoperta politica, oltre che letteraria, del Nuovo Mondo. Naturalmente molto andrebbe detto intorno all’influenza di Whitman sullo scrittore italiano, tanto più che, solo pochi anni fa, Antonio Sichera osservava come non fosse stato ancora esaustivamente studiato «il contributo complessivo […] delle […] Leaves of Grass al mondo poetico di Pavese» (Introduzione, in Giuseppe Savoca, Antonino Sichera, Concordanza delle poesie di Cesare Pavese. Concordanza, Liste di frequenza, Indici, Olschki, Firenze 1997). Tuttavia, nell’impossibilità di affrontare un argomento tanto impegnativo e vasto, limitiamoci a uno sguardo sulla tesi di laurea.
II.
Ventun’anni. Bisogna ricordare questo dato, per valutare appieno la tesi di Pavese e insieme, forse, lo sconcerto di Olivero. Dalle sue pagine, infatti, emerge un brio, una sicurezza, una sicumera, che sconfinano apertamente nell’arroganza, per ricorrere a un’espressione già usata dalla critica. Dice bene Mariani: il tono dello scritto si sarebbe potuto accettare dalla penna di autori famosi («certe pagine polemiche di Carducci, certi pezzi d’occasione […] più urbani, di un Croce, di un Russo»), non però da quella di un laureando. Eppure proprio in questo risiede il fascino di un lavoro appassionato, acuminato, acerbo.
La tesi si articola in sette capitoli, il primo dei quali (intitolato Il mito della scoperta) imposta il discorso critico e avanza la proposta di una nuova interpretazione, mentre gli altri forniscono una lettura analitica del poema whitmaniano. A sorprendere il lettore è innanzitutto l’impiego disinvolto della prima persona singolare. La scelta sembrerebbe solo stilistica, ma bastano due pagine per tradire quella iattanza in cui Mariani ha scorto l’eco delle lezioni liceali di Monti. Infatti, a una citazione di Whitman, segue la chiosa: «Nessuno mi pare l’ha mai notato» (p. 21), e poche righe dopo, per dissipare ogni dubbio: «Nessuno l’ha mai notato, ripeto» (p. 22), con una ripresa ulteriore che precisa come Pavese stia guardando al poeta americano «secondo un angolo mai applicato a lui da nessuno» (p. 28).
Questo concetto tornerà più volte, riassunto in un passo di bella presunzione: «Tutto il mio sforzo è sempre soltanto di chiarire e isolare al possibile dalla scoria congenita e dalla nebbia altrui la vera natura della creazione poetica whitmaniana» (p. 61). Né l’attacco si ferma alla «nebbia altrui», dato che altrove avrà per obbiettivo il «nebbione» (p. 102), con la variante «nuvole» (p. 122). Tanta foga nel difendere Whitman dai suoi interpreti costituisce il filo conduttore dell’intera ricerca: «Tutti han sempre sezionato le sue opere cogli strumenti più disadatti» (p. 142). Insomma, la tesi di laurea si trasforma in un autentico pamphlet: «Ma mi accorgo di andar oltre. Tante sono le quisquilie e i pettegolezzi di questa minuta e inutilissima […] critica whitmaniana, che, al solo parlarne, si diventa piccini e chiacchieroni al di là dell’onesto» (p. 123).
Eppure, ecco il punto, questa veemenza ha sempre lo scopo di riportare l’attenzione sulla specifica natura dell’oggetto letterario, misconosciuta da tanti, troppi esegeti: «Tutti discutono di metrica e di democrazia e alla poesia ci pensi il lettore. Che, fra parentesi, non sarebbe una cattiva soluzione, ma si bruciassero allora anche le opere suddette» (p. 78). Lo «sbroffoncello» (per restare a un termine di Mariani) avanza insomma osservazioni di prim’ordine, come quando suggerisce la prospettiva di un «Walt Whitman arcade» (p. 24), ossia non un poeta primitivo, bensì un poeta del sentirsi primitivo, e pertanto capace di creare il mito modernista della primitività. Da qui la clausola: «Che poi questo voler essere primitivo sia la cosa più letteraria del mondo è un altro affare» (p. 58).
Per diretta ammissione del laureando, l’essenza dello studio si trova nel primo capitolo, dove si afferma che Whitman
non fece il poema primitivo che sognava, ma il poema di questo suo sogno […] creò un suo libro dove il sogno pratico si risolve nella poesia di questo sogno, nella lirica del mondo veduto attraverso questo sogno […] passando la vita a ripetere in vario modo questo disegno, egli fece la poesia di questo disegno, la poesia di scoprire un mondo nuovo e di cantarlo. Se non paresse un gioco di parole, direi che Walt Whitman fece poesia di far poesia. Ed è questo che, in altra forma, io chiamo in lui il mito della scoperta. (pp. 25-26)
Tale nozione di una «poesia del far poesia» (destinata a diventare il sottotitolo del già menzionato saggio su Whitman pubblicato nel 1933 da «La Cultura») si può spiegare anche sulla base di una forte affinità fra l’autore e il suo interprete. Infatti, in un colloquio con Guido Davico Bonino, Italo Calvino volle rivendicare la compattezza e la sistematicità della tematica nel Pavese narratore e poeta, concludendo: «Bisogna ammettere che il suo sforzo di autocostruzione è stato immenso» (Alfabeto Einaudi. Scrittori e libri, Garzanti, 2003). Il giovane universitario dovette dunque individuare con gioia, nel capolavoro del maestro americano, il prototipo di quell’atteggiamento volontaristico a cui avrebbe votato il proprio futuro di scrittore.
III.
Ma torniamo alla tesi. Fissato il punto di mira da cui traguardare le Leaves of Grass, tenuto fermo il tono fortemente assertivo («Dico subito che in questo poem c’è una parte fallita», p. 36), Pavese procede a un sistematico smantellamento della bibliografia whitmaniana, con pagine brillanti ed efficaci contro falsi pudori o biografismi («L’“autentico” potrà aumentare il valore di una barzelletta ma non entra per nulla in un apprezzamento estetico. Di solito anzi guasta», pp. 118-119). Di fatto, sebbene rifiuti di dedicarsi a una «critica della critica» (p. 28), i passi polemici si moltiplicano fino a invadere la trattazione, con grande godimento del lettore, chiamato ad affrontare un sottisier di chiara ascendenza flaubertiana.
Tra tanto incrociare di lame («Lo Jannaccone conclude cosette», p. 122; «Non si scherza col Kennedy», p. 140), seguiamo per esempio questo affondo: «Nulla, al mio parere, è più simpatico di un critico che sappia deporre a tempo l’agghiacciante maschera del suo mestiere» (p. 77). La concessione, in realtà, è solo apparente, poiché, irritato da un’ennesima castroneria, Pavese esclama: «Allora me la tolgo io la maschera e […] mi compiaccio che, per male che vada il mio studio, su W.W. ne saran sempre state dette di più carine» (p. 77).
Nella battaglia ingaggiata contro lo stupidario composto dalla letteratura whitmaniana («la colpa è, sinora, soltanto dei critici», p. 90), Pavese intende ribattere colpo su colpo. Certo, la sua pazienza è messa a dura prova: «Che cosa debbo fare? Rimettermi a spiegare tutta la mia teoria dello stile? L’ho già fatto anche troppo» (p. 90). Grande è l’insofferenza del nostro candidato: «Come ho già scritto dieci volte» (p. 40), esclama, oppure: «Tutto questo è pacifico» (p. 42), e ancora: «Conosco la questione» (p. 46), come anche «Non sto a soffermarmi più oltre a litigare e passo al mio commento» (p. 83), su su fino a indicare «un critico di cui non faccio più il nome per non logorarglielo» (p. 84). Il culmine, però, si tocca nel terzo capitolo, dove, dopo un appunto vergato di sfuggita «(Che esagerazione!)» (p. 52), lo studioso, parlando di sé, evoca «la mia modesta persona» (p. 52). Se non bastasse, poi, valga come sigillo il passo in cui, a un giudizio sui versi di I Sing the Body Electric, segue immediata la precisazione: «Come lo vedo io» (p. 59).
No, un io del genere non si dimentica davvero. Ma che piglio attraversa le pagine sul cinematografo (pp. 92 e 114), che autorevolezza trapela dalla segnalazione di Whitman e Melville come campioni dell’America letteraria (pp. 91-92), e che baldanza si dispiega nell’attacco alla retorica del Regime (pp. 99-100). Ha notato al riguardo Michele Tondo: «Una risentita coscienza civile ispira alcune pagine in cui si ironizza la prosopopea fascista della sana civiltà latina, opposta alla decadenza spirituale del popolo americano» (La tesi di laurea. L’incontro di Pavese con Whitman, cit.). Pavese, d’altra parte, non esita a condannare alcuni fra i testi più celebri di Leaves of Grass, come nel caso di O Captain, My Captain! (destinata a finire, non per nulla, proprio in un film di successo), affermando sprezzante che la situazione descritta nella lirica «è davvero degna di esser tanto piaciuta al gran pubblico» (p. 115).
Certo, il suo crocianesimo si fa talvolta ingombrante, come quando si scaglia contro le tecniche di analisi del verso: «Intendiamoci: io non combatto qui la scienza metrica […]. Voglio però ch’essa sia davvero uno studio storico e non càpiti di vedersela tra i piedi quando si discorre di uno scrittore, in campo estetico» (p. 121). Un presupposto, questo, che lo porta a vere e proprie enormità, come quando, parlando della differenza fra le prose di Whitman e le Leaves of Grass, definisce la forma esteriore «trascurabile […] un mero accidente tipografico» (p. 125). Ma queste sono soltanto le parti più datate di un’indagine per altri versi assai accorta, e soprattutto basata su una profonda, empatica conoscenza dell’autore esaminato. Lo dimostrano le splendide pagine su come Whitman ascolti, con gusto quasi morboso, le infinite variazioni di un cinguettio o di un ronzio, fino a seguire «certi scintillii, quasi shelleyani, della luce sulle acque e tra le piante» (p. 128). Per questo, a chiusura di libro, il lettore non potrà che restare ammirato e insieme commosso dallo slancio con cui questo ventunenne delle Basse Langhe faceva il suo tonitruante ingresso nella Letteratura.
Questo testo è l’introduzione al volume di Cesare Pavese, Interpretazione della poesia di Walt Whitman, a cura di Valerio Magrelli, in uscita il 20 agosto per le edizioni Mimesis, che ringraziamo.