Settant'anni fa / Ennio Flaiano. Tempo di uccidere

30 Aprile 2017

Il dattiloscritto del romanzo che Leo Longanesi ricevette da Ennio Flaiano nel marzo del 1947 si intitolava Il coccodrillo, animale emblema di un momento fondamentale della trama. Emblematiche erano pure altre ipotesi di titolo volute dall’autore: Il dente e La scorciatoia. Eppure, tutte quelle proposte non convincevano, soprattutto Il coccodrillo. L’editore aveva infatti già pubblicato La vita del camaleonte di Fernand Angel e Parliamo dell’elefante dello stesso Longanesi, il quale allora chiese a Flaiano di ripensarci: altrimenti «facciamo un giardino zoologico». Ventiquattro ore dopo, il nuovo titolo: Tempo di uccidere. «Un po’ troppo allusivo e letterario per un libro che è invece chiaro e senza letteratura», scriveva Enrico Emanuelli su “Europeo”.

 

È la storia di un tenente dell’esercito italiano in Abissinia, durante la campagna del 1936; un’Africa «di cartapesta» che da subito assume contorni fantastici e simbolici. Snodo principale, l’incontro e il conseguente rapporto intimo con una ragazza indigena che il protagonista ucciderà per errore. Da quel momento, e dalla scoperta che il turbante da lei indossato è il possibile segno di distinzione dei lebbrosi, il tenente comincia una serie di peregrinazioni in quell’angolo remoto di mondo, roso dal dubbio di poter essere denunciato per l’omicidio e di aver contratto la malattia.

Flaiano ufficiale in Etiopia lo era stato veramente, e la sua critica alla guerra le è rivolta lasciandola sullo sfondo. Nessun eroismo, semmai il cinismo di un’avventura senza senso, macchiata per questo di responsabilità orribili che si trasmettono al protagonista attraverso l’uccisione della ragazza. L’autore «ha messo nel bel mezzo del dramma il suo protagonista e gli ha addossato ogni colpa, e non sono soltanto colpe private», dirà Leone Piccioni alla morte dello scrittore.

 

Tempo di uccidere è un unicum in una carriera fatta di testi brevi quando non aforistici, di articoli, elzeviri, collaborazioni cinematografiche. Non verrà mai un secondo romanzo, sebbene Longanesi non mancasse di sollecitarlo. Fu però proprio per l’editore milanese che nacque quest’opera. Sostanzialmente coetanei, Flaiano provava per l’amico un sincero affetto venato di riverenza: «Pensare di deludere Longanesi mi era abbastanza insopportabile, perché la sua fiducia serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto, una fiducia che non bisognava deludere». È l’autore stesso a ricordare la circostanza in cui si assunse l’impegno di scrivere: «Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre [1946], quando si fermò e mi disse: “Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?”. Io scoppiai a ridere, ma lui diceva sul serio. I suoi occhi vivi e lucidi, sempre pieni di simpatia e di indignazione, mi fissavano con sorpresa. Quando ebbi detto (per dire qualcosa) come vedevo un romanzo, una storia assolutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, nell’Africa di Erodoto e Solino, Longanesi disse: “Se comincia subito le do un anticipo”».

 

E in tre mesi il romanzo era pronto. Una rapida realizzazione, la consegna era stata infatti fissata entro il 12 marzo, «perché il 13 abbiamo il turno presso il linotipista», ricordava in una lettera l’editore, che in un’altra proclamava: «Le sue correzioni, purtroppo, non siamo riusciti a farle perché il libro è già stampato». La tiratura viene infatti ultimata in tipografia il 30 aprile 1947. Rapida esecuzione, dunque, ma per un altro amico di Flaiano, il giornalista di “Avanti!” Umberto De Franciscis, la vicenda narrata era in nuce già da molto tempo: «Dominato da quella pigrizia che è poi rispetto per la letteratura, Flaiano [...] ha tardato dieci anni ad affrontare il romanzo. [...] Tipica opera di pigro, sognata e limata, prima di essere scritta di getto e incastrata nella cornice del racconto».

 

 

Deus ex machina di tutta questa storia è, ancora una volta, l’editore, che insiste nel voler far partecipare il libro al premio Strega per «battere Moravia». Già, lo Strega. Quella del 1947 è la prima edizione, e Tempo di uccidere si impone superando largamente gli altri concorrenti. Alberto Moravia ritirò il suo La romana prima delle votazioni finali: «Donna che è savia non vota Moravia», recitava uno dei molti cartelli elettorali affissi a casa Bellonci. E ancora, nella cronaca di Paolo Monelli: «Chi ha sofferto nel ventennio darà il voto solo a Ennio»; «Riempi il bicchier che è vòto, vòta il bicchier che è pieno, ma non votar per Longanesi, che è pieno di veleno».

 

Le recensioni comparse sulla stampa nei mesi successivi all’uscita non furono però entusiastiche. Nel luglio del ’47, Giuseppe Gironda su “La voce repubblicana” non disdegna di mettere sull’avviso i lettori di una possibile delusione: le ultime pagine del romanzo secondo lui sono una «specie di elementare spiegazione [...] che toglie proprio alla fine molto di quel fascino che nasceva dalla vicenda della sua indeterminatezza e ambiguità». Ambiguità e indeterminatezza messe a nudo nello stesso torno di tempo da Giacomo Debenedetti – su “L’Unità” – il quale giudica severamente l’autore per aver perso padronanza del personaggio principale: «Prima Flaiano aveva seguito il suo inquietante protagonista come si sorveglia un sonnambulo sul cornicione, soffrendo le vertigini per lui. [...] In un romanzo come Tempo di uccidere bisogna che l’autore rimanga fino all’ultimo infettato dal personaggio: è la sola maniera di partecipare alla sua avventura e di far partecipare chi legge. Flaiano, viceversa, conduce lo sperduto e ignaro tenente attraverso un labirinto di cui egli conosce le giravolte, le cattive e le buone strade, gli ingannevoli incroci e le uscite. [Ma] ha dovuto scrivere un ultimo capitolo per chiudere i buchi che le troppe combinazioni, simmetrie, coincidenze, avevano finito con l’aprire. Che sarebbe come, per un cultore di enigmistica, ricorrere alla rubrica: soluzione del gioco precedente». Ancora, Francesco Jovine in “La Fiera Letteraria” insiste sull’incubo in cui la narrazione trasporta per poi dissolversi d’un colpo: «Il romanzo decade nel divertimento [...] facendo torto all’impegno morale e estetico che aveva tutelato la maggior parte delle sue pagine».

 

Non solo la conclusione, per i recensori del 1947 anche il personaggio del tenente ha molti limiti. Icilio Petrone su “Momento”, sebbene noti che nel quadro doloroso del romanzo italiano Tempo di uccidere si distacca «per la sua eccezionale potenza, [essendo] un libro terribile, cerebrale, amaro, ma non falso», reputa il protagonista un personaggio mediocre, in mezzo agli altri invece vividissimi: «Non è abbastanza bestiale per essere un bruto, né abbastanza umano o debole per essere un delinquente, né mai così obiettivo da essere un uomo».

 

 

Luci e ombre, dunque. Vittoria schiacciante e critica severa. Sarà la critica degli anni successivi a prendere le difese del romanzo. Fra tutte spicca quella di Moravia, colui che doveva essere – ed era stato – battuto. Nel 1956, in seguito all’uscita di Diario notturno, scriveva infatti su “Il Mondo”: «Tempo di uccidere aveva pregi di viva attualità e di acutezza psicologica e concettuale che la critica italiana, più sensibile ai valori formali che a quelli sostanziali, trascurò di sottolineare», ossia era assimilabile, in parte, a quei volumi fatti di realismo coraggioso, dubbio e angoscia, e che mostrerebbe punti di contatto con Lo straniero di Camus, per esempio.

 

Ma quel che del romanzo sopravvive, al di là di un ultimo capitolo dallo stile didascalico, è ciò che la critica successiva ha ampiamente rilevato, ossia il ruolo che in tutta questa vicenda ha il caso. Nessuno infatti ha denunciato il tenente per il suo reato e per gli altri fatti commessi successivamente; egli non è ricercato come credeva di essere, come l’immagine che s’era fatta del suo futuro avrebbe preteso. Formalmente non pagherà per le sue azioni e i conti dovrà farli solo dentro di sé.

 

E poi, sopravvive la lebbra. E il dubbio che il tenente possa averla davvero contratta, perché – sebbene le piaghe comparse sul suo corpo non fossero di quella malattia e fossero ormai guarite – essa «per manifestarsi, richiede a volte dieci o vent’anni». È dunque il grumo che ci portiamo dentro. O, per dirla con le parole dello stesso Flaiano, «forse non si tratta più di lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico».

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