Una dichiarazione d'amore / Visages, Villages, Agnès Varda & JR
Una premessa è necessaria: adoro in modo smisurato e incondizionato Agnès Varda. Tutto quello che scriverò sarà qualcosa di molto vicino a una dichiarazione d'amore.
Agnès Varda non ha bisogno di presentazioni: ha scritto, diretto e accompagnato – a partire dal 1954, con la sua prima personale nel cortile di casa – la storia dell'arte e del cinema francese d'avant-garde, della cinécriture, insieme a Chris Marker e Alain Resnais: la macchina da presa si fa strumento di scrittura e traccia una cartografia sentimentale. Sguardi che sono 'un passo a lato' dalla Nouvelle Vague di François Truffaut, Éric Rohmer e Claude Chabrol, ispirati e sostenuti da André Bazin. Tutto, con Agnès, prende una piega intima, anche e soprattutto i suoi documentari; e non sembra avere intenzione di interrompere il suo lungo racconto proprio ora: a quasi novant'anni, il suo spirito è giovane più che mai – ha il profumo intenso dei gelsomini nelle notti di maggio e una freschezza che ricorda la brezza atlantica dell'isola di Noirmoutier, dove si era trasferita con l'amore di una vita, il regista Jacques Demy, l'indimenticato regista di Les parapluies de Cherbourg (1964) e Les demoiselles de Rochefort (1967), il suo Jacquot de Nantes.
Jean René – dit JR, è invece un giovane (1983) fotografo aux lunettes noires e street-artist affichiste en plein air, esponente dell'arte pubblica, socialmente impegnato, di cui sono noti i monumentali collages urbani. Durante la loro realizzazione sono sempre coinvolte le comunità locali che prendono attivamente parte al processo artistico. Ne sono esempi il bambino messicano che si affaccia sorridente oltre il recinto sul confine tra gli USA e il Mexico, a sud di San Diego e il collage fotografico che guardato in prospettiva, fa sparire la Pyramide di Pei davanti al Musée du Louvre.
In questi giorni lo abbiamo visto al fianco dello chef Massimo Bottura durante l'apertura del Refettorio Paris nella cripta della Madeleine, un nuovo luogo di condivisione dell'iniziativa Food for Soul. Si tratta di un 'ristorante solidale', contro lo spreco alimentare: come già a Milano, Rio e Londra, si servono gratuitamente pasti cucinati a partire da cibo invenduto a poveri, migranti e senzatetto.
Forse per questo motivo, all'anteprima italiana del documentario crowdsourced Visages Villages, alla Fondazione Prada di Milano, JR non c'era. Agnès invece fa il suo ingresso nella bella sala, dopo la proiezione, elegantemente vestita di un completo viola (il colore degli spiriti poetici e indomiti, degli artisti: le si addice), con un motivo floreale ricamato sulla casacca; il volto – raccolto in un'espressione riservata, composta e dolce ad un tempo – è incorniciato dall'inconfondibile caschetto bicolor, sbarazzino e irriverente. È arrivata a Milano in treno, accompagnata dalla figlia Rosalie, portando sottobraccio una sagoma cartonata a figura intera di JR, che, pochi giorni prima aveva fatto lo stesso con la silhouette di Agnès a Los Angeles, in occasione della cerimonia di premiazione degli Academy Awards 2018: Visages Villages ha ottenuto una nomination per il miglior documentario. In novembre, Agnès ha ricevuto un Honorary Award alla carriera, lunghissima e straordinaria, iniziata per passione, da fotografa autodidatta: «for being everything, but normal, for being unique and daring...» – così Angelina Jolie ha presentato il prestigioso Oscar. A questo proposito, è importante sottolineare che, per la prima volta nella storia dell'Academy, è una regista-artista donna a essere insignita di questa statuetta. Tra gli altri numerosi riconoscimenti internazionali per questo lavoro, L'Oeil d'Or du meilleur documentaire al Festival di Cannes 2017 e il premio del pubblico al Festival di Toronto.
Questi due «outsider dell'arte» si sono incontrati per la prima volta nel 2015, dopo uno stretto giro di visite nei rispettivi atelier e da un vivace confronto a tavolino, «all'ora del tè». In tre giorni si costituisce un'insolita, complementare e più che mai riuscita, coppia artistica. Così, a partire dal desiderio comune di mettersi in viaggio, di un fare-insieme avventuroso, nel rispetto delle diverse individualità e della libertà di esprimersi visivamente ognuno secondo il proprio habitus et modus, dalla necessità e urgenza che muove i grandi maestri e le giovani menti brillanti, a dare forma, creando qualcosa di nuovo, nasce l'idea di un vero e proprio road-movie di campagna, nelle zone rurali di Francia, a bordo della camionette magique di JR,
ormai celebre laboratorio fotografico in biancoenero su quattro ruote, utilizzato anche per il suo progetto personale Inside Out. Che Agnès avesse un debole per i camion, lo si poteva già intuire guardando Les glaneurs et la glaneuse (2000).
Il lavoro ha preso forma al ritmo di una settimana di riprese al mese, per 15 mesi, prendendosi il lusso del tempo, quello dovuto, necessario, per riflettere e ripartire con nuovi slanci ed energie. In questo documentario risplende il rapporto tra cinema e fotografia e confluiscono paradossalmente frammenti di un journal intime, un memoir reso vivido dall'evocazione o dalle citazioni esplicite o meno, in forma di hommage, di grandi nomi del vivace melieu artistico-culturale francese della seconda metà del secolo scorso: oltre a Jacques Demy, Nathalie Serraute, Guy Bourdin, Henri Cartier-Bresson e Jean-Luc Godard.
Una volta partiti per la missione di ricognizione alla scoperta della realtà dei piccoli villaggi di provincia, lontano dai centri delle città più rinomate – «perché tu sei un artista urbano e io amo la campagna» dice Agnès, l'idea in nuce del documentario, l'«intento di creare un legame tra le persone filmate e quelle che guardano il film, gli spettatori», è stata rimodellata continuamente dal caso e ripensata alla luce degli eventi, un altro modo per chiamare tutte le esperienze che aprono a nuove possibilità: questo progetto felice eccede continuamente il suo stesso canovaccio, è sottoposto a una costante verifica e soggetto a continui aggiustamenti o ripensamenti in corso d'opera.
Questo film, che di per sé è già un collage-affresco, è anche una grande storia sartoriale, cucita a misura di incontro, intrecciata di storie e intessuta di legami; a partire da quello di Agnès con JR, che approfondiscono la loro conoscenza e amicizia strada facendo, nell'ammirazione, nel rispetto e persino nella cura reciproca, sperimentando con entusiasmo. Talvolta giocano, si prendono in giro, Agnès si è conquistata con lui il diritto di ridere della sua vecchiaia: «je vieillis en m'amusant»; aggiunge di non aver paura della morte, anzi, sostiene di aspettare quel momento con una certa curiosità.
Di tanto in tanto Agnès e JR si fermano in luoghi del ricordo, in altri casi è l'hazard – il piacere dell'improvvisazione, il desiderio dello scambio, del dono – a condurli su strade diverse da quelle immaginate; sempre in nome dell'incontro visage à visage: parlano con le persone comuni, ascoltano le storie che hanno da raccontare, imparano a conoscerle e, infine, le ritraggono, attraverso interviste e fotografie. Questi uomini e donne semplici, assolutamente anonimi, senza alcun potere – contadini, allevatori e operai, giovani e pensionati di villaggi dimenticati – diventano i protagonisti di questo racconto a più voci, così dentro la periferia del mondo da esserne in realtà l'arteria più viva e pulsante, tutti singolarmente partecipi di una magnifica narrazione corale, tra la memoria intima e collettiva del passato, in un presente che appare remoto. Incontriamo anche noi il postino di Bonnieux, divenuto l'eroe del villaggio grazie alla sua gigantografia su un'abitazione di tre piani; e Jeannine, una donna anziana, l'ultima ostinata abitante di un quartiere di minatori, che si commuove e commuove tutti, riconoscendo il proprio ritratto sulla facciata della vecchia casa paterna, dove ancora vive e resiste, ostacolandone la demolizione; non vuole andarsene, come gli altri.
Questi volti, ritratti profilati hors-cadre hanno un'umanità e una grandeur classica, che restituisce alle persone la parola, il senso di unicità e decoro, illumina le loro storie personali e il loro insostituibile ruolo nell'economia di una società infragilita dalle assurde logiche di (iper) produzione e consumo orientate alla conquista di una ricchezza che a lungo termine non può non rivelarsi effimera. Nel villaggio abbandonato di Pirou-Plage (invero, un nome curioso), il duo ha pensato di ri-abitarlo, animando una festa insieme alla gente del luogo, per tentare di risalire a un'origine lontana, quasi mitica. Di fatto, hanno creato una connessione a livello sociale: il villaggio è stato ripopolato da nuove famiglie, aggregate al momento come accade in un gioco di ruolo, facendo sì che l'immaginazione e la fantasia delle persone potesse risvegliarsi e ricombinarsi liberamente, in un infinito intrattenimento dentro e fuori la realtà.
Tra i collages di JR si trovano anche immagini fotografiche dell'archivio privato di Agnès o foto scattate durante i sopralluoghi: come la grande capra con le corna. Contrariamente alla barbarie diffusa tra molti allevatori di capre e produttori di fromage de chèvre, che bruciano le corna dei cuccioli, in modo che non combattano né si feriscano, danneggiando così la produzione, Patricia è un'eroina che opera nel rispetto delle leggi della natura: se le capre hanno le corna, ci deve essere un motivo; insomma, funziona come la pistola di Chechov. A Saint-Aubin-sur-Mer, in Normandia, dove JR correva spesso in moto sulla spiaggia, una mise en abîme del ricordo di Agnès: anche lei, negli anni '50 si trovava là dove abitava un suo giovane amico di talento, Guy Bourdin, solo più tardi riconosciuto tra i più importanti fotografi di moda oltralpe. Gli aveva scattato alcune fotografie, molto tempo prima: emerge il desiderio incontenibile di dare nuova vita all’immagine dell’amico, riproducendola sull'enorme bunker tedesco della Seconda Guerra, doloroso resto del passato precipitato dalla scogliera e impiantatosi nella sabbia come una scultura solitaria.
JR racconta l'impresa, la necessità di organizzare tutto il lavoro nel breve tempo che la marea avrebbe concesso all'équipe.
Inclinando l'immagine, in modo che il giovane Guy venisse accarezzato e cullato dall'acqua, l'hanno resa altro-da-sé, per il tempo brevissimo di un'apparizione destinata a svanire, portata via in poche ore dalle onde prepotenti. Come un'onda, anche il senso dell'effimero ritorna, sempre insistente e ancora si ripete: eppure, non affiora tristezza o nostalgia – «ogni incontro è come l’ultima volta» –, ma una profonda gratitudine nei confronti della vita, fluida come la materia del loro progetto. In un'intervista con Olivier Père, JR sottolinea come l'approccio di Agnès sia gentile, delicato e femminista. «Femminista! Lo sono eccome!» esclama lei. Le donne, e le plages hanno sempre avuto un ruolo determinante nel suo universo poetico; in questo film, sono state coinvolte nel suo «petit numéro de féministe» anche le mogli di tre portuali di Le Havre, dando loro finalmente non solo la parola, ma anche la possibilità di accedere a un luogo, il villaggio portuale, cui l'accesso è solitamente interdetto, dalla cultura tradizionalmente maschilista dell'ambiente (basti pensare che i lavoratori del porto hanno acconsentito alla messa in opera soltanto perché in sciopero). Eccole là, «comme trois grandes totems, qui entrent dans ce monde d'hommes et qui s'installent» sedute nel cuore dei containers colorati come mattoncini di Lego, rispettivi mariti ai piedi.
Dal momento che «le sujet c'est le regard», è necessario riflettere su l'occhio e lo sguardo, sui diversi modi di vedere – il pensiero torna per un istante a John Berger – e di raccontare che fanno di questo documentario un lavoro teorico sui dispositivi della rappresentazione (come realizzare immagini, come condividerle, mostrarle ed esporle) e sociologico ad un tempo; indirettamente persino politico.
Durante il periodo di lavorazione del film, nel mondo sono accaduti eventi terribili, catastrofi e torture; queste immagini non hanno mai smesso di attraversare i media. Varda e JR non hanno voltato le spalle alla realtà in cui siamo tutti immersi e di cui siamo irrimediabilmente consapevoli, ma hanno preferito proporre un 'antidoto': cercare un po' di pace nella meraviglia di ciò che è autentico, del dialogo, dell'incontro reale, e offrire così conforto allo sguardo ferito. Vediamo occhi grandi ovunque, persino sui vagoni di treni merci: sono gli occhi di Agnès, e ci sono anche i suoi piedi dalle dita piccine, perché possa andare ancora e sempre più lontano, mentre noi ci guardiamo e riguardiamo a vicenda, costretti a guardarci intorno, chiamati a volgere il nostro sguardo sugli altri.
La stessa vista di Agnès è messa a tema: si fa sempre più sfocata, i suoi occhi sono malati. Durante la produzione si sottopone a un intervento, in parte documentato. Tra i molti riferimenti dichiarati di cui questo film è punteggiato, la celebre scena di Un chien andalu (1929) di Buñuel e la Varda non nasconde che in gioventù aveva subito il fascino dello spirito surrealista, cadavre exquis. JR le resta sempre accanto, lui ci vede molto bene e non si toglie mai gli occhiali da sole, cifra del suo personaggio. Un po' come Jean-Luc Godard, che concede un'eccezione soltanto alla regia dell'amica, per un suo corto silenzioso, Les Fiancés du pont Mac Donald ou (Méfiez-vous des lunettes noires) che ricorda un classico di Buster Keaton, ma è un estratto dall'odissea interiore di Cléo de 5 à 7. A Godard, è dedicata anche la scena della scorribanda in sedia a rotelle lungo la Grande Galérie dei dipinti – tra Botticelli, Ghirlandaio, Raffaello o Arcimboldo – del Musée du Louvre, omaggio alla corsa perdifiato di Bande à part (1964). Anche Bertolucci aveva girato la stessa scena in The Dreamers (2003), ma in modo decisamente più mimetico; la citazione non è mica una leggerezza. Questi due scanzonati, invece, sono artisti ironici che si occupano di cose molto serie: il racconto, tutto ciò che più importa, sta nei margini (di natura fisica ed economica, come scelta sociale e politica) ed è su questo limite, su questa soglia che l'opera si compie.
È sorprendente come appena prima della fine delle riprese «dopo tante porte aperte, una porta resti chiusa»: proprio quella di Jean-Luc. L'imprevedibile e crudele traditore non si presenta all'appuntamento, ma lascia sulla porta un messaggio misterioso, cifrato, che le ricorda forse il tempo passato insieme, con Jacques. Agnès è addolorata, ferita dall'assenza; assistere alla sua reazione è senza dubbio uno dei momenti più toccanti dell'intero lavoro. Impreca a bassa voce, ma non commenta l'episodio – del tutto inaspettato – che pure è filmato e offerto. Quanta delusione nel suo allontanarsi, è talmente triste che trattiene le lacrime a stento. JR si toglie gli occhiali per un momento, in segno di un affetto ormai profondo.
Questa inquadratura avrebbe dovuto essere quella finale: in mezzo a una vasta spiaggia deserta della Normandia, seduti accanto, avvolti dalla bruma, i loro profili se ne stanno nel vento. Sembrano piano sparire: eppure no, non finisce così. Li ritroviamo ancora in viaggio. Verso dove? La risposta è al cinema.
IG ⟶ @agnès.varda & @jr + @facesplacesfilm || Scheda del film presentato a Cannes e il Trailer ufficiale.