Borges antologista e il gioco dei sogni

14 Novembre 2015

Università dell’Indiana, marzo 1976. Conversando con Willis Barnstone, Jorge Luis Borges, stimolato dall’interlocutore a dar conto di quale sia per lui la differenza tra il sogno e la veglia, dichiara: «Nel caso del sogno si sa che tutto viene creato da noi stessi, mentre nello stato di veglia molte delle cose che vi accadono non vengono da voi, a meno che non crediate perdutamente nel solipsismo. […] La differenza fondamentale tra lo stato di veglia e il sonno, o il sogno, risiede nel fatto che l’esperienza onirica è qualcosa che può essere generato, creato, da noi […]. Quando si sta creando una poesia, c’è poca differenza fra essere svegli ed essere addormentati, […] è come se fossero la stessa cosa» (Jorge Luis Borges, “Quando mi sveglio”, in Conversazioni americane, trad. it. di Franco Mogni, Editori Riuniti 1984, p. 42). Leggendo queste parole, sembra che per Borges, a caratterizzare in qualità di fondamento l’atto onirico, il momentaneo trasferimento nell’altrove delle mimetiche coscienze sospese, ci sarebbe primariamente la dimensione creativa, e dunque il sogno sarebbe tale perché proveniente da chi lo sogna, non da altri. Ma nulla toglie che lo stesso si possa dire della poesia; in quanto atto creativo, essa sottostà infatti alle medesime dinamiche strutturali del sogno, perché proviene da chi la compone (scientemente o meno non importa) e non da altri. Le poche battute citate ci mettono di fronte a un tipo di ragionamento a cui il lettore di Borges è ben avvezzo, un ragionamento basato su precise regole procedurali che gustosamente rifuggono dalla contraddizione: (1) non vi è identità tra il sogno e la veglia; (2) il sogno è tale in quanto atto essenzialmente creativo, e la veglia è tale in quanto atto non essenzialmente creativo; (3) la poesia, in quanto atto creativo, è simile al sogno, ma può avere origine tanto in questo quanto nella veglia. L’atto poetico potrebbe dunque essere considerato come un ponte soprelevato o una galleria sotterranea, cioè un passaggio utile, al di là della scadente similitudine ingegneristica che si scelga, a collegare i due stati dissimili e incommensurabili che sono dati da vivere alla nostra coscienza.

 

Luis Borges and William Barnstone, Buenos Aires 1975

 

In effetti, a ben vedere, esistono in Borges numerosi concetti che godono di una sorta di statuto speciale, che sono cioè in grado di oltrepassare la frustrante secchezza del principio di non contraddizione imponendo un eccesso di furore a coloro che invece solitamente, senza fatica, vanno dietro alla linearità del pensiero. Uno di questi concetti è rappresentato appunto dalla poesia, capace di infischiarsene dei confini posti tra il sogno e la veglia. Lo stesso accade per quel che riguarda la memoria, altro fenomeno che a Borges sta particolarmente a cuore: in essa confluiscono le trame del reale e dell’immaginario, dell’esperienza della veglia come di quella del sonno. A oggettivarla, a offrircela in una materialità palpabile e non sempre confortante, c’è uno specifico strumento, lo stesso in cui sovente si manifesta l’atto poetico. E chiaramente si tratta del libro.

 

Due anni dopo la conversazione con Barnstone, l’anziano Borges, ormai quasi totalmente inoltratosi nel suo lento crepuscolo estivo, viene chiamato a tenere cinque lezioni all’Università di Belgrano, Buenos Aires. La prima di queste lezioni, intitolata limpidamente “Il libro”, si apre così: «Fra i diversi strumenti dell’uomo, il più stupefacente è, senza dubbio, il libro. Gli altri sono estensioni del suo corpo. Il microscopio, il telescopio, sono estensioni della sua vista; il telefono è estensione della sua voce; poi ci sono l’aratro e la spada, estensioni del suo braccio. Ma il libro è un’altra cosa: il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione. Nel Cesare e Cleopatra di Shaw, parlando della biblioteca di Alessandria si dice che è la memoria dell’umanità. Il libro è questo, ma anche qualcosa di più: l’immaginazione. Che cos’è il passato se non una serie di sogni? Che differenza può esserci fra il ricordare i sogni e il ricordare il passato? Questa è la funzione che svolge il libro» (Jorge Luis Borges, “Il libro”, in Oral, trad. it. di Angelo Morino, Editori Riuniti 1981, p. 17). Qui il ragionamento sembrerebbe seguire il seguente percorso: (1) l’uomo, ente fallibile, ha bisogno di strumenti che siano estensioni del suo corpo; (2) il libro estende invece la memoria (il passato) e l’immaginazione (i sogni); (3) appartenendo al libro, memoria e immaginazione sono la stessa cosa, si confondono in un unico fantasma: tra i sogni e il passato c’è dunque identità. Entrambi, verrebbe da dire, sono atto poetico.

 

Tutto questo ci porta a una temporanea conclusione secondo la quale il sogno e la memoria non sarebbero altro che finzioni, perché appartengono al mondo del libro e si sviluppano a partire dalla soggettività (che non ha nulla del solipsismo) dell’atto poetico. Ed è pur vero, inoltre, che il sogno non può essere preso in considerazione nella sua manifestazione pura, poiché al risveglio ce ne rimane soltanto la memoria, la quale generalmente non corrisponde con precisione al suo oggetto originario, come Borges pure sostiene nella seconda delle sue Sette notti, le conferenze tenute dallo scrittore argentino nel 1977 al teatro Coliseo di Buenos Aires: «L’analisi dei sogni presenta una particolare difficoltà. Non possiamo analizzare i sogni direttamente. Possiamo parlare del ricordo che dei sogni abbiamo. Ed è possibile che il ricordo non corrisponda perfettamente al sogno. Un grande scrittore del diciottesimo secolo, Sir Thomas Browne, era convinto che il ricordo dei nostri sogni fosse più povero della splendida realtà. Altri, invece, credono che riferendone li miglioriamo: se pensiamo che il sogno sia un’opera di finzione (e io credo che lo sia) è possibile che si continui ad affabulare durante il risveglio e anche quando lo raccontiamo» (Jorge Luis Borges, “L’incubo”, in Sette notti, trad. it. di Mirka Eugenia Moras, Feltrinelli, 1983, p. 32).

 

Finalmente siamo approdati al punto centrale della questione: i sogni sono finzioni, e proprio per questo essi sono passibili del medesimo trattamento degli atti poetici, rientrando dunque a pieno diritto in ciò che chiamiamo letteratura (che è anche memoria e passato). Forse proprio in quest’ammissione sta il motivo basilare dell’antologia intitolata Libro di sogni, curata da Borges con l’aiuto di Ray Bartholomew nel 1976 (esattamente negli anni che hanno ospitato le conferenze e gli interventi fin qui citati), e ripubblicata oggi in Italia da Adelphi per la cura di Tommaso Scarano. In questo volume, rintracciando il tema del sogno in millenni di letteratura, Borges dà eccellente sfogo a quella sua vocazione da antologista, da inveterato e cocciuto abitante della biblioteca, che prima del 1976 lo aveva già portato a dar vita a straordinari compendi di cultura universale, basti soltanto pensare a Il libro del cielo e dell’inferno, curato nel 1959 con Adolfo Bioy Casares (ed. a cura di Tommaso Scarano, Adelphi, 2011), o a Il libro degli esseri immaginari del 1967, per il quale Borges si avvalse in principio della collaborazione di Margarita Guerrero (ed. a cura di Tommaso Scarano, trad. it. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2006). Conformemente a quanto recita il titolo, nel Libro di sogni Borges raccoglie senza precisi schemi centotredici frammenti di opere che hanno per oggetto esattamente il sogno. In queste pagine vertiginose, perché la vertigine è un attributo dell’ignoto così come l’ignoto è attributo del sogno, ci imbattiamo dunque nel mito di Er (quel racconto germinale in cui Platone, nel X libro de La repubblica, riferisce della piana del Lete e della trasmigrazione delle anime), nel parodico sogno del giudizio universale immaginato da Francisco de Quevedo, nelle testimonianze dei costumi selvaggi raccolte dall’antropologo James Frazer nel suo Il ramo d’oro (secondo le quali gli indigeni del Brasile e della Guiana trasferiscono sul mondo diurno della veglia l’esperienza del sonno) e in molti altri momenti che la narrativa, la filosofia, la poesia o il mito, cioè le diverse manifestazioni della letteratura, hanno dedicato al tema sensazionale dell’esperienza onirica. E come di solito accade nelle antologie curate da Borges, anche in Libro dei sogni il lettore trova nascondigli ben mimetizzati in cui si materializza l’arte dell’apocrifo, succulento gioco letterario a cui l’autore argentino ha dedicato alcune tra le sua pagine più belle. Nascosti tra i centotredici frammenti, che in buona parte sono riscritture, sintesi e mistraduzioni dei testi originali da cui provengono, ci sono infatti autori che non hanno mai avuto il privilegio di albergare nella carne, ma che hanno avuto invece quello forse più degno di abitare soltanto nei libri. È il caso, per esempio, del frammento 46, intitolato “«Der Traum ein Leben»”, tratto dalle Memorias de un bibliotecario, un testo immaginario del 1955 che nell’antologia viene attribuito a un certo Francisco Acevedo, scrittore chiaramente fittizio il cui nome, seguendo il metodo di attribuzione onomastica toccato al suo più famoso omologo Honorio Bustos Domecq, artefice evanescente di Sei problemi per don Isidro Parodi (Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, ed. a cura di Antonio Melis, trad. it. di Lucia Lorenzini, Adelphi, 2012), viene recuperato direttamente dal novero più recente degli avi di Borges. In questo piccolo stralcio, il lettore attento incontra un aneddoto che lo stesso Borges cita, stavolta senza attribuirlo ad autori mai esistiti ma prendendosene la paternità, nella conferenza “L’incubo”, a cui sopra pure abbiamo fatto già richiamo.

 

I brani raccolti sotto il titolo di Libro di sogni, dunque, possono per tutte le ragioni su elencate rappresentare una cifra generale utile a inquadrare buona parte dell’opera di Borges, perché sotto l’egida del gioco, di quell’intenzione ludica che come sostiene Enrique A. Giordano (“El juego de la creación en Borges”, in «Hispanic Review», vol. 52, n. 3, 1984) è liberatoria (perché sottrae l’individuo alla frustrazione delle convenzioni) e creativa (perché gli permette di dar vita a innumerevoli realtà), antologizzare vuol dire riscrivere, ricreare, mistradurre, traslare, mentire e ricordare; ossia, ancora una volta, utilizzare il metodo del sogno.

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