L’estate dei festival / Santarcangelo Slow & Gentle
La percezione frammentata, la magia (Massimo Marino)
Performance o conversazioni della durata di dieci-venti minuti o due ore di azione che si possono guardare per quanto tempo si vuole e poi uscire. Video, azioni che commentano il video e spostano il documento verso la metafora e l’emozione. Conferenze che chiamano lo spettatore a testimone. E un’esperienza unica, Guilty Landscapes di Studio Dries Verhoeven, una diretta internet con un’infernale fabbrica cinese di tessuti, in uno spazio nero, da solo a solo con un’operaia che sembra in un ambiente ovattato, ti saluta, ti guida, ti muove, e poi toglie le cuffie e fa precipitare il suo inferno di frastuono sopra di te. Spettacoli che guardano a discipline sportive e danze in loop che si reinventano continuamente. Concerti nelle piazzette della città e notti elettroniche sotto il tendone dell’Imbosco, tra gli alberi del parco, fino all’alba come nelle discoteche della vicina Disneyland di Rimini,
Santarcangelo 49 Slow & Gentle – ultima edizione del triennio con la direzione di Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino e prima con la presidenza affidata al sociologo delle comunicazioni Giovanni Boccia Artieri – sembra riprodurre la percezione frammentata, molteplice, infinitamente dislocata e divagante dei nostri giorni: porta perfino in una vasca dove con Macao ci si allena a non far nulla, più o meno in assenza di peso, in sospensione. Sospende, come l’astronauta Samantha Cristoforetti nella sua astronave tra le stelle, contro la gravità della vita delle badanti dell’Est Europa, spinte in esilio dalla miseria del disfacimento dell’Unione Sovietica e approdate a tener dietro ai nostri vecchi, icone delle trasformazioni dell’Italia da paese familista a luogo di mille disgregazioni.
Questo festival è un menù che lo spettatore deve comporsi, un’esperienza da ricercare. Puoi anche prenderti qualche fregatura, come lo spettacolo simbolo, Dragon, Rest Your Head on the Seabed di Pablo Esbert Lilienfield e Federico Vladimir Strate Pezdirc visto in una piscina olimpionica di San Marino, richiamo tra sport e rappresentazione al nuoto sincronizzato, alla mitologia e alla fiaba, che si rivela alla fine ben poca cosa, noiose evoluzioni in piscina che “destrutturano” tanto la disciplina da risultare solo slabbrate, senza creare effettivamente mai suggestione immaginale. Ma ci sta, in una manifestazione che si distende su dieci giorni e che ha qualcosa del luna park post-postmoderno, un’ora con pretese “pop” alquanto insulsa.
Se non ti ripaga la nuova arcadia citazionista, ammiccante e compiaciuta, di Graces di Silvia Gribaudi, che continua a insistere con ironia ripetitiva (consumata?) sulla differenze tra corpo perfetto, mitologico, del danzatore e corpo normale tendente al largo, rivisitando nientemeno che il mito delle tre Grazie, il balletto classico e il musical, in un insieme che ha la sua ispirazione proprio nella sproporzione, nel fallimento, con vecchia tecnica da clown aggiornata con ghigno tardivamente attualizzato, trovi sempre qualcosa che ti fa saltare altrove, magari nella notte. Per esempio, nel primo fine settimana, l’incantante Ultras sleeping dances di Cristina Kristal Rizzo, su un tappeto bianco, al centro del grande spazio all’aperto dello Sferisterio, con macchie di materiale vischioso e colorato in qualche punto del plateau, con ballerine e ballerini con parrucche. Entrano, si rotolano, si contraggono, come durante un sonno agitato o cullato da sogni agitati o cullati da figure che noi spettatori possiamo solo immaginare. Poi a questo gioco ipnotico di rilassamenti e tensioni succede un liberarsi degli orpelli e mostrarsi con macchie di sangue, come morsi di vampiri, in danze in piedi sempre più libere, vorticose, dove come zombi, come contagiati dal Principe delle Tenebre, i corpi non si incontrano, non si scontrano, al massimo si sfiorano, per numerose uscite fuori scena, cedimenti, blocchi surplace, rollare, chiudersi per slanciarsi a roteare braccia, con occhi tinti di nero e piangenti, pianti, equilibri instabili, fragilità, mentre la musica da malinconiche cullanti atmosfere West Coast lascia il posto alla distillazione di un pianoforte e le materie viscose diventano uno degli ultimi travestimenti di una materia che si deforma, si strascina, si agita, si trasforma. Sogni di qualcosa sognata, di angosce, di slanci e desideri, consci, inconsci, oltre il prevedibile, oltre il possibile: una malia.
Teatro e documento (Enrico Piergiacomi)
Ci sono due modi di intendere il rapporto tra teatro e testimonianza. Il primo è pensare che l’esperienza performativa fotografi la realtà, il suo andamento e i suoi problemi, con finalità di denuncia politica. Ci troviamo di fronte qui al “documento del teatro”. Il secondo modo di intendere il rapporto consiste, invece, nel prendere la testimonianza come il punto di partenza e non di arrivo dell’attività performativa, orientandola verso la riflessione poetica. Avremo in questo frangente il “teatro del documento”.
Gli spettacoli Debriefing Session del collettivo Public Movement e Lighter Than Woman di Kristina Norman ospitati al Santarcangelo Festival sono due esempi di queste modalità complementari dell’esperienza teatrale. Un rapido confronto tra i due lavori aiuta, pertanto, a mostrare come la funzione del documento muti in base al tipo di teatro che si intende realizzare.
Cominciando da Debriefing Session, si nota qui che la forma teatrale è pensata per testimoniare, in modo rapido e diretto, l’esistenza di alcuni processi di rimozione della memoria storica. Un Agente del collettivo Public Movement prende da parte uno spettatore alla volta e, foglio alla mano, fornisce informazioni confidenziali su come lo stato di Israele abbia cancellato ogni ricordo delle opere degli artisti palestinesi precedenti al 1948, che non sostenevano l’ideologia allora dominante. L’aspetto che è registrato come rilevante è un sistema di assenze. Il teatro ambisce dunque qui a fotografare un vuoto creato dal potere, senza fornire idee o ricette per colmarlo. Lo spettatore è così chiamato dal documento a reagire con le risorse e le possibilità che può mettere in campo, trasformandosi a sua volta in agente oppositore dei processi di rimozione.
Lighter Than Woman fa da contraltare narrando un tema nell’apparenza più dimesso. Norman raccoglie una serie di interviste ad alcune donne dell’Europa dell’Est, che si trasferirono dal loro paese di origine a Santarcangelo o a Bologna e si trovarono a lavorare come badanti per mantenere la famiglia che si erano lasciate alle spalle, o che ricostruirono in Italia. Diversamente da Debriefing Session, però, qui il documento è usato con finalità di carattere astrattivo ed estetico. Ciò che interessa Norman è infatti sottolineare somiglianze tra la badante e l’analogo a prima vista incongruo dell’astronauta. Come ad esempio il secondo diventa capace di staccare sé stesso e gli oggetti più pesanti dalla forza di gravità terrestre, non appena supera l’atmosfera, così la prima impara a sollevare il morale e il corpo dei suoi pazienti, dopo aver lasciato il suo paese. Il documento delle interviste fornisce così l’occasione per mostrare come la realtà sia più poetica di come siamo abituati a guardarla. Cielo e terra non sembrano più essere piani incomunicabili, se è vero che la badante può essere considerata un’astronauta della cura e della relazione.
Analizzati in termini più astratti, lavori così diversi evidenziano la presenza di polarità dissonanti dentro il teatro. Esso ricorre ai documenti come un fine (Debriefing Session) o un mezzo (Lighter Than Woman)? Facilita la rivoluzione o la contemplazione? Individua nessi precisi e scientifici sul piano del divenire storico, che alimentano la ragione, oppure crea accostamenti arditi e stranianti, che stimolano l’immaginazione? Oggi come in passato, il teatro continua a oscillare tra questi diversi sentieri, senza riuscire a indicare quale sia la via più giusta ed efficace. Chi coltiva il “documento del teatro” può tacciare gli artisti più poetici di non riuscire a cambiare il mondo, mentre chi favorisce il “teatro del documento” può sempre replicare ai suoi rivali che essi chiudono gli occhi davanti agli aspetti più complessi e magici della realtà. Una simile ricchezza di teoria e di prassi dimostra il carattere abissale dell’arte teatrale, in cui sia i reazionari sia i poeti possono trovare ugualmente casa e ispirazione.
Quando la danza è dolce e gentile (Gaia Clotilde Chernetich)
A chiusura del triennio diretto da Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino, Santarcangelo Festival ha confermato un’attenzione particolare alla coreografia. Già sulla carta il programma sembra voler inscrivere la visione di corpi in movimento nella loro durevole estemporaneità e nella loro dimensione trasmissibile. L’accento sembra essere stato posto, in linea con quanto sta accadendo su scala internazionale, sulla dimensione sociale, partecipativa e relazionale che mette in contatto l’atto performativo con la sua memoria e con la storia passata, presente e futura della comunità – anche temporanea – che vi assiste. Sia attraverso la diversità formale delle proposte, sia attraverso le modalità con cui gli artisti hanno scelto di incontrare lo sguardo del pubblico, il festival compone una panoramica che non si sottrae dalla possibilità di dare conto dei mondi entro cui possiamo parlare di danza. La qualità radicale dell’esperienza è nei formati, che giocano con la dimensione relazionale, offrendo una qualità comunitaria tanto all’individuo, la cui cura è messa al centro, quanto alla collettività, il cui senso e la cui forma viene esplorata.
In Andamento unico della coreografa Elena Giannotti, Mia d’Ambra mostra una calligrafia coreografica che cattura la visione sia nella sua versione indoor sia all’aperto, dove la fisicità minuta della giovanissima danzatrice traccia traiettorie infinite, che congiungono le sue più piccole porzioni di movimento con una dimensione superiore, che la proietta al pubblico nel suo “stato di danza” travolgendo per limpidezza e complessità emotiva.
Intima e trasmessa con cura, la dimensione personale evocata da First Love di Marco D’Agostin ha invece la capacità di disegnare un ricamo preciso per corpo e voce che connette una memoria importante della giovinezza del coreografo e interprete dello spettacolo con alcuni segni sonori che il ricordo porta con sé nel presente, quel luogo dove lo sguardo adulto dell’artista rivolto alla propria memoria ha la stessa magia dolcissima della prima neve che scende. Senza cedere alla vanità del ricordo né a quello della pura gestualità, la danza fonde allora il corpo a un virtuosismo della voce che, in perfetto accordo con il movimento, riproduce l’audio della telecronaca della gara con cui la sciatrice Stefania Belmondo vinse alle Olimpiadi invernali del 2002. Lo sguardo del pubblico si lascia allora coinvolgere divertito, sospeso tra la maestria della danza e la ferma delicatezza con cui Marco D’Agostin sa infondere nei propri lavori una possibilità di incontro tra la coreografia e la parola, intesi come oggetti concreti della performance, e una dimensione memoriale che assorbe l’effimero della nostalgia individuale rendendola nuovamente disponibile, come nuova materia prima, per chi osserva.
Save the Last Dance for Me di Alessandro Sciarroni, invece, è un processo di trasmissione, sia didattico sia performativo, di un ballo di coppia tradizionalmente eseguito da uomini che, prima di questa edizione del festival, solo cinque persone erano ormai in grado di danzare. Salvata dall’oblio, la polka chinata è materia di nuova invenzione, in dialogo costante con la tradizione e con il mistero che una danza a rischio di estinzione naturalmente porta con sé.
“Slow and Gentle”, la danza a Santarcangelo è espressione del sottotitolo del festival. La comunità di sguardi è memoria del gesto e della sua prossimità con il presente e il futuro – speriamo – delle nostre visioni.
MK in viaggio verso Bermudas (Maddalena Giovannelli)
Se siete stanchi di brevi soli e di performance a corto raggio, Bermudas è la destinazione che fa per voi. MK presenta al pubblico di Santarcangelo una composizione ampia, corale, energica, che mostra come rigore e apertura possano felicemente convivere.
Sul foglio di sala campeggiano ben tredici nomi di danzatori; tra questi, Biagio Caravano, colonna portante della compagnia fin dagli esordi, insieme a eccellenze della scena nostrana come Marta Ciappina. In realtà, sul palco, appaiono soltanto sette figure: Bermudas è un organismo collettivo che prende vita, volta per volta, con cast variabili e con alterni incontri di corpi e di presenze.
Non è difficile riconoscere, già dal titolo, un nucleo di senso caro a Michele Di Stefano (per esempio in Impressions d’Afrique e in Il giro del mondo in 80 giorni): l’idea di un altrove non geografico che si genera come esito di dinamiche e posture corporee, un viaggio che è prima di tutto la capacità di “stare” in spazi di transizione, di attraversare le turbolenze inaspettate che si accendono nell’incontro con l’altro.
In Bermudas il patto con lo spettatore è limpido, e proprio in questa limpidezza risiede la complessità della sfida: nei primi istanti dello spettacolo, un danzatore si fa avanti, e ci svela le regole che detteranno il gioco performativo. Pochi gesti, apparentemente semplici e riproducibili. Largo, lungo, rovescio, lato.
A partire da quattro lettere coreografiche i performer continueranno a generare parole, e con quelle frasi, fino a costruire un’intera e vitale sintassi. Bermudas si rivela dunque un vero e proprio manuale sui processi di composizione, con possibili istruzioni per l’articolazione complessa di elementi semplici nello spazio e nel tempo (nella stessa direzione si muove un altro bel progetto recente, Alphabet di Gruppo Nanou).
Ma niente di più lontano da una lezione accademica algida e autoreferenziale. Il movimento verso lo spettatore è duplice: da un lato viene fatto cadere il velo, con semplicità, su ciò che normalmente in danza resta precluso, esoterico, legato al possesso di un sapere per pochi. Dall’altro l’energia dei performer, complice il ribollente ambiente sonoro (Kaytlin Aurelia Smith, Juan Atkins/Moritz Von Oswald, Underworld), immerge il pubblico in quarantacinque minuti di gioiosa entropia. Ai lati della struttura gremita, montata nello Sferisterio di Santarcangelo, gruppi di spettatori senza biglietto sbirciano da ogni angolazione, si siedono per terra, guardano dall’alto, attratti dagli attraversamenti scenici dei performer. Quella tensione in apertura, che pare invitare lo spettatore a farsi permeare dalle dinamiche corporee dei danzatori, è stata raccolta in Bermudas Forever: una naturale evoluzione del sistema coreografico di Bermudas dove la ripetizione ampliata dello schema (tre ore) e la condivisione delle istruzioni per entrare nel gioco arriva a coinvolgere il pubblico come una corrente. In tempi in cui si propaga implacabile il mantra dell’inclusione, Michele Di Stefano (che firma ideazione e coreografia del progetto) ne smonta la retorica con garbo, limitandosi a disporre con competenza i reagenti e a produrre l’energia di attivazione. E si conferma così una delle voci autoriali più vive, lievi e intelligenti del nostro panorama coreografico.
L’ultima fotografia, da Bermudas, è di Andrea Macchia.