Adolfo Bioy Casares / Dormire al sole

6 Ottobre 2018

Nel vasto campo della letteratura fantastica ci sono storie in cui il fantastico si dà per uno sdrucciolamento del terreno, un leggero inciampo che apre non più che una feritoia nel reale. 

Non dissimile può essere, in un personaggio, il confine lieve tra pazzia e sanità mentale, talmente sottile in certi casi da rendere difficile riconoscere in un discorso per lo più logico il germe della follia incastonato in piccoli tremori del racconto, in istantanei cortocircuiti che come un’invisibile scivolata portano su un sentiero inaspettato eppure a prima vista coerente all’incedere.

 

Lucho Bordenave è il protagonista di Dormire al sole, romanzo del 1972 di Adolfo Bioy Casares, pubblicato a luglio da Sur. È un protagonista che contiene in sé la capacità e il piacere semplice di raccontare una storia e allo stesso tempo la possibilità dello slittamento. Il mondo di Lucho è il mondo quasi tipizzato di un quartiere di Buenos Aires, un passaje – che viene chiamato così anche nella traduzione italiana –, microcosmo chiuso al mondo esterno, in cui tutti si conoscono e si incontrano quotidianamente, in cui tutti sanno tutto di tutti e in cui sembra che il tempo storico non entri più di tanto a far parte delle vite delle persone. 

 

“C’è chi ha detto, lo so, che nel matrimonio ho avuto fortuna. Sarebbe meglio che gli estranei non dicessero la loro sulle faccende private, perché di solito sbagliano. Ma vaglielo a spiegare, a quelli del quartiere e ai parenti, che sono degli estranei.”

 

Così, mentre già si fa avanti la percezione di un’estraneità e incomunicabilità categoriche, come se né il linguaggio né i rapporti umani consentissero una comprensione reciproca, né tanto meno una verità condivisa, l’orologiaio si rifugia nel suo rassicurante studio, lontano dal vociare della casa e della strada, a montare pezzi perfetti che basta assemblare nel modo giusto perché funzionino. Accanto a lui, antitesi di questa quieta perfezione fatta di quadranti e lancette, c’è la moglie Diana, donna bellissima e inafferrabile nei suoi capricci, improvvise fascinazioni e idiosincrasie, oggetto dell’amore e del desiderio assoluto di Lucho e insieme motore di litigi e di instabilità continue.

 

 

C’è chi, nel passaje, offre la possibilità agli esseri umani di funzionare con la stessa precisione di un orologio. Il dottor Samaniego garantisce risultati straordinari a donne inquiete e nevrotiche come Diana: basta qualche tempo nella sua clinica per uscirne completamente rinnovati, sereni e docili, in pace col mondo. Solo, avverte il dottore, bisognerà che al suo ritorno il marito presti molta attenzione a non ricreare gli antichi nocivi meccanismi, di cui forse potrà avere nostalgia al ritorno della compagna. 

I coniugi Bordenave vengono convinti della necessità del ricovero di Diana da “un certo signor Stendle”, addestratore di una scuola per cani, spesso “in giro per il quartiere, sempre con un cane diverso, che lo segue come in attesa di ordini e non guaisce nemmeno, per paura di farlo arrabbiare” e che fa da intermediario della clinica. Mesi dopo, la nostalgia pronosticata dal medico si fa sentire. E non appena Lucho varca la porta dell’ospedale per lamentarsi del cambiamento troppo profondo della moglie e reclamare la Diana di una volta, viene a sua volta internato – e nella lucidità che fino a quel momento gli sembrava averlo accompagnato cominciano a insinuarsi tracce di delirio.

 

Ricorda un po’ I sette piani di Dino Buzzati – di cui, chissà, forse Bioy Casares aveva visto la commedia teatrale rappresentata anche a Buenos Aires a metà degli anni ’50? – il tentativo di Lucho di aggrapparsi alla certezza della propria sanità e il suo sprofondare sempre più in fondo al baratro della paranoia. Resta un velo di ambiguità ora che non si sa più se credere a lui o ai medici e ci si chiede se la fonte della pazzia sia in lui stesso o nell’ospedale, dove l’impotenza di fronte alla reclusione e alla somministrazione dei medicinali forse farebbe impazzire chiunque. Viene spontaneo porsi in parallelo la stessa domanda rispetto a quelli che prima erano i manicomi e oggi gli ospedali psichiatrici, e in maniera più ampia riguardo alla società stessa.

 

Del resto il narratore non è certo affidabile, essendo proprio Lucho a ripercorrere le proprie vicende nel tentativo di farvi luce, per altro attraverso una lunga lettera rivolta a un “nemico” di quand’era bambino, quasi un estraneo, sicuramente non qualcuno che lo conosce e lo può capire ma a suo parare l’unico che lo possa salvare da questo bizzarro manicomio in cui si trova imprigionato. E che in tutta risposta non farà che mettere in dubbio l’autenticità della lettera e dunque di tutto il libro.

 

Lucho racconta di Samaniego, che come un Dottor Frankenstein o come il professor Preobrazenskij di Bulgakov si diverte a sperimentare innesti di anime umane in corpi di cani e viceversa: durante un tentativo di fuga scopre infatti gli inquietanti retroscena della clinica e il motivo per cui ormai non è più possibile recuperare la vera anima della sua Diana, assegnata ormai a un altro corpo. Ecco qui, non inaspettato, non stridente con quel realismo venato di paranoia che fin qui avevamo trovato, lo sdrucciolamento, che mescolandosi alla paranoia stessa non dà mai pienamente luogo al fantastico ma si scosta dalla linearità realistica.

La scuola di addestramento per cani assume ora un significato sinistro, gli esperimenti rimandano alle cavie umane dei campi di concentramento nazista.

Bulgakov aveva scritto Cuore di cane come satira politica, pensando al proposito del regime sovietico di plasmare la società ex-novo, e in chiave politica, in una simile direzione di “addomesticamento”, si potrebbe interpretare anche Dormire al sole, che viene scritto proprio all’alba di uno dei momenti più duri della storia argentina. L’elemento fantastico sarebbe allora una ferita nel reale capace di calarci oltre la sua pelle e dentro le viscere, dandocene quindi una visione ancora più lucida e profonda.

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