Un classico dello spionaggio del 1926 / Valentine Williams, L’uomo dal piè storto
L’uscita del romanzo di spionaggio L’uomo dal piè storto di Valentine Williams (Quodlibet, Macerata, 2021) è meritevole sotto diversi profili.
Il primo è quello di recuperare testi usciti in anni lontani che sembravano sprofondati nell’oblio. Questo libro in particolare era stato pubblicato nel 1926 da un minuscolo editore di Torino, Edizioni Cosmopolita che si era impegnato a presentare la “Collezione di romanzi moderni di avventure e polizieschi”. Gli autori erano noti e di buon livello come G. Leroux con Il cuore rubato, E. Wallace con Il mistero Walton. Nel catalogo comparivano anche le opere di V. Williams con tre titoli dedicati a Piè storto, che riscossero un imprevisto successo. Erano stampati dalla tipografia torinese di Francesco Mittone, mio nonno.
Il secondo è quello di fornire elementi che consentano di indagare su un altro genere rispetto al poliziesco, forse di ‘bassa’ letteratura ma “sempre verde”. E l’attenzione non può che prendere le mosse da una domanda: perché è apparso tardivamente sulla scena letteraria? Forse perché nel passato le spie non erano esistite? Si dice che la prostituzione sia la professione più antica, ma anche quella della spia non è molto più recente, tanto che non vi è stato periodo storico in cui gli agenti segreti non abbiano avuto una parte importante negli affari politici e militari.
Eppure è arduo trovare un racconto spionistico di qualche interesse scritto prima del novecento, osserva un indiscusso specialista, Eric Ambler (Introduzione a Caccia alla spia, Lerici 1995). Non è del tutto centrato che prima del caso Dreyfus, vera calamita di attenzione su questi temi, pochi si fossero interessati alle spie e allo spionaggio. In realtà quel caso ha riaperto una discussione che sembrava chiusa da tempo. Nel passato la guerra si basava su una convenzione di fatto, cioè sul codice d’onore mutuato dalle regole cavalleresche medioevali. Quel codice era al di sopra delle nazionalità e svariava dal soccorrere i feriti allo scambiare i prigionieri, al rispetto delle bandiere bianche, agli impegni rituali. Sulle spie il codice era invece intriso di ambiguità, soprattutto verso quelle della propria parte, e collaborare con loro strideva con le regole dell’onore. Una spia non era un uomo d’onore e nessun militare, che invece lo era, si mostrava disponibile a degradarsi divenendo una spia. Per esser tale occorrevano qualità particolari, coraggio, abilità, lealtà, forza di carattere, cautela nella scelta delle amicizie, resistenza alla tensione. Non solo: bisognava essere anche bugiardo, ladro, corruttore, sfruttatore delle debolezze altrui.
Come ricorda Bertinetti nel suo prezioso ‘excursus’ (Agenti segreti. I maestri dello spy story inglese, Edizioni dell’asino, 2015 e sulla stessa linea Spy fiction, un genere per grandi autori, Nuova Trauben, 2014) uno dei primi tentativi, se non il primo, fu quello di J. Conrad con L’agente segreto del 1907, intessuto dai temi della guerra segreta, della cospirazione, del sabotaggio, del tradimento. L’intrigo fu tanto appassionante da interessare anche Hitchcock che ne ricavò il film Sabotaggio nel 1936. In quegli anni con questo filone si svilupparono i primi cliché, la donna in velluto, l’agente segreto britannico apparentemente sfaticato, l’onnipotente capo delle spie. Tra gli autori di quel periodo svettarono W. Le Queux, morto nel 1927 e creatore della figura di Drew, secondo molti ispiratore del più famoso J. Bond, e P. Oppenheim, autore di ben 114 romanzi di cui il più famoso fu “Il grande impostore” del 1920. Soprattutto fu celebre J. Buchan, romanziere e politico, autore nel 1915 dei Trentanove scalini anch’esso tradotto in film ad opera di Hitchcock nel 1935, poi ripreso nel 1959 ed ancora nel 1978.
Il genere non conobbe crisi, modificò le variabili, gli eroi persero alcuni tratti di virile innocenza, si scolorì la visione nazionalistica secondo cui la minaccia era contro l’Inghilterra e contro la sua civiltà, si attenuò fino a scomparire la velatura puritana che all’inizio ne aveva contrassegnato l’attività come immorale ma necessaria. Non solo la crisi venne scansata, ma come nel poliziesco si cimentarono anche scrittori di livello, come S. Maugham con Ashenden, conoscitore di quel mondo per essere stato agente britannico nella prima guerra mondiale. Come capitò a Compton Mackenzie, direttore dell’intelligence. Con la seconda guerra mondiale e con la guerra fredda la letteratura spionistica è dilagata con autori prestigiosi e tuttora solidi come Greene, Ambler, Fleming, Forsyth, Le Carré, Follet per citare solo i più seguiti.
In questa cornice compare Valentine Williams. Assunto come giornalista, aveva lavorato all’estero e allo scoppio della guerra venne mandato al fronte come inviato. Si arruolò, venne ferito e durante la convalescenza conobbe il già citato Buchan che diede la svolta alla sua vita. Questi infatti gli suggerì di scrivere storie di spionaggio grazie alle conoscenze acquisite in guerra. La prima fu L’uomo dal piè storto, cui ne seguirono altre due con lo stesso protagonista.
Quello uscito ora è ambientato nel 1918 e ha come protagonista Desmond Oakwood, un ufficiale britannico operativo in Francia. In seguito al ferimento sulla Somme gli vengono concessi alcuni mesi di congedo che vorrebbe utilizzare per andare a trovare il fratello Francis. Questi è però irraggiungibile e l’unica persona che sembra averne notizie è il suo superiore che si trova in Olanda. Lo raggiunge e gli viene mostrata una lettera con una poesia all’apparenza insensata. A scriverla è stato Francis in persona e Desmond capisce che questi si trova in Germania, arruolato come spia grazie alla conoscenza del tedesco. Visto che anche lui ha le stesse conoscenze, sebbene non abbia la stessa preparazione sul campo, decide di partire per cercarlo. Già nella prima sera a Rotterdam capisce che la missione non sarà una passeggiata: nel suo albergo, gestito da tedeschi, incontra Semlin, un americano che, in realtà, si rivela una spia tedesca. Costui perde la vita in circostanze poco chiare e nella sua camera Oakwood si impossessa di un documento all’apparenza importante vista la cura con cui era stato nascosto, insieme a una spilla che potrebbe simulare l’appartenenza allo spionaggio teutonico.
Deciso a servirsi di quei preziosi dati, ruba l’identità del morto e si spaccia per lui. Riuscito rocambolescamente a fuggire da un tentativo di tenerlo bloccato nell’albergo, raggiunge la stazione e, grazie all’insperato aiuto di un (finto) barbone, è in grado di sfuggire agli inseguitori guidati da un uomo che zoppica vistosamente. Essere riuscito a partire è un primo passo per allontanarsi dal pericolo, ma il sollievo dura poco. Con una fermata imprevista il treno viene bloccato e i passeggeri controllati, con Desmond che bluffando riesce a non essere smascherato. Proseguire, tuttavia, si rivela più difficoltoso del previsto e l’unico modo è condividere la tratta con un ufficiale tedesco che lo accompagna a destinazione. Almeno all’apparenza, in quanto una volta arrivati si presenta non Berlino (il luogo a cui faceva riferimento la lettera di Francis), quanto un castello. Al suo interno si trova nientemeno che il Kaiser in persona, a cui Desmond deve rendere conto della propria missione e poi, altrettanto inaspettatamente, finisce di fronte all’“uomo dal piè storto” come comunemente chiamato. Ma chi è in realtà costui? Gli interpellati non sono sembrati saperlo, né glielo hanno voluto comunicare.
Reggere la parte di Semlin sembra un gioco pericoloso, soprattutto quando viene rivelata la sua vera identità. A quel punto Desmond si ritrova con le spalle al muro e, proprio quando tutto sembra perduto, un altro colpo di fortuna lo assiste fornendogli una nuova occasione di fuggire. Da quel momento deve trovare il modo di crearsi un’altra identità per non farsi notare né lasciare tracce per non essere scoperto e eliminato. In questo vortice la preoccupazione di trovare l’altra metà del documento si scontra con il bisogno di ricongiungersi con Francis, opzioni che sembrano antitetiche. Lo storpio sembra fuori gioco, ma l’illusione è breve. Ritornerà (Il ritorno di piè storto) e si vendicherà (La vendetta di piè storto) nei due romanzi successivi.
Una spy-story che rivela alcuni debiti verso Buchan, che lo aveva spinto a scrivere. Protagonista è un militare di carriera e non un agente segreto, un messaggio cifrato avvia l’indagine, la minaccia nemica è presente e sempre sospesa, l’avversario è malvagio ma rispettabile e quindi ancor più degna è l’azione di contrasto. In realtà il titolo del romanzo inaspettatamente sposta l’attenzione sull’antagonista, Piè storto, il cattivo, il feroce, il condensato di ogni negatività come fosse lui il protagonista. La trama è avvincente, tentacolare, ricca di colpi di scena, figlia della fantasia dell’autore e anche di una certa esperienza sul campo. Le vicissitudini di Desmond, movimentate senza pausa, trasportano in un’Europa pullulante di spie, bugie, false apparenze e doppi giochi. Si respira un’atmosfera d’altri tempi, resa ancor più vivida dai dettagli e il pathos per la sorte di chi, da ignaro agente sul campo, tenta con astuzia di scappare da un nemico potente e, per molti aspetti, invincibile. Desmond non è ancora un agente segreto, non possiede ancora strumenti mirabolanti, non è assistito ancora da tecniche avveniristiche, ma fa il suo dovere affrontando i rischi di un momento tragico per la sua persona e per la sua nazione. Come dovrebbe essere.